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ECONOMIA – Enrico Bigli: pensare a un futuro cooperativo

I paradigmi economici classici non ci aiutano a progettare il futuro. Ripartiamo da Schumpeter, senza temere il caos creativo, e progettiamo un futuro cooperativo.

I legami tra mercato e democrazia

Oggi il mercato è il punto fermo di qualsiasi ragionamento sull’economia. È il perno del sistema di valori dominante nel mondo.

Molti hanno scritto del nesso inestricabile tra il mercato e la democrazia occidentale. Il tipo di mercato più affine alla democrazia è quello concorrenziale: quello in cui per ogni merce c’è almeno un altro produttore, in modo da formare un sistema in cui i protagonisti sono in grado di sottrarsi vicendevolmente clienti e agiscono autonomamente in assenza di accordi collusivi.

La diminuzione dei prezzi, con la conseguente riduzione delle rendite di monopolio, è il motivo per cui una maggiore concorrenza, cioè un minore potere monopolistico per i produttori, è generalmente vista come desiderabile per la società. Per questo motivo nelle economie capitalistiche avanzate si sono introdotte leggi per proteggere e promuovere la concorrenza.

Il monopolio puro è una situazione di mercato che si caratterizza per la totale assenza di concorrenza. La sua caratteristica economica primaria è il potere del soggetto che occupa il lato dell’offerta di condizionare il prezzo a cui avvengono gli scambi. Così, sfruttando il potere monopolistico di cui gode, il monopolista fissa i prezzi a un livello esageratamente alto e, grazie a questo, si appropria di una rendita.

Ma se, in condizioni di libera concorrenza, il sistema dei prezzi tende ad azzerare i profitti, e se nei sistemi più o meno monopolistici il guadagno del capitalista è rendita derivante da meccanismi protettivi naturali o artificiali e non profitto, allora che cosa ci permette di comprendere il sistema economico così com’è?

Competenze di base in regressione

L’indagine Ials (International adult literacy survey), promossa dall’Ocse, rivela che la perdita di competenze simboliche (literacy e numeracy) non è lineare, ma investe in misura più consistente alcune fasce di popolazione, per esempio quelle giovanili.

In ricerche come questa si considera la popolazione per fasce d’età, ciascuna delle quali comprende un decennio. Poiché almeno fino ai quindici anni l’istruzione è ormai obbligatoria ovunque (ma non più in Italia), la prima fascia riguarda i giovani fra i 16 e i 25 anni, poi gli adulti fra i 26 e i 35 anni e via fino all’ultima fascia, quella fra i 56 e 65 anni.

Se la perdita fosse lineare, si dovrebbe osservare il livello più elevato di competenza nei giovani che hanno appena concluso il percorso scolastico, mentre dovrebbero apparire valori più critici man mano che si procede nelle età successive.

E questo è ciò che è emerso, nella ricerca Ials, per i dati italiani. Ma nuovi dati, più recenti, vanno in direzione opposta, confermando anche in Italia una tendenza in atto già da una decina di anni in altri paesi (per esempio gli Stati Uniti d’America): i ragazzi tra i 16 e 25 anni hanno livelli di competenze simboliche di base inferiori alle fasce d’età intermedie, intorno ai 40 anni.

Possiamo spiegare questo fenomeno, apparentemente anomalo, riconoscendo che oggi facciamo molto meno uso delle competenze simboliche, perché nel lavoro e nella vita quotidiana non sono più necessario come lo erano pochi decenni fa.

La riduzione al minimo (se non l’abbandono) del linguaggio scritto e la perdita dell’abitudine a far di conto hanno attenuato fortemente il rinforzo sociale della competenze di base. Oggi non si scrivono più lettere, non si prendono appunti.

La comunicazione scritta è mediata dai computer, risultato non di una elaborazione del messaggio ma della ripetizione di uno stereotipo iniziale. Per fare calcoli ci si affida ai dispositivi automatici. Al supermercato il prezzo dei prodotti è letto da uno scanner e il pagamento avviene con carta di credito, eliminando la necessità di fare operazioni matematiche.

In queste condizioni, e senza altre ragioni per conservare un profilo di competenza elevato, non c’è da stupirsi di osservare una regressione.

Tutto questo crea problemi di ordine sociale, perché non tutta la popolazione può mantenere la condizione che ha raggiunto in assenza di capacità alfabetico-numeriche di base.

