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Il design anonimo e il pilone sbilenco – Idee 141

L’installazione-simbolo del London Design Festival 2015 è un pilone dell’energia elettrica pesante quindici tonnellate, piantato a testa in giù, visibile dall’aereo e dal Tamigi e messo sbilenco sopra una strada, mi auguro, non di frequente passaggio.
Leggo qualche spiegazione: si tratterebbe di un’ installazione “sorprendente”, che vuole celebrare la precedente vocazione industriale del sito e il suo sviluppo residenziale ) prossimo venturo (15mila nuove abitazioni previste). Ma non resto convinta. Anzi, mi frulla per la testa un pensiero malevolo, acido e passatista: “e vabbè, che c’entra ‘sta roba col design?”.
E pensare che quattro anni fa il medesimo London design festival aveva lanciato un concorso per riprogettarli, i piloni dell’energia elettrica: un segno territoriale pervasivo, il cui aspetto è rimasto sostanzialmente immutato dagli anni venti del secolo scorso. Qui, raccolte dalla Bbc, potete vedere alcune proposte. Qui i finalisti. A vincere è stato il pilone a forma di T.

Il design è una cosa meravigliosa: aggiunge valore, logica e piacevolezza agli oggetti. È un elemento competitivo strategico per le imprese perché rende unici e più desiderabili i prodotti. Ci migliora la vita aggiungendole comodità e bellezza. è un’espressione importante della cultura materiale, e come tale testimonia ed esprime lo spirito del tempo.
E certo, può avere un lato ludico.
Ma credo che non possa, in contraddizione con quanto hanno affermato generazioni di maestri, darsi l’obiettivo primario di essere “sorprendente e spettacolare”, e soprattutto credo che non possa darselo a prescindere dalla (o addirittura a scapito della) funzione dell’oggetto progettato. Dunque: che c’entra l’installazione simbolo con la manifestazione simboleggiata?

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E vabbè, uno può dire che il design è design e il pilone è arte, in quanto tale separata da qualsiasi funzione materiale. Ma il gesto artistico consiste nel prendere un pezzo “ready made” di design industriale, ruotarlo, dislocarlo e dargli un titolo suggestivo? Non è che un’operazione del genere l’aveva già fatta, per dire, Marcel Duchamp cent’anni (meno due) fa?
A questo punto il pensiero acido e passatista si precisa. Forse è solo una questione di visibilità mediatica, da conquistarsi a costo di tradire sia i criteri fondanti della disciplina simboleggiata, sia (sbaglierò, eh) il compito dell’opera d’arte: trasmettere un “di più” di senso, e farlo in modo inedito.
Proprio il desiderio esasperato di rimbalzare sui media (oggi condiviso, va detto, da diverse espressioni della creatività applicata tra moda, pubblicità, architettura) potrebbe spiegare, per esempio, anche il progetto dello stravagante televisore a forma di i maiuscola sbeffeggiato da Wired.

E allora mi viene voglia di parlarvi del design anonimo, giusto per raccontarvi tutta un’altra storia.
Il designer produce per il consumo a lungo termine, dice Bruno Munari nel corso di una lezione all’Università di Venezia. E aggiunge: mi sono permesso di dare il Compasso d’oro a ignoti. Autori che non sanno nemmeno di essere designer, ma producono oggetti che si vendono sempre: la sedia a sdraio da spiaggia, che più semplice di così non si può fare. O il leggìo a treppiede dell’orchestrale.
Il compasso d’oro è un prestigioso premio di design, ma ovviamente il “Compasso d’oro a ignoti” è un premio inventato. Tuttavia negli anni Settanta Munari lo assegna effettivamente pubblicando su Ottagono e su Domus, due reputatissime riviste, oggetti che sono espressioni di design anonimo, e che del buon design hanno tutte le caratteristiche: semplicità, funzionalità, uso adeguato dei materiali. Sono oggetti che restano identici a se stessi nel tempo, e che difficilmente potrebbero essere migliorati. Quattro esempi di design anonimo vengono ulteriormente celebrati da una serie di francobolli dedicata a Bruno Munari  ed emessa dalla Repubblica di San Marino.

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Alberto Bassi, storico del design e docente alla IUAV di Venezia, consolida il concetto di “design anonimo” pubblicando diversi anni dopo un libro intitolato Design anonimo in Italia: settanta oggetti, dal fiasco per vino alla classica sedia chiavarina, dal cappello di feltro Borsalino alla coppola, alla Moka Bialetti. Qui potete vederne alcuni. La lezione “anonima” merita oggi di essere ripensata: essere, progettare e produrre senza vanità, inutili esibizionismi, senza per questo escludere emozione, passione e altre nuove qualità (necessarie o superflue che siano) delle merci, scrive Bassi.
Nella rassegna c’è un apparente paradosso: i nomi degli autori di alcuni degli oggetti sono più che noti. C’è perfino la bottiglia del Campari Soda disegnata da Fortunato Depero. Eppure, la totale assenza di narcisismo progettuale degli esempi di design anonimo selezionati li accomuna tutti quanti: diventano, dice Bassi, super oggetti, necessari e permanenti. E, per esempio: su quante scrivanie si trova da decenni, identico a se stesso, quella meraviglia del design anonimo che è la cucitrice Zenith?
Un criterio analogo sembra guidare la selezione di Classici del design quotidiano a cui il Guardian ha dedicato, nel corso di tre anni, una meravigliosa serie di sessantaquattro articoli: qui li trovate tutti raccolti, in ordine inverso. Dategli almeno un’occhiata: questi la visibilità mediatica di sicuro non se la sono cercata, eppure se la meritano davvero.

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Al design anonimo, con il titolo No Name Design, la Triennale di Milano ha recentemente dedicato una mostra che ha raccolto mille oggetti d’uso quotidiano, scelti per la loro semplicità e le qualità tecniche ed estetiche. Le immagini della mostra illustrano questa pagina.
Una versione più breve di questo articiolo esce anche su internazionale.it

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