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Anglo-pedagoghese: la strana lingua del Miur

Il sito si chiama Roars, Return On Academic ReSearch. Discute di università, istruzione, ricerca e delle politiche connesse. Ospita anche una sezione di articoli in lingua inglese. Eppure proprio Roars pubblica un breve articolo intitolato Talis, Byod, Iea Pirls! Ed ecco a voi, Siore e Siori, la neolingua del Miur, che se la prende coi termini astrusi e l’anglo-pedagoghese impiegato nel recente Piano per la formazione dei docenti.
Pesco tre esempi dalla lista pubblicata al termine dell’articolo.

LA CLASSE CAPOVOLTA. Primo esempio: la flipped classroom. Non si tratta, come si potrebbe immaginare, di un’aula piena di studenti flippati, ma della classe ribaltata, o capovolta, di cui parla Tullio De Mauro. È un’idea che scardina la tradizionale sequenza didattica costituita da ascolto passivo della lezione, studio individuale a casa e interrogazione.
Col nuovo metodo, invece, in classe si lavora in gruppo, si risolvono problemi, si sperimenta e si esercita il pensiero critico. Di tutto ciò parla anche una vivace pagina Facebook, intitolata (appunto) Classe capovolta.
È una rivoluzione che potrebbe cambiare molte cose, e che è già in atto in diverse scuole. Ma nel documento ministeriale viene citata solo di striscio (pagina 30), e in coda a un elenco eterogeneo in puro anglo-pedagoghese: project-based learning, cooperative learning, peer teaching e peer tutoring, mentoring, learning by doing.

FACENDO SI IMPARA. Ed eccoci al secondo esempio: il learning by doing. È l’imparare facendo, delineato già agli inizi del Novecento da Maria Montessori. All’estero se ne ricordano ma noi, sembra, ce ne siamo dimenticati, tanto da dover prendere a prestito il modo di dire inglese come se si trattasse di un’idea del tutto nuova per la scuola, ed esotica.
Tra l’altro: negli Stati Uniti ci sono circa 4500 scuole Montessori, in Germania ce ne sono 1140 e in Gran Bretagna ce ne sono 800. In Italia sono solo 137. Imparare facendo, a scuola, sarebbe meraviglioso. Ed è possibile. Nel piano, però, il termine viene usato in un’accezione diversa, disloca la dimensione del “fare” fuori dalle aule e concerne l’alternanza scuola-lavoro.

AFFIANCARE E CONFRONTARSI. Il terzo esempio anglo-pedagoghese riguarda i docenti. Si tratta del job shadowing. Per fortuna, in questi tempi di lavori sempre più evanescenti, non è “l’ombra di un lavoro”. Nel caso specifico degli insegnanti, consisterebbe nell’andare nella scuola di un paese straniero per un paio di settimane: si affiancano i colleghi che insegnano lì, ci si scambiano esperienze, gli orizzonti si allargano.
Nel piano, però, si parla in generale di “stage, visite di studio, permanenze all’estero al fine di affinare le competenze linguistiche e interculturali”. Il termine, che forse avrebbe senso se riferito a ciò che precisamente indica, diventa pura decorazione pedagoghese.

anglo-pedagoghese 1

ASTRUSO ED ESOTERICO.  Nella lista pubblicata da Roars ci sono anche il mentoring, il coaching e il counselling. E poi: expertise e soft skills. Ci sono non solo il peer teaching e il peer tutoring, ma anche la peer review e la peer observation. I workshop e i panel. E un preoccupante fall out, che per fortuna non è radioattivo perché riguarda le azioni di tirocinio e le loro ricadute.
Poiché a pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si azzecca, viene il sospetto che alla base della scelta linguistica di tradurre pratiche didattiche interessanti, sensate e potenzialmente efficaci in formule che l’anglo-pedagoghese rende astruse ed esoteriche ci sia uno stravagante e non so quanto consapevole presupposto: che l’uso dell’inglese sia la condizione necessaria e sufficiente per rendere automaticamente qualsiasi proposta più moderna, attraente, realizzabile e operativa.