Del resto, è una profezia che si realizza: un quarto di secolo fa negli Stati Uniti si osservava che, per conservare la supremazia in campo scientifico e tecnologico, bastava che circa un settimo della popolazione disponesse di un livello elevato di competenza.

In Italia, al momento, circa l’8 per cento della popolazione possiede quel livello, contro il 16 per cento degli Usa: credo che questo sia uno dei fattori di svantaggio col quale dovremo fare i conti.

Datore di lavoro, capitalista o imprenditore?

Anzitutto, proviamo a definire quelli che sono tra i principali protagonisti del mercato. Datori di lavoro, capitalisti, imprenditori non sono la stessa cosa.

Per Marx, il profitto deriva dal plusvalore: in parole semplici, i lavoratori guadagnano salari inferiori al valore aggiunto creato dal loro lavoro. Chi fa profitti è quindi, nella sostanza, un datore di lavoro: è da questo ruolo che trae i suoi guadagni.

L’obiezione che i livelli di profitto non sono direttamente correlati ai livelli dei salari, ma dipendono anche da molti altri fattori, viene affrontata da Marx con l’artifizio della distribuzione ineguale tra i capitalisti del plusvalore estratto dai dipendenti. E’ una costruzione che appare abbastanza fragile.

La sottolineatura del ruolo di detentore di capitale e proprietario dei mezzi di produzione come elemento generatore del profitto introduce la figura del capitalista. Ma l’assunzione del rischio, l’elemento distintivo del capitalista, è in realtà il contributo del sistema del credito al processo produttivo: il capitale dell’impresa potrebbe essere preso completamente a credito e remumerato al prezzo di mercato per quel rischio specifico. Se così non è dipende solo dall’inefficienza del mercato del credito e delle regole concorrenziali in quel settore. Di conseguenza, non è questo ruolo che giustifica il profitto in un sistema di mercato.

Schumpeter, ponendo per primo al centro dell’analisi del sistema capitalistico la categoria dell’innovazione e la problematica del cambiamento tecnologico, mette al centro del sistema produttivo l’imprenditore. Una figura molto lontana da quelle del datore di lavoro e del proprietario dei mezzi di produzione.

Per Schumpeter è l’imprenditore colui che è in grado di innovare e di rispondere in maniera creativa ai cambiamenti. Lo fa perché la sua ricerca del profitto si sviluppa in un modo sostanzialmente differente da quello del datore di lavoro o del capitalista: l’imprenditore guadagna introducendo nuovi metodi produttivi, organizzando in modo nuovo settori industriali, entrando in nuovi mercati, sviluppando nuovi prodotti.

La novità più importante dell’analisi di Schumpeter consiste nel fatto di sottolineare che la vera e unica funzione dell’imprenditore è fare cose nuove, o fare in modo nuovo ciò che è sempre stato fatto in maniera più costosa o meno efficace: Ogni produzione consiste nel combinare materiali e forze che si trovano alla nostra portata. Produrre altre cose o le stesse cose in maniera differente, significa combinare queste cose e queste forze in maniera diversa.

Insomma, bisogna fare qualcosa che nessuno ha ancora pensato. Qualcosa che rende l’imprenditore diverso da chi affronta i problemi solamente con l’utilizzo di metodi tradizionali.

Schumpeter: il ruolo sociale della creatività imprenditoriale

La risposta creativa che l’imprenditore shumpeteriano è capace di dare produce effetti dirompenti: cambia l’equilibrio statico del mercato e favorisce l’apertura di nuovi scenari. In questi l’imprenditore innovatore, che è in grado di offrire qualcosa di esclusivo, può operare per un certo periodo in assenza di concorrenza e con profitti altrimenti impensabili. Dunque l’imprenditore non solo guadagna, ma assolve un importante ruolo sociale come creatore di innovazione, e quindi di sviluppo economico.

In questo modello, la situazione di monopolio redditizio dovrebbe essere temporanea: i concorrenti innoveranno a loro volta per non trovarsi fuori mercato (e per guadagnare anche loro), la situazione concorrenziale verrà ripristinata e gli extraprofitti cesseranno. Tutto questo,in una società libera e aperta, dovrebbe dare luogo a un continuo sforzo di innovazione creativa.

