Nuovo e utile

Tra comunicare, navigare, leggere. E, magari, inventarsi un’impresa

La prima edizione del Festival della comunicazione di Camogli mi è parsa energica e affollata.
Un fatto curioso: i più giovani tra i relatori che sono andata ad ascoltare hanno parlato a partire dalle loro storie di vita, i meno giovani  a partire dalle loro visioni del mondo. A rigor di logica, ci sarebbe stato da aspettarsi il contrario. Ma, poiché si trattava di giovani che hanno fatto scelte interessanti e di meno giovani che presentavano visioni suggestive, è andata bene anche così.
Qui di seguito provo a raccontarvi alcune delle cose che ho intercettato cercando interventi che parlassero anche di web, o che mi incuriosissero per il taglio o l’argomento.

Il semiologo Umberto Eco apre la manifestazione distinguendo tra comunicazione soft e hard (qui il video dell’intervento). Dice che oggi definiamo “grande comunicatore” chi sa esprimere le proprie idee, mentre una volta lo si sarebbe chiamato “grande oratore”.
Ma comunicare non è solo questo: è, letteralmente, trasportare volontariamente nella mente di qualcun altro qualcosa che sta nella nostra mente (questa definizione non è niente male).
E se il canale (aria, fili elettrici, onde radio) grazie a cui trasportiamo quel qualcosa in passato veniva ritenuto irrilevante – nient’altro che “ferraglia hard” – oggi sappiamo che non è così, specie quando passiamo dai processi elementari della comunicazione interpersonale alla più complessa (per quantità di interlocutori diversi e di possibili influenze ambientali e situazionali) comunicazione di massa.
La partecipazione emotiva è influenzata dalla natura del medium, cioè della “ferraglia”. E tutto si è complicato ulteriormente con l’avvento di internet.

Già: internet non cambia solo la qualità dei processi. Il filosofo Maurizio Ferraris segnala che a cambiare è anche la – definiamola così – qualità della risposta dell’interfaccia umana.
Il web da una parte sembra costringere ciascuno di noi a una mobilitazione totale (chi non si sente obbligato a sbirciare l’ultimo sms, anche a notte fonda?). Dall’altra, ci offre non solo comunicazione, ma registrazione. E la registrazione è memoria, l’essenza stessa di qualsiasi società e in massima misura della società contemporanea.
A sua volta, la registrazione implica una responsabilizzazione: esige risposte, perché ogni domanda, nella misura in cui è registrata, non può più essere ignorata. Ogni domanda è un ordine, che spinge a “fare” qualsiasi cosa, anche perfino ricatti o gaffe madornali, incaute dichiarazioni d’amore o di guerra. E, in molti casi, spinge all’azione di lavorare gratuitamente producendo plusvalore assoluto. Qui, a proposito dello stesso tema, Ferraris su Micromega.

Di questa sindrome parla il giornalista Roberto Cotroneo. Ricorda che Facebook è il quarto paese del mondo dopo India, Usa e Cina. Oggi nel mondo ci sono cinque miliardi e quattrocento milioni di apparecchi fotografici, e con Final Cut, un programmino che costa venti dollari, chiunque può montare un video. Nel 1936 a New York c’era un pianoforte per ogni famiglia e mezza. Oggi abbiamo tutta la musica che vogliamo, subito, sempre.  Se abbiamo una domanda (chi era Chet Baker?) possiamo soddisfarla in modo istantaneo e completo.
Eppure Facebook è un “mondo analogo”, non un mondo vero: da una parte essere famosi su Facebook è un po’ come essere ricchi coi soldi del Monopoli. Dall’altra condividere con chi non conosciamo vuol dire fare broadcast, cioè pubblicare.

Tutto ciò, fra l’altro, rivoluziona i meccanismi di produzione e distribuzione delle informazioni. Silvio Gulizia, giornalista e consulente per startup tecnologiche, ricorda che secondo il tecnologo Clay Shirky i quotidiani spariranno entro una decina d’anni. Di fatto, a partire dal 2000 c’è stato un crollo degli investimenti pubblicitari e un terzo dei giornalisti ha perso il lavoro. Eppure Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, scommette nella lettura su tablet e nel 2013 compra il Washington Post, e anche il fondatore di eBay investe nelle news online.
Se non ci limitiamo alla carta stampata ma comprendiamo anche la rete, il mercato delle notizie è in crescita, c’è spazio per più di un vincitore e gli investimenti necessari per partire sono tutto sommato modesti. Del resto, metà della gente sui social network legge o commenta notizie, sono news metà dei video visti, e i più interessati all’informazione online sono i giovani sotto i trent’anni: gli stessi che non si sognerebbero mai di comprare un quotidiano di carta, che vogliono essere raggiunti da news personalizzate e che sono disposti a partecipare alla creazione di informazione.
Ma quali caratteristiche hanno le innovazioni in rete? Partono da una innovazione sovversiva (il relatore dice “disruptive”), sono introdotte da qualcuno che è estraneo alle logiche dominanti, cercano mercati nascenti o molto arretrati, offrono prodotti  o soluzioni meno costose dell’esistente, si fondano su nuove tecnologie. Le innovazioni legate all’informazione si sviluppano su due filoni: da una parte contenuti (creati, ricombinati, segmentati per pubblici), dall’altra sui servizi di raccolta e visualizzazione dati e sul fact checking. E anche in Italia qualcosa si sta muovendo.