DAL PEDAGOGHESE ALL’AZIENDALESE.  Peer review (in italiano: la revisione tra pari) appare anche nell’elenco dei Termini aziendali inglesi nell’università stilato di recente dal gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca. Il quale pazientemente ricorda che un learning tool non è altro che uno strumento di apprendimento, che un debriefing è un resoconto, che abstract è una sintesi o un sommario, che un feedback è un riscontro e che una deadline è una scadenza.
Già che c’è, il gruppo Incipit segnala l’esistenza di vari equivalenti italiani perfettamente adeguati, i quali eviterebbero di accentuare quell’immagine aziendalistica dell’università che sembra oggi imperante. E invita a riflettere sul rischio che questa fitta terminologia aziendale anglicizzante venga applicata in maniera forzosa e sia esibita per trasmettere un’immagine pretestuosamente moderna dell’istituzione universitaria.
Parole al vento.

anglo-pedagoghese 2

PERPLESSA PLATEA. Valeria della Valle mi consegna l’elenco dei termini inglesi impiegati nel corso del recente convegno I Lincei per una nuova didattica della scuola, all’interno del singolo intervento di una dirigente del Miur davanti a una perplessa platea, comprendente molti insegnanti delle medie superiori.
Eccoli: policy, shop and go, feedback, portfolio, soft skills, target, accountability, Erasmus plus (pronunciato plàs), input, top down, bottom up, workshop, best practice, education, legacy, future, community, governance, top performance (pronunciato, al solito, pérformans), customer satisfaction.

NON È TROPPO GRAVE. PERÒ… Per carità: ci sono temi più importanti. O più urgenti. O più preoccupanti.
E ancora: proprio mentre stavo scrivendo questo articolo ho ricevuto (cito testualmente) una call d’invito a una talk, cioè una telefonata per una conferenza, e dopo un istante di perplessità ho risposto senza fare una piega.
E ancora: so perfettamente che, se parlo con un gruppo di colleghi e sostituisco il termine target con “acquirenti potenziali”, vengo guardata come se fossi un’aliena. Però, e anche a rischio di apparire aliena, evito di dire che lo store management del retail deve implementare i tools per la customer satisfaction.
E comunque gli studenti non sono esattamente customer. E, santa polenta, i docenti non sono manager del retail dell’education.

Questo articolo esce anche su internazionale.it. Se vi è piaciuto, forse potreste leggere anche:
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21 risposte

  1. Mi scrive Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, per segnalarmi un’ulteriore chicca anglo-pedagoghese: il blended learning.
    Sarebbe l’apprendimento misto, o ibrido. Si sviluppa parte in aula e parte in rete.
    https://it.wikipedia.org/wiki/Blended_learning

    Il termine inglese, però, non è per nulla trasparente e, se mai, fa venire il dubbio che oltre al “blended” esista anche un apprendimento “single malt”.

  2. Mi auguro che qualche responsabile del Miur intervenga per spiegare scelte che altrimenti appaiono ingiustificate e poco rispettose verso i cittadini che non parlano inglese. Purtroppo sul sito del Miur non esiste un glossario e raramente viene spiegato il significato degli anglicismi.

    Aggiungo qualche altro esempio dal Piano Nazionale Scuola Digitale: coding, life-long, life-wide, Stakeholders’ Club, Challenge Prize (Ideas’ Box), e-inclusion, School-friendly, serious play, fluent typing, confidence gap, Problem Posing and Solving, Open Courseware, MOOC (Massive Open Online Courses), Contamination Lab, hackathon (spesso scritto erroneamente hackaton), hacklab, global hack, H-ACK SCHOOL, programma P-Tech, Learning Management System, Learning Content Management System, Girls in Tech & Science, STEM…
    E poi da altri documenti public speaking, elevator pitch, schoolkit, School Bonus, traineeship, kick off meeting
    Non da ultimo, il patrocinio a iniziative con nomi che in inglese non hanno alcun senso (“inglese farlocco”), come ScholarsJob, JOB&Orienta, bulloff ecc.

    1. Ciao Licia!
      … sembra che sia in arrivo anche uno Student Act. Il fratellino piccolo del Jobs Act.

      1. Avvistato! A proposito del nome la ministra Giannini ha dichiarato: “Il termine Student Act non l’ho inventato io: io lo chiamo diritto allo studio, però va bene lo stesso” perché “l’italiano è una delle lingue più permeabili ai forestierismi fin dalla sua storia più antica”.
        Peccato che al Miur prevalga questo atteggiamento e non si sfrutti invece l’opportunità denominare i nuovi concetti in italiano, oltretutto nella posizione privilegiata di non dovere temere alcuna “concorrenza terminologica”.

  3. Sicuramente la sistema di insegnamento in italia a tutti i livelli ha forte bisogno di “aggiornamenti” (per mancanza d’un altra parola), essendo troppo allegato al 19° Secolo, ma, coprirla con un strato della scuola di affari americana condizionato dei psichiatrici è un sbaglio. Vedresti. Dico questo da un “anglo”.

