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Il riso, il web e l’idea di empatia

Conviene diffidare delle mode. È quanto invita a fare il Corriere Cultura a proposito del termine empatia: viviamo nel mezzo di una «smania empatica», per usare l’espressione di Steven Pinker, docente ad Harvard.
Per esempio, la frequenza della ricerca per la parola “empatia” su Google è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni.
Sono andata a vedere (bastano un paio di clic su GoogleTrends). In effetti è vero, sia nel mondo anglofono (empathy), sia per italiani, spagnoli, polacchi… (empatia). Sorte analoga, ma su livelli più bassi e solo nel mondo anglofono, per un’altra parola emergente: resilienza. I cinque paesi che più hanno cercato empathy sono, nell’ordine, Ghana, Giamaica, Filippine, Nigeria e Stati Uniti. Resilience invece va forte in Kenya, Singapore, Australia, Nuova Zelanda e Hong Kong.

Il Corriere prosegue affermando che oggi un alto quoziente d’intelligenza – il vero mito del secolo scorso – non basta più a districarsi nelle complessità della vita, e che le nuove generazioni, piegate dalla crisi, cercano prospettive che vadano oltre il successo e il possesso: l’empatia, appunto.
Il rischio, conclude il Corriere citando, tra gli altri, un brillante articolo uscito su The Atlantic, è che la moda empatica si affermi nella sua versione ingenua e buonista, il sentimentalismo, e infine collassi su se stessa schiacciata dal peso dell’attenzione dovuta a ogni più delicata sensibilità individuale: se il “politicamente corretto” degli anni passati intendeva infatti rispettare i sentimenti collettivi delle minoranze, l’”empaticamente corretto” si pone l’obiettivo impossibile di proteggere ciascun individuo da ogni possibile fonte di turbamento.
In questa prospettiva, è confortante che cresca anche l’attenzione nei confronti del concetto di resilienza. Dopotutto, potrebbe essere quella la chiave per ridurre le ormai troppe aree sensibili da cui sembrerebbe empaticamente obbligatorio stare alla larga.

Tuttavia.
È Giulio Giorello a sottolineare che il sentimento morale dell’empatia è in realtà antichissimo, universale, e che lo condividiamo con numerose specie animali, coccodrilli compresi. Forse, semplicemente, abbiamo trovato una parola nuova e più suggestiva per definire ciò che si è sempre chiamato “compassione”: quel tipo di affetto che connette l’interiorità dell’uomo alla realtà esterna, la sua coscienza alle vicende altrui, appunto attraverso la cognizione del dolore.
Ed è Le Scienze a segnalare i risultati di una ricerca che prova a collegare culture, stili di pensiero e tradizioni agricole delle singole comunità: succede che nelle regioni del nord della Cina, dove si coltiva il grano, le persone siano più individualiste e orientate al pensiero analitico. A sud si coltiva il riso, che chiede non solo più lavoro ma anche più cooperazione per manutenere una complessa infrastruttura di dighe, terrazze e canali. Risultato: le persone sono più cooperative, solidali e orientate al pensiero olistico.

Mi sto chiedendo se le recenti fortune dell’empatia non possano derivare anche dal fatto che ormai quasi tre miliardi di persone si incontrano, lavorano e hanno occasione di cooperare su quella complessa infrastruttura che è il web: un campo di riso, erbacce, zanzare e sanguisughe comprese, grande come il mondo.
Per esempio, in una terrazza ci sono giovani brasiliani che imparano l’inglese chiacchierando con americani anziani soli: uno scambio che arricchisce entrambi. In un’altra, gli innumerevoli redattori occupati a scrivere e a rivedere gli oltre 24 milioni di voci, in 250 lingue, pubblicati su Wikipedia, per la quale siamo tutti grati. In un’altra ancora, sconosciuti che collaborano per catalogare comete, tenere sotto controllo il cambiamento climatico, decifrare i canti delle balene o dare una mano alla ricerca sul cancro.

Certo: non è tutto così idilliaco. Anche per questo conviene che l’idea di empatia si rafforzi, fino a comprendere la possibilità di sviluppare (empaticamente) discussione e pensiero critico. Per quanto mi riguarda, però, sono contenta che si parli di empatia (dopotutto, esistono mode assai peggiori), e che siamo tutti coi piedi a mollo nella stessa risaia. Tra l’altro, frugando qua e là, ho ritrovato questo video delizioso.

