Diventare scrittori

Diventare scrittori. Si può davvero, e in un singolo momento?

Ci sono singoli momenti in cui è possibile diventare scrittori: questa, almeno, è la percezione di alcuni che poi sono diventati scrittori per davvero.
Racconta tutto ciò un grazioso articolo di Nicola Lagioia. Le storie narrate sono belle. Le possibili conclusioni, però, mi sembrano potenzialmente fuorvianti. Ma comincio dalle storie e, anzi, ne aggiungo un paio.

Ad Haruki Murakami, scrive Lagioia, succede di diventare scrittore guardando una partita di baseball. A Garcia Maquez capita visitando con la madre il paese in cui è nato, Aracataca, che nella trasfigurazione letteraria diventerà Macondo.
A William Faulkner capita quando incontra lo scrittore Sherwood Anderson. A Mary Shelley nel corso di un’estate gelida e piovosa, quando Lord Byron, che ospita lei e altri amici sul lago di Ginevra, propone di scrivere una storia di fantasmi per ingannare il tempo. A scatenare l’immaginazione di Shelley sono le chiacchierate dei compagni di soggiorno e un incubo notturno. È il 1816, l’anno senza estate, funestato da catastrofi a causa della spaventosa eruzione del vulcano Tambora in Indonesia: raccolti distrutti, nevicate rosse, carestia, la prima pandemia di colera. È questo lo scenario in cui viene concepito Frankenstein, o il moderno Prometeo.

Del resto, mi ricordo che anche Andrea Camilleri racconta il momento esatto in cui incontra il linguaggio inedito che lo renderà famoso e apprezzato. È al capezzale del padre, e per intrattenerlo gli racconta una storia a cui sta pensando. Lo fa usando il modo di parlare di casa, che alterna e mescola italiano e dialetto: in quel momento si rende conto di aver finalmente trovato il modo in cui  può e deve scrivere. E tutti sanno che una (ai tempi ignota e poverissima madre single) Joanne Rowling trascrive su un fazzoletto di carta la prima idea di quella che diventerà la saga di Harry Potter nel corso di un viaggio in treno tra Manchester e Londra, funestato da un ritardo di quattro ore.

EPIFANIA E ILLUMINAZIONE. Lagioia dice che anche l’incontro con un maestro può servire (certo che sì!) e, nel corso dell’articolo, usa due termini: “illuminazione” ed “epifania”. Entrambi esprimono istantaneità, si riferiscono all’esperienza di avere una visione inedita e hanno un paio di implicazioni interessanti.
Nel linguaggio corrente, “epifania” si riferisce all’apparizione della stella che guida i magi a Beltemme (da lì la festa dell’Epifania). Ma più estesamente vuol dire manifestazione, apparizione, rivelazione. Nel contesto che stiamo esaminando, il termine sembra indicare che si possa “diventare scrittori” grazie al verificarsi di un fatto esterno rivelatore.

Invece, e se non stiamo parlando di lampade ma di processi creativi, “illuminazione” è il modo italiano per dire insight, il termine specifico che definisce il momento in cui, nel corso di un processo creativo e dopo un periodo più o meno lungo di incubazione, cioè di elaborazione inconscia, tutti gli elementi si riconfigurano in una nuova struttura di pensiero. E qui stiamo di sicuro parlando di un cambiamento interno, a causa del quale sarebbe possibile diventare scrittori.

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TRE TIPI DI CAMBIAMENTO. Ed eccoci alle conclusioni potenzialmente fuorvianti. Di certo ci sono momenti in cui l’accadere di un fatto esterno, il verificarsi di una casualità o il semplice completarsi di un processo mentale sviluppatosi sottotraccia, spesso in totale inconsapevolezza, cambia le cose: ne abbiamo parlato anche qui su NeU.
Se stiamo parlando di scrittura, questo può significare tre tipi di cambiamento: da una parte, la sensazione che vogliamo e possiamo davvero essere in grado di scrivere qualcosa di rilevante (succede a Faulkner incontrando Anderson).
Dall’altra, l’accendersi dell’idea di che cosa scrivere (succede a Marquez ad Aracateca, a Rowling sul treno).
Dall’altra ancora, la percezione di una nuova e originale possibilità linguistica e stilistica (Camilleri con il padre).

TRA IL DIRE, IL FARE, IL PUBBLICARE. Ma, poiché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, anche tra la percezione di una potenzialità narrativa, la traduzione di quella potenzialità in scrittura, e infine l’effettiva pubblicazione di un libro c’è un intero, insidiosissimo oceano.
Insomma: per diventare scrittori bisogna scrivere. E scrivere è una faccenda di mesi, e spesso di anni: tentativi, frustrazione, ripensamenti e, soprattutto, riscrittura. E tutto questo è qualcosa che può cominciare in un momento, ma non si conclude certo in quel momento.
Ricordo solo che, prima di preoccuparsi di pubblicare, val la pena di adoperarsi per scrivere bene qualcosa che ha valore. E che, nell’attesa di pubblicare, conviene disporsi di buon animo a ricevere una dose non piccola di rifiuti.
A questo proposito, potreste dare un’occhiata ai consigli che Stephen King dà a coloro che vogliono diventare scrittori. Poi, a quelli offerti da Catherine Dunne.
Anzi, se davvero volete diventare scrittori potreste cominciare a fare una cosa: trascriverli (così ve ne appropriate meglio), confrontarli, e ragionare più a fondo sui consigli coincidenti. Per esempio, quelli riguardanti il leggere tanto, lo scrivere con costanza, il mostrare invece di raccontare.
Le immagini sono di Logan Zillmer

 

8 risposte

  1. Mi piace scrivere, e ne ho fatto un piccolo hobby che coltivo nella mia mente – e potrei anche aver fatto qualcosa di (non buono, no), diciamo, qualcosa di decoroso. Piccole cose carine quando va bene, altrimenti mediocri, ma niente di criminale per cui meritare una condanna.