  4. Gentile Annamaria Testa, buongiorno.
    Mi chiamo Mauro, sono italiano ma vivo in Brasile, a San Paolo (niente spiagge, samba, carnevale ecc…ma una New York dell’America latina, per evitare il solito “che invidia”!!) dove insegno lingua italiana LS ai brasiliani.
    Ascolto quasi tutta la programmazione di Radio Rai 3 via podcast, e nelle ultime settimana mi capita di ascoltare la pubblicità per la vaccinazione delle persone con più di 65 anni. Ora, è possibile chiamare una campagna così Happyaging? http://www.happyageing.it/. Tra l’altro parla dell’uso dell’imperativo e poi usa un termine inglese che mi smebra del tutto inutile…Io a scuola parlo sempre degli anglicismi, seguo da tempo il dibattito al riguardo (complimenti per il bel video su Ted nel quale parla dell’uso/abuso delle parole inglesi), non ho nulla contro i nuovi termini, però, davvero, mi sembra si stia esagerando! Happyaging, ma perché?
    Un saluto
    Mauro

    1. Gentile Mauro Finazzi,
      la scorciatoia dei nomi inglesi è allettante per chi non abbia troppa voglia di impegnarsi a cercare un decente nome italiano. Come scrivevo qualche tempo fa, in questo articolo,
      https://nuovoeutile.it/parole-italiane-e-inglesi/, una definizione inglese usata in un discorso in italiano appare più compatta e indiscutibile (oltre che più moderna) proprio perché è in inglese. E i nomi inglesi hanno (a prescindere da ciò che i nomi significano o suggeriscono, e perfino se vogliono dir poco) un’omogeneità percettiva che manca del tutto ai corrispondenti italiani letterali.

      Ed ecco perché happyageing appare accettabile, mentre “invecchiamento felice”, “invecchiare felicemente” o “vecchi e contenti” sembrano improponibili. In sostanza: usare l’inglese è una scorciatoia, che permette di coniare nomi cha sembrano accettabili, anche se in realtà, per quel che dicono, sono sciocchini, banalissimi o inappropriati.

  5. Il fatto è che molti dei termini citati corrispondono a concetti su cui si riflette nel mondo della ricerca, in inglese (perché nel mondo della ricerca si parla principalmente inglese). Prendiamo “blended learning”: chi si occupa di ricerca in educazione sa esattamente a quale concetti ci si riferisce con tutti gli annessi e connessi. Parlare di “insegnamento misto” non è la stessa cosa, uno dovrebbe prima tradurselo in inglese per capire di cosa si parla.
    Per questo è doppiamente importante usare l’italiano: primo, per abituare anche chi segue la ricerca in inglese a usare parole italiane quando disponibili; secondo, per stimolare la ricerca e la pubblicazione anche in Italia e in italiano.

  6. Ciao Annamaria,
    non vorrei abusare dell’espressione “dipende dal contesto”, ma in questo caso… dipende dal contesto. 🙂
    Sono uno sviluppatore web, quindi ti capisco bene quando scrivi “…se parlo con un gruppo di colleghi e sostituisco il termine target con “acquirenti potenziali”, vengo guardata come se fossi un’aliena…”. Ed è giusto così, in ambito lavorativo esiste un dizionario condiviso di termini tecnici, talvolta anche inventati, che è indispensabile per capirsi al volo.

    Ma cavolo, c’è lavoro e lavoro!
    Potrei anche arrivare a comprendere (facendomi “u segno d’aa croce c’aa mano mancina”, come diceva mia zia) che alcune assurde espressioni vengano utilizzate in contesti, perdona il neologismo, giunglo-aziendali. Ma che vengano adottate dal Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca…

    E non so come finire, fai un po’ tu. 🙂

  7. La campagna promossa da Annamaria e dall’Accademia della Crusca ci aveva fatto tirare un sospiro di sollievo (parlo al plurale perché siamo molti).

    Non se ne può più di “spread” visto che esiste un termine italiano “differenziale”. Peggio ancora è il Bail-in (prelievo forzoso) applicato con la direttiva europea in caso di crisi bancarie. Questi termini inglesi hanno la funzione di oscurare il significato.

    Altra cosa è l’uso smoderato di parole inglesi da parte del Ministero. Questa flipped classroom, ad esempio.
    Nel 1973 alla Scuola all’aperto “Casa del sole” di Milano noi la praticavamo in una sperimentazione verticale in cui, non solo si lavorava in gruppi, ma si collegavano tre ordini di scuola: materna, elementare, media.

