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Come fanno le imprese a decidere – Metodo 12

decidere

Per definire la propria relazione fiduciaria e affettiva con l’azienda, i consulenti della vecchia scuola utilizzavano volentieri la metafora del matrimonio. Non so se fosse, ai tempi, una metafora appropriata, ma oggi, e anche se i matrimoni non sono più quelli di una volta, non lo è: ormai il consulente assume piuttosto, secondo i casi, un ruolo da colf, da psicoanalista, da genitore o da vecchia zia, da agente segreto, da gendarme, da coach, da spin doctor, da venditore di chincaglieria. Se è una persona seria si rifiuta, almeno, di travestirsi da guru o da Fata Turchina.
L’elemento che, all’interno di una relazione di consulenza, continua a rimandare a un rapporto matrimoniale è la possibilità di osservare senza veli gli aspetti più intimi e meno gloriosi dei processi.

Una delle cose che più, da consulente, mi colpiscono è la diversa percezione che alcune imprese hanno di due fattori cruciali che, nei processi decisionali, sono intrecciati: la complessità e il tempo. Ci sono aziende che, in un’ossessione di controllo senza limiti, si fanno prendere dall’analysis paralysis. E accumulano mille ricerche inconfrontabili tra loro perché provenienti da fonti diverse e realizzate a partire da criteri e su obiettivi non omogenei, fino a quando la mole del materiale è tale da disorientare chiunque. Intanto il tempo passa, i dati diventano obsoleti, le opportunità svaniscono. Eppure per decidere basta, lo ricorda Seth Godin, una quantità di dati ragionevole.
E ci sono aziende che invece, travolte da un senso di urgenza cronico, non si concedono il tempo e l’energia necessari a chiarire gli obiettivi e a procurarsi dati indispensabili, e si arrangiano con elementi raccolti a capocchia. Così, varano progetti sbilenchi. E certo, a volte bisogna lanciare un prodotto ancora imperfetto: sarà il feedback del mercato a permettere di ottimizzarlo. Ma se la strategia non sta in piedi, ad andare in crisi è il progetto nel suo complesso. E raddrizzarlo è una missione impossibile.

Ho il sospetto che entrambi questi comportamenti, in apparenza opposti, abbiano una radice comune: la paura. Che in un caso si traduce nel procrastinare ogni decisione, nell’altro diventa voglia di liberarsi dello stress di decidere il più in fretta possibile, a qualsiasi costo. Ho invece la certezza che entrambi i comportamenti influiscano negativamente sulla creatività delle imprese e sulla loro capacità di tradurre idee efficaci in innovazione.

7 risposte

  1. Più che di paura, credo che si tratti di un problema di costi. Produrre dati o reperirli costa (e anche tanto). Dargli un senso sulla base del quale definire un piano d’azione, poi, costa ancora di più perché richiede delle competenze molto specifiche.

  2. Argomento bellissimo ma iper complesso. L’idea di scrivere qualcosa di sensato (quanto rempo ci vuole? per chi? per cosa? per quali lettori? per quale avanzamento di knowledge?) toglie il fiato e, a me, qualsiasi voglia… Tu, Annamaria, ovviamente, non volermene! Allora, buone vacanze! E thanks again…

  3. @ vmontalto: sì, certo, i costi. Ma temo che questa sia una razionalizzazione: un velo di logica sopra scelte che hanno radici non così logiche. Quanto costa un progetto che zoppica, o che fallisce, perché è stato varato senza prendersi la briga di valutare i dati? Quanto costa un errore di pianificazione? Un target frainteso?Un’opportunità sprecata? E… davvero, non sto parlando di teorie. Ma di pratiche quotidiane, visibili, diffuse. E, se solo parlassimo di costi, piuttosto incomprendibili.

    1. Ostico. È un approccio ostico per le aziende italiane..generalizzo volutamente, sapendo di non potere, per dovere di spazio, essere oggettiva ed imparziale. Grassetti fece una matrice che poteva (e può ) valutare i costi della non qualità, del pressappochismo..in generale di un “progetto che zoppica” come giustamente lo definisci. Gli strumenti ci sono, le competenze per applicarli, meno. Molto meno.
      Grazie del post. Offri sempre una visuale definita, di lettura immediata e grande respiro attuale.

  4. Ha ragione Annamaria è paura di osare da una parte, dall’altra un certo modo carlonesco di fare impresa oggi. Non c’è mai tempo per la riflessione (sei inefficiente se prendi troppo tempo) e tutto deve costare poco salvo poi dimostrare il contrario con le azioni. Quante volte ci si è trovati davanti ad urgenze che poi non lo erano e allora ti chiedono di diventare guru in mezzora e la prima cosa che ti viene in mente è di scappare. Qualche volta vorrei essere fata tuchina per fare una magia che faccia scomparire il committente

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