Lavora sui contenuti il giovanissimo (24 anni) divulgatore informatico Salvatore Aranzulla. Ha cinque fratelli, un padre infermiere, vive in uno sperduto paesino della Sicilia e comincia a scrivere di informatica a 12 anni: “io tornavo a casa da scuola e non c’era altro, e quello era anche un modo per evadere”.
Impara a spiegare in modo semplice scrivendo per altri, a sedici anni fonda il suo blog. A diciotto, la sua prima società. Sei anni dopo dà lavoro a quindici persone, ha individuato un modello di comportamento tanto lineare quanto brillante: Aranzulla recensisce solo roba che interessa a molte persone – come fa a saperlo? Glielo dice un algoritmo – che sottopone a test e che lo convince, e poi offre spazi pubblicitari assai ben pagati alle aziende produttrici. Lui adesso si sta laureando in Bocconi e studia da pasticciere con Gualtiero Marchesi (“ma per ora soprattutto lavo i piatti”) perché crede che bisogna valorizzare le abilità manuali, e saper cambiare.

Anche Amedeo Balbi parla di contenuti e della (negletta, nel nostro paese) comunicazione scientifica. Lui decide di fare l’astrofisico dopo aver visto Guerre stellari da bambino, e di fare il divulgatore perché sua madre non riesce a capire che cosa accidenti sta studiando.
Se lo scopo primario della divulgazione è farsi capire, dice, il segreto è creare immagini vivide, anche a costo di sacrificare un po’ di complessità e precisione. D’altra parte anche i modelli scientifici semplificano la realtà, ed è Einstein a dettare la norma: bisogna rendere le cose più semplici possibili, ma non più semplici di così.
L’imperativo, invece, è trasmettere l’entusiasmo, la meraviglia e la curiosità dello scienziato. Al politico che gli chiede a che cosa serve la sua ultima scoperta sull’elettromagnetismo, Farady risponde: al momento non ne ho idea, ma so che in futuro lei potrà metterci una tassa.

L’intervento più evocativo? Forse è quello di Corrado Augias (qui il video integrale) sulla differenza tra vedere e guardare e sulla (immutata, anche con il web) fatica della lettura. Guardare, dice Augias, mobilita solo una parte del nostro cervello, vedere stimola l’intero cervello. La tv “si guarda” anche a patto di non capire. La parola parlata, specie se accompagna immagini, non tollera un’alta densità di contenuto.
La parola scritta è la forma di comunicazione più alta e complessa anche per la sua stabilità. Ed è anche altamente innaturale (e dunque civilizzata): ci obbliga a decifrare segni simbolici ambigui, ci obbliga a “vedere” dentro lo scritto, a colmarne i vuoti, a dedicare a questo compito un’attenzione totale, a dialogare con noi stessi e, come scrive Machiavelli, ci permette di “vestire panni reali  e curiali”.

L’intervento più divertente è quello del semiologo Paolo Fabbri, intitolato Est iniuria verbis. Tema: le parolacce. Alla libertà di parola del Sessantotto è seguito un periodo post vittoriano di buoni sentimenti, in cui le parolacce sono state sostituite da puntini e bip e gli spazzini si sono trasformati in operatori ecologici. Ma ora stiamo assistendo a un’inversione cattivista: il linguaggio è un energumeno, e il superamento del tabù ha provocato una controreazione passionale della stessa intensità: del resto, l’etimo latino di “insulto” è “saltarsi addosso”, e insultare è un’arte marziale verbale. Qui un testo di Paolo Fabbri sul tema.

Infine: insieme a Luca De Biase, la sottoscritta ha parlato di quanto sarebbe opportuno costruire un immaginario sul nostro paese capace di andare oltre gli stereotipi più consumati (caffè, pallone, spaghetti, italiani brava gente…). Insomma: dovremmo costruirci un sogno un poco più grande a proposito di noi stessi e poi, come dice De Biase, dovremmo svegliarci, e realizzarlo.
Volendo, ci sono un altro paio di cosucce in questo video, in cui la sottoscritta è, come al solito, imbarazzatissima davanti alla telecamera. Alla faccia della comunicazione.

7 risposte

  1. Che dire!
    Annamaria non è mai banale ciò di cui parli, sei acuta e stimolante, e francamente sono un po’ invidioso!

  2. Buongiorno Annamaria.
    Ho seguito in streaming e su youtube gli interventi dei vari ospiti, ma non ho trovato il suo con De Biase che, assieme a quello di Usai, era tra quelli che mi interessavano maggiormente.
    E’ possibile recuperarlo da qualche parte della Rete?
    Grazie

    1. Ciao Massimo. Temo che l’intervento non ci sia. C’è solo l’intervista che ho linkato al termine del post.

  3. Eh … i sogni … sogni che perdono colore giorno dopo giorno, lavati e sbiaditi dai raggi di accecanti promesse e dalle gocce di scroscianti acquazzoni di parole.

    I sogni, i nostri sogni, rappresentano l’ultimo appiglio cui possiamo aggrapparci, pur spezzandoci le unghie, per non scivolare nel vuoto e svanire come piccoli granelli di sabbia spazzati da un vento impietoso.

    Già, Annamaria, gli stereotipi sono una pesante ancora che ci trasciniamo dietro lasciando solchi profondissimi, siamo quelli che affondano le navi … ma anche quelli che sanno risollevarle.

    Svegliamoci, apriamo gli occhi e facciamo in modo che i nostri sogni diventino i germogli sulle pareti di quei solchi profondi.

    Sono certo che molti germogli cresceranno, lentamente ma cresceranno, e potremo scorgerli solamente se saremo in grado di vedere … e non guardare.

    Ancora una volta: GRAZIE !

  4. Buona sera redazione,
    vi riincontro dopo molti mesi e trovo sparse tra le idee, analisi profondamente alte.
    Alte come me nei momenti migliori e profonde come il mio stomaco quando è chiuso. Pensate così ben composte, facili da ‘sentire’. Redazione…certe cose di te meritano il sole.

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