    Altrettanto a Roma nel 1985. La dirigente scolastica mi dà carta bianca per una sperimentazione informatica con Macintosh per la realizzazione di un giornale PassaParola

    https://m.youtube.com/watch?v=K5hPeFr03YE

  8. Anche in campo pedagogico ed educativo questa tendenza a usare termini non correnti e presi in prestito da altri linguaggi denota da una parte la mancanza di chiarezza sulle questioni e sulle problematiche e dall’altra il desiderio di buttare fumo negli occhi a chi non conoscendo l’inglese potrebbe magari accontentarsi dei bla bla bla che diventano così senza senso

  9. C’è una cosa del post di AT sulla quale sono in profondo disaccordo. E’ quando afferma “Per carità: ci sono temi più importanti. O più urgenti. O più preoccupanti.”
    Credo che questa demenziale diffusione dell’inglese a tutti i livelli sia invece una spia di un “tema importantissimo, urgentissimo e preoccupantissimo”.
    Rinunciare a pensare e quindi a parlare nella propria lingua (con tutto il carico di significati che questo comporta) significa rinunciare a pensare. Punto (come direbbe qualcuno…)

  10. Il linguaggio specialistico fa la differenza, esso denota l’appartenenza a una casta sacerdotale che con la liturgia dei convegni e dei documenti ufficiali segna la differenza fra chi sa e chi non sa. La lingua evolve e mutano i significati, e ciò presuppone una Storia. Ma chi vive solo nel presente e vede la storia come un inutile passato e il futuro come continuazione dell’oggi, proprio per mantenere il suo statuto deve ricorrere al rito per la reificazione del presente. Non adotta l’inglese o un’altra lingua che ritiene più consona ad esprimere sottili significati (nei modi renziani che sappiamo e che ho già citato nell’intervento precedente), semplicemente compone un miscuglio, una babele funzionale, messa in atto per marcare i confini fra il noi che abbiamo il verbo– e quindi il potere– e il voi che non sapete e non siete in grado di capire.

  11. Il linguaggio specialistico fa la differenza, esso denota l’appartenenza a una casta sacerdotale che, tramite la liturgia dei convegni e dei documenti ufficiali, segna la differenza fra chi sa e chi non sa. La lingua evolve e mutano i significati, e ciò presuppone una Storia. Ma chi vive solo nel presente e vede la storia come un inutile passato e il futuro come continuazione dell’oggi, proprio per mantenere il suo statuto deve ricorrere al rito per la reificazione del presente. Non adotta l’inglese (nei modi renziani già citati) o un’altra lingua che ritiene più consona ad esprimere sottili significati: semplicemente compone un miscuglio, una babele funzionale, messa in atto per marcare i confini fra il noi che abbiamo il verbo –e quindi il potere– e il voi che non sapete e non siete in grado di capire.

  12. Sono un medico e, quando riesco a liberarmi dal lavoro, come tutti cerco di aggiornarmi anche partecipando a corsi-convegni-congressi. Puntualmente, mentre ascolto i relatori, appunto le parole dette non solo in inglese ma anche in italiese (anche con un po’ di spocchia, come se pensassero in inglese e dovessero tradurre in italiano, il che evidentemente secondo loro li mette ad un livello superiore). Espressioni in costante incremento nel tempo e, spesso, veramente infelici: come dire “ricorrenze” al posto di “recidive”. Ovviamente mentre sfilano le slides ed i cartoons che, detti in italiano, sarebbero semplici diapositive e disegni ma così acquisiscono un valore aggiunto dalla lingua…poveri noi

  13. Non sempre, per carità. Diciamo, il 99,99% delle volte che qualcuno sceglie una parola inglese quando ce n’è una italiana perfettamente adeguata è perché vuole dire qualcosa di spiacevole o fastidioso senza essere contraddetti.
    Si inizia così, poi le parole si radicano e – come accade nelle lingue vive – mutano di significato in maniera imprevedibile e diventano degli orrori, per di più incomprensibili agli inglesi veri.

    Per esempio, dialogo con una collega.
    – …su questa cosa dovresti essere più smart.
    – Now, am I stupid?
    – Eh?
    – Sai cosa vuol dire smart, vero?
    – Certo, significa… abile… ferrato…
    – No, significa intelligente. Quindi mi hai dato dello stupido.

    Che insegnamento possiamo trarre? Litote + anglicismo inutile = fregatura o offesa.

    Non sempre, sia chiaro. Diciamo il 99,99% delle volte, chi usa gli anglicismi a vanvera non è pronto a un vero colloquio in lingua inglese.

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