Questo post esce anche su internazionale.it. Se vi è piaciuto potreste leggere:
Creatività: un fondamento del benessere psicologico
Che cos’è la resilienza e a che serve

9 risposte

  1. Tutte le mode, anche quelle culturali, ci sottolineano gli aspetti dei tempi che tendiamo, razionalmente, a sottovalutare. La voglia di empatia è l’indice che la cultura degli oggetti sta generando il suo contrario. L’individualismo sta generando la socialità, una socialità non nuova, ma molto più potente, perché facilitata e amplificata da internet: la più rivoluzionaria invenzione umana, al pari del fuoco e della scrittura.
    L’interesse per l’empatia è anche la scoperta che non si può limitare l’intelligenza dentro parametri definiti di risoluzioni di problemi o di creatività: esiste un tipo di “intelligenza” che è formata da empatia e socialità pura, e forse, o senza forse, è quella più importante per vivere felici. Grazie Annamaria

  2. Scrivere “il web” lo considero grammaticalmente scorretto. Risulta come scrivere “il uovo”. Meglio “l’web”.
    Chiedo un confronto.

    Enrico

    1. Tutte le parole che iniziano per w sono di origine straniera. La lettera w può avere due pronunce: 1) la consonante [v] come in water (e vaso) e 2) la semiconsonante [w] come in web (e uomo). Il linguista Luca Serianni spiega che articolo usare nel secondo caso:

      “ L’astratta logica grammaticale vorrebbe che davanti a whisky o Webster figurasse lo stesso articolo eliso l’ che tutti adopereremmo davanti a una parola come uomo. In realtà l’uso tende a preferire il, probabilmente perché all’occhio del lettore italiano la lettera w è una consonante, qualunque sia il valore fonetico che ha nella lingua straniera di partenza. Per lo stesso motivo si dice uno swatch, anche se la sequenza dei suoni in [swɔtʃ] è la stessa di suocero: anche in questo caso la lettera w viene percepita, indipendentemente dalla pronuncia, come una consonante e quindi, in combinazione con s, richiede l’articolo lo come in svogliato o svolazzo.” [Grammatica italiana – Garzantine]

      1. La tesi dell’adattamento alle contaminazioni estere è buona. Anche se comporta delle deroghe al regolamento.
        Grazie a Licia per l’attenzione e ad Annamaria per lo spazio.

        Enrico

  3. Cara Annamaria. S
    arà per questo che i più antichi canti di lotta italiani, come “Bella ciao”, “Se ben che siamo donne, paura non abbiamo” o “Sciùr parùn da le béle braghe bianche”, vengono tutti da canti di lavoro delle Mondine?
    Solidarietà, lavoro, coscienza e canto:
    empatia + resilienza= Resistenza.
    (:
    Fabio Ciccio Ferri
    https://www.youtube.com/watch?v=oeApyVt15b0

  4. Posso lamentare l’uso della parola resilienza? Per quanto ne so, è termine tecnico della metallurgia. Si trova solo nell’espressione prova di resilienza, con la quale si misura quanto un materiale sia fragile. Si colpisce una barretta con un peso da altezza crescente finchè si rompe. Poichè in metallurgia, come nel linguaggio comune, il contrario di fragile è tenace, resilienza vale esattamente come tenacia (tenacità nel linguaggio tecnico). Tenacia è termine più ordinario e molto più gradevole. Contiene, ma non necessariamente, la perseveranza e richiama la forza della volontà più che l’ottusità del rifiuto. Quindi, nel linguaggio comune, che ne facciamo della parola resilienza? Quasi mai i prestiti dal linguaggio tecnico sono felici. Resiliente, poi, non si è mai sentito.

  5. Gentile Luca Bianchetti,
    “resilienza” appare già tra i termini approvati dagli Accademici della Crusca nel 1745. Non esattamente l’altro ieri.
    http://books.google.it/books?id=cWDNAAAAMAAJ&pg=PA312&lpg=PA312&dq=resilienza+Crusca&source=bl&ots=NXNpUDN-sG&sig=iFf68jiKd5v6kzO-kRSsvXEFybA&hl=it&sa=X&ei=-G29U8HgDIO60QXlyoDgCA&ved=0CD4Q6AEwBQ#v=onepage&q=resilienza%20Crusca&f=false

    Oggi indica la capacità di resistere (non solo passivamente) a un trauma, adattandosi. Per questo ha una sfumatura interessante, che lo rende diverso da tenacia.
    http://it.wikipedia.org/wiki/Resilienza

    Potrei quasi azzardare che, se non parliamo di metalli ma di esseri umani o di ecosistemi, Resilienza = tenacia + flessibilità + spirito (o istinto) di sopravvivenza.

  6. Condivido ed aggiungo che sembra che l’insieme dei comportamenti definibili come empatici non siano sempre sinonimo di compassione e buoni sentimenti. Simon Baron Cohen e Laura Boella, a mio avviso ottimi interpreti degli studi in neuroscienza attuialmente compiuti , ne parlano nei loro libri ed in alcune conferenze cui ho avuto la fortuna di partecipare.

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