    Quindi ho frequentato un corso di scrittura, sul romanzo classico, che a me nemmeno interessava. A me interessa scrivere racconti di genere, roba breve o brevissima.

    E mi si è spalancato un orribile abisso sotto ai piedi: tutto quello che ho fatto e ho studiato non significa niente.
    Non c’è nulla di improvvisato nella scrittura, e, ancora peggio non c’è niente di improvvisato nella buona scrittura. gli scrittori citati nell’articolo sono accomunati da una cultura e da una competenza MOSTRUOSE. Mary Shelley dovrebbe essere esclusa dal genere umano per eccesso di genio (inteso come studio, vastità dei temi trattati, intelligenza nel senso più esteso del termine).

    Al massimo, come diceva Checov, dopo i primi mille racconti si inizia a capire un po’ come funziona

    Questa è la mia esperienza, ma se qualche altro scribacchino mediocre può vantare la paternità di un romanzo geniale… buon per lui! 🙂

    Magari!

  2. “A Mary Shelley nel corso di un’estate piovosa, quando Lord Byron, che ospita lei e altri amici sul lago di Ginevra, propone di scrivere una storia di fantasmi per ingannare il tempo…”

    Se non ricordo male, di quell’allegra “reunion” 🙂 faceva parte anche Bram Stoker, che stava meditando di scrivere un romanzo sui vampiri.

    1. Credo fosse Polidori, non Stoker. Scrisse “Il Vampiro” da cui (mi pare) è nata la figura del vampiro romantico (in stile Dracula, per intenderci) 🙂

  3. Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una fase famosa [di Sartre], l’idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.

    Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’ esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione (1983).

    Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un’alternativa. In questo senso non c’è stata una “prima volta” in cui mi sono messo a scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere.

    Scrivo perché leggendo X (un X antico o contemporaneo) mi viene da pensare: “Ah, come mi piacerebbe scrivere come X! Peccato che ciò sia completamente al di là delle mie possibilità!”. Allora cerco di immaginarmi questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente… Da quel momento in poi non sto più pensando a X, né ad alcun altro modello possibile. È a quel libro che penso, a quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro! Provo a scriverlo…

    Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “esperienza della vita”. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell’esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso (1985)

    Italo Calvino

    Magari qualcuno non aveva mai letto queste sue parole. Io dico solo: desiderare leggere più di scrivere, è questo l’inizio. E poi desiderare scrivere più di farsi leggere.

  4. SAID
    “Aveva un corpo che raccontava la storia della sua fame e le cicatrici sulla pelle erano conti in sospeso col destino, tacche su legno ancora vivo…”
    UN EROE QUALUNQUE
    “La noia s’allargava a macchia d’olio nel cielo vacuo di periferia, affissa ai muri roventi come una melma invisibile e silenziosa…”
    AD UN PASSO DALL’ALBA
    “Una goccia di pioggia batteva, ossessiva, nello stesso punto, sul davanzale di marmo, caparbia e inutile come la replica dei miei ricordi…”
    Sono solo alcuni incipit di racconti o romanzi inediti che ho scritto obbedendo ad un impulso irresistibile. Dico sempre che l’artista non è padrone della sua vita perché è l’arte che possiede la sua anima. La mia mano si limita ad eseguire ciò che le detta il cuore e alla ragione affido solo il compito della supervisione.

  5. Scrivo perché mi è più facile parlare con me stessa, davanti allo specchio mentirei. Ma è solo dopo una buona lettura che vi viene una bella scrittura prima sono solo parole distratte.
    Ps. Ho letto l’articolo tutto in un fiato, complimenti!

  6. Dopo alcuni mesi che sono andato in pensione, (2011) un pomeriggio mentre ero sdraiato a letto, mi venne una idea, e avvisai una forte voglia di portarmi al computer e scrivere una mia favola inventata. Mi misi a scrivere e percepivo una sensazione strana come se qualcuno mi ispirasse. Premetto che non sono mai stato un guru nello scrivere, ma mi sentivo pervaso da una carica straordinaria irrefrenabile, portai a termine la mia favola e la pubblicai :”I Due Diavoletti” pubblicata da Casa editrice Albatros il filo. il mio racconto venne premiato ad un concorso letterario arrivai terzo su più di sessanta concorrenti. i giorni che seguirono scrissi altri racconti e pubblicai altri libri, l’ultimo la casa editrice lo ha scelto per rappresentarla alla fiera di Francoforte (Quando il mito é donna). Ora non so stare senza scrivere.

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