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Creatività per le mani – Idee 139

La creatività riguarda la mente, il pensare e l’intuire, ma non è una faccenda astratta e dematerializzata: è anche corpo, e uso e sapienza del corpo. E, in primo luogo, manualità.
In questa prospettiva condivido con voi tre suggestioni visive che un recente giro nella Sicilia occidentale mi regala: tutte hanno a che fare con l’adoperare le mani con perizia e consapevolezza.

Cucinare. Entrare nella cucina di Marilù Terrasi è un privilegio. Guardarla preparare il cous cous incocciato a mano è assistere a un’operazione alchemica.
La semola cruda e molita a pietra viene “incocciata”, cioè inumidita spruzzando poca acqua, e lavorata con gesti circolari: se il gesto non è giusto o il senso viene invertito, il processo si interrompe come capita con la maionese e i cocci, cioè i granelli di cous cous, si “scocciano”.

Quando i cocci sono formati, – e devono essere uniformi (se non lo sono bisogna friculiarli, cioè sfregarli tra le mani) – vengono conditi con olio, sale, cannella, cipolla, prezzemolo, profumati con alloro e bucce di limone, e disposti in una pentola di terracotta forata sul fondo, Questa viene impilata sopra una pentola d’acqua insaporita con erbe odorose e chiodi di garofano. Le due pentole vengono poi sigillate con un collare di acqua e farina impastata (cuddura) che tiene il vapore. Con gli avanzi di pasta si fanno dei nodini, che vengono messi a cuocere sopra il cous cous: una ghiottoneria, in passato riservata ai più piccoli, in attesa della cena.

Una volta cotto, il couscous viene spostato in un altro recipiente di terraglia, la mafaradda, poi abbiviratu con brodo e sugo, infine lasciato riposare al calduccio, coperto da un plaid come se fosse un infante. L’intero processo dura diverse ore.
Guardando il video qui sotto vi basta poco più di un minuto per farvene un’idea: è la preparazione di un’intera cena a base di cous cous di pesce, carne, verdure. A conclusione, un inedito cous cous dolce.

Terrasi mi racconta che il cous cous, alimento-base dei beriberi del Maghreb, si è diffuso in terre molto lontane tra loro: Sicilia, il sud della Sardegna, Liguria, alcune regioni francesi e spagnole. A esportarlo, nel Seicento, sarebbero stati i pescatori di corallo che, provenendo da tutte quelle terre, si radunavano nell’isola di Tabarca.
Racconta anche quanto è diverso il cous cous tradizionale da quello industriale precotto: niente sapienza delle mani, lì, e solo due minuti per preparare qualcosa che presenta solo una pallidissima somiglianza con l’originale.

Riparare. La pesca dei tonni è stata per secoli un pilastro dell’economia trapanese. Ora non più: la pesca industriale intercetta i pesci ben prima che arrivino sotto costa e le tonnare sono state chiuse e abbandonate. Qualcuna è stata recuperata, come la tonnara di Favignana: un bellissimo esempio di archeologia industriale ora trasformato in museo.

Ma i porti sono ancora pieni di pescherecci. Dunque non dovrei stupirmi più che tanto quando, nell’unico angolo ombroso che incontro in un pomeriggio assolato, trovo un gruppo di compìti signori intenti a riparare reti. Mi fermo a osservare la sicurezza dei loro gesti, e torno a ragionare tra me e me sul tema della manutenzione. Chiedo se posso scattare una foto e, nel giro di un istante, l’intero gruppo si ritrova semicircondato da turisti in estasi, armati di macchine fotografiche. Forse l’idea del riparare e conservare, e il fascino per la sapienza manuale non riguardano solo me.

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Giocare. Il battimani è un gioco da ragazze, ed è fatto di niente. Lo giocavo anch’io da bambina negli anni Cinquanta, e immagino che l’abbiano giocato mia madre, mia nonna… dopotutto, si tratta solo di battere le mani a ritmo. Ma non avevo mai visto l’intricata, incantevole variante giocata da Chiara e Caterina. Stiamo tutti ad aspettare un traghetto e resto a guardarle. Poi chiedo se posso girare un video.
Si mettono a ridere. “Speriamo di non sbagliare”, dicono. Beh, non sbagliano un colpo.

L’immagine che apre questo articolo è di Cath Riley. Questo articolo esce anche su internazionale.it

3 risposte

  1. Leggo il post … e la mia mente torna ancora una volta alla manifestazione “Di che colore è il vento” del 2011, ideata per portare alla conoscenza del vasto pubblico le potenzialità della lettura tattile.
    Proprio così, mani utilizzate per “scoprire”, leggere, capire.

    Rivivo quei brevi momenti e quell’esperienza, affascinante e sconvolgente allo stesso tempo.
    Rivedo le mani e le dita “affamate” di quei bambini correre su sagome e contorni, a volte rapide a volte incerte, nel tentativo di attribuire un significato a quelle forme contenute da libri molto speciali.
    Mani che si trasformano in veri e propri occhi della mente e mi lasciano, oggi come ieri, senza parole.

    Ricordo le attività proposte ai presenti ed i miei tentativi (falliti) di riconoscere forme, sagome e materiali utilizzando soltanto le mani.

    Le nostre mani raccontano molto di noi, sono strumenti eccezionali e dovremmo “ascoltarle” forse più spesso … con gli occhi chiusi …

  2. Molto interessante, Annamaria soprattutto per una persona come me che non ama cucinare e non sa sa ricamare. Non ho scritto a caso RICAMARE. Mia suocera aveva questo dono e realizzava meraviglie che conservo e uso: una tovaglia a “punto ago”, centrini fatti con il tombolo, tende ricamate a “punto antico” e altre magie delle mani.

    Non ho modo di mostrarle e quindi ho trovato su youtube una narrazione interessante di questa magnifica abilita che mi piace condividere in onore delle mamme e delle nonne.

    https://www.youtube.com/watch?v=PtiIaT5Nv-w

  3. L’intelligenza delle mani, legata alla memoria muscolare, è argomento ricco e interessante. Penso alla musica: quando suono il pianoforte e provo a chiudere gli occhi, a poco a poco cambia il rapporto collo strumento, ma anche la percezione del mio corpo. E le mani sanno il fatto loro.

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