Ma quando cadono i livelli di democrazia, il potere politico è ben saldo nelle mani delle classi dominanti. E queste mettono in atto meccanismi di ogni tipo per proteggere gli extraprofitti e mantenerli nel tempo.Se partiamo dal paradigma schumpeteriano, allora la limitazione alla concorrenza nei mercati non è solo un danno per i consumatori che pagano prezzi più alti del necessario, ma è soprattutto un blocco alla continua ricerca creativa degli imprenditori: il vero motore dello sviluppo e l’unico antidoto alla stagnazione.

Le innovazioni non rimangono eventi isolati e non sono distribuite uniformemente nel tempo, ma tendono ad ammassarsi, a sorgere a grappoli.

La teoria delle innovazioni permette a Schumpeter di spiegare l’alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non possono venire introdotte in modo costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo, caratterizzati da una forte espansione. Le fasi di espansione sotto la spinta delle maggiori innovazioni vengono definite di “distruzione creatrice” per il drastico processo selettivo che le contraddistingue. Molte aziende spariscono, altre nascono o si rafforzano.

Le Onde di Kondratiev e il Paradigma di Touraine

Le Onde di Kondratiev, chiamate anche onde k, sono cicli regolari sinusoidali che descrivono l’alternarsi di fasi di accelerazione e di rallentamento nella moderna economia capitalistica e durano circa 50 anni. Vengono descritte dall’economista russo Nikolaj Kondratiev nel 1925 nel testo I maggiori cicli economici. La teoria che il capitalismo possa rigenerarsi innovando non piace al regime bolscevico, e costa il carcere e la morte al suo autore.

La domanda che ci poniamo è quale sarà il ciclo prossimo venturo e da che cosa sarà caratterizzato. Potrebbe anche capitare che non ci sia innovazione di prodotto né di processo.

Possiamo, per esempio, ipotizzare che ci sia un grande cambiamento nel sistema di relazioni: un’economia non più basata su sistemi gerarchici ma su collaborazioni paritarie. Un’economia in cui il fattore di creazione distruttiva sia magari rappresentato dal nuovo paradigma di Alain Touraine: passare dal predominio della politica e dell’economia all’era del predominio della cultura. Che poi vuol dire passare alla società dell’informazione e della conoscenza. Dice Touraine: Avevamo descritto e analizzato la realtà sociale in termini politici: il disordine e l’ordine, la pace e la guerra, il potere e lo Stato, il re e la nazione, la repubblica, il popolo e la rivoluzione. Poi la rivoluzione industriale e il ceto capitalistico si sono liberati del potere politico e sono apparsi come la base dell’organizzazione sociale. Abbiamo allora rimpiazzato il paradigma politico con un paradigma economico e sociale: classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, stratificazione e mobilità sociale, ineguaglianza e redistribuzione, sono diventate le categorie tipiche di analisi… oggi, due secoli dopo il trionfo dell’economia sulla politica, queste categorie sociali sono diventate confuse e lasciano nell’ombra una grande parte della nostra esperienza vissuta. Abbiamo dunque bisogno di un nuovo paradigma: i problemi culturali hanno conquistato un’importanza tale che il pensiero sociale si deve organizzare attorno a essi.

Il sesto grande ciclo potrebbe verificarsi nel passaggio dal ragionamento lineare al caos creativo. Cioè all’epoca della costruzione delle teorie e delle elaborazioni attraverso il contributo collettivo: il caos della rete senza schemi.

Se diventa bene principale e più ambito la qualità delle relazioni umane, gli schemi organizzativi e produttivi delle aziende si rivoluzionano. Cambiano le gerarchie di valore dei prodotti. Il dono da fare o ricevere può essere un bene più ambito di qualsiasi altra merce.

Nel futuro si può immaginare, e forse già si vede, un nuovo ciclo economico determinato da un duplice grande cambiamento: nel sistema di relazioni tra le persone sui principi della gratuità e della partecipazione, e nell’impresa sui principi della collaborazione.

Questo significa anche ripensare alle relazioni umane come generatrici di valore da ricomprendere nell’analisi economica.

Enrico Biglifinancial advisor per banche italiani e inglesi, consulente UNRISD sulla finanza per lo sviluppo, è coordinatore di Sbilanciamoci Lombardia.

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