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Esperienze 13: scrivere dialoghi per cinema e tv

Elisabetta Manfucci lavora come soggettista e consulente-dialoghi per il piccolo e il grande schermo e scrive libri di narrativa.
Mi invia questa nota sulla scrittura dei dialoghi. Mi sembra che dica cose interessanti e la pubblico volentieri. Se l’argomento vi acchiappa, date un’occhiata anche ai consigli  dello screenwriter John August. Se il turpiloquio non vi infastidisce (o se volete fare un po’ di pratica col turpiloquio americano) guardate  25 things you should know about dialogue. Se preferite leggere in italiano, c’è questa sintesi sui dialoghi tratta da On Writing di Stephen King.

Se ascoltiamo di nascosto qualsiasi conversazione, ci accorgiamo subito di quanti elementi siano coinvolti, in modo spesso confuso.
Una conversazione per la strada tra due amiche che stanno facendo shopping è, per esempio, un magnifico minestrone. In questo minestrone convivono: pause, parole mediocri, ripetizioni, innumerevoli parentesi, e non sempre è specificato il destinatario. È ciò che gli psicologi chiamano “tenere aperto il canale”.
La conversazione è il modo in cui noi sviluppiamo e modifichiamo i rapporti tra persone.
Torniamo alle due amiche che fanno shopping. Mentre parlano dell’ultima festa, del nuovo taglio di capelli, del compito in classe che le aspetta, in realtà stanno dicendo altro. Il testo del loro conversare è, in realtà: quant’è bello essere tua amica, la nostra amicizia è davvero speciale!
Ciò che si dice e si fa non è sempre ciò che si pensa e si prova. Il dialogo in un film sembra una conversazione di routine, ma ha al suo interno un contenuto preciso e due caratteristiche peculiari: compressione ed economia. Esprime il massimo contenuto nel minimo esborso di parole possibili. E, soprattutto, ha una direzione e uno scopo. Ogni scambio di battute tra due personaggi deve fare svoltare la scena in una direzione o in un’altra, e dirige la storia verso il punto di svolta.
Nonostante ciò, lo spettatore deve avere l’impressione di ascoltare una ordinaria conversazione, secondo quanto diceva Aristotele: “Parla come parlano le persone comuni, ma pensa come pensano i saggi”.
Un film non è un romanzo: il dialogo, dopo essere pronunciato, sparisce. Dunque le parole devono essere afferrate bene dallo spettatore. L’estetica del cinema è per l’ottanta per cento visiva. Uno spettatore di cinema vuole vedere. L’energia passa per gli occhi. Il dialogo cinematografico esige frasi brevi, costruite in modo semplice. La scrittura cinematografica si fonda sulla limpidezza.
Frasi schiette ed essenziali, niente orpelli please. Il dialogo cinematografico procede perfino per grugniti e frasi smozzicate!
Quando credete di avere scritto qualcosa di veramente bello dal punto di vista letterario, eliminatelo. L’essenza del dialogo al cinema è quella che il teatro greco chiamava: stikomythia, il rapido scambio di frasi brevi. I lunghi discorsi sono all’opposto dell’estetica del cinema.
Il migliore consiglio che si possa dare per scrivere un dialogo cinematografico è non scriverlo.
Non scriverlo se si può dire la stessa cosa facendo muovere un personaggio, dunque creando l’espressione visiva. Al cinema vale la legge del profitto decrescente: più dialogo scrivete, meno effetto avrà. La valanga di parole, anche nella vita di tutti i giorni, elimina l’intensità del gesto. Meno è, e più vale.

4 risposte

  1. “Ciò che si dice e si fa non è sempre ciò che si pensa e si prova.”
    Questa frase è verissima. Mi trovo spesso a scrivere dei dialoghi. Lo scoglio più grande da superare credo sia la smania di dover “definire la situazione” tra i due (o più) protagonisti del dialogo. Si deve invece farla capire da quello che si dicono, cercando di essere più naturali possibili e calandosi nei personaggi. Sembra facile!

  2. “Meno letteratura!”
    Era il consiglio che Colette dava a Georges Simenon quando, agli inizi della carriera, presentava i suoi primi romanzi alla curatrice della pagina letteraria di Le Matin.
    Simenon cinquant’anni dopo:
    “E’ quello che ho fatto.Ho subito cercato di semplificare la mia scrittura. Preferisco rischiare delle scorrettezze, cosa che mi accade anche adesso, piuttosto che raffinare il mio stile. Quando eseguo la revisione di un mio scritto, non aggiungo mai nulla, io taglio, tolgo gli aggettivi, levo gli avverbi, escludo le frasi che filano troppo bene, quelle che io chiamo i ‘versi bianchi’…”.

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