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Giornalisti, mass media, pubblicità: niente etica? Meno valore

Per più della metà (53.7%) degli italiani il comportamento dei giornalisti nazionali è poco o per niente etico. Ma i giornalisti medesimi sono ancora più severi con se stessi: oltre l’80% dei giornalisti lombardi e veneti ritiene poco o per niente etico il comportamento della categoria. Questi dati si trovano alle pagine 6 e 7 di una recentissima indagine Astra, presentata da Enrico Finzi nel corso del convegno su Etica e giornalismo che si è svolto lo scorso 7 ottobre a Milano.
A uscire male nella percezione del pubblico sono comunque, e con l’eccezione di Internet e – in parte – della radio, tutti i player della comunicazione (pagina 8 della ricerca). In fondo alla lista, i peggiori: la categoria dei pubblicitari e le televisioni.

Vorrei proporvi tre punti su cui ragionare.
Il primo: in quello che Luca De Biase ha brillantemente definito ecosistema dell’informazione, e in momenti di cambiamento tumultuoso com’è questo, l’etica non è un fatto accessorio. È strettamente connessa con la qualità e la credibilità dell’offerta di informazione. E con il suo valore. Quindi, con la sopravvivenza, anche in termini economici, dell’intero sistema nel medio termine. Tra l’altro: anche le scelte linguistiche e – per dirla ricalcando Carofiglio – la manutenzione delle parole, e di conseguenza del senso, sono, se parliamo di comunicazione, un fatto etico.

Il secondo punto: di questo sistema fa parte, nel bene e nel male, anche la pubblicità. Che forse potrebbe a sua volta farsi un paio di domande sul tema. Fino a ora a muovere un primo passo è stato solo l’Adci, con il Manifesto Deontologico. Le altre associazioni di settore, silenti di fronte al non imprevedibile tracollo della reputazione. Dire o, meglio, fare qualcosa, magari?

Il terzo punto: i mass media hanno bisogno della pubblicità per sopravvivere. E la pubblicità ha bisogno dei media per diffondersi. Ma tra i due universi c’è un oceano di incomprensione. La pubblicità tende a guardare ai media e al sistema dell’informazione in modo strumentale. E viene spesso ri-guardata con sbrigativa superficialità e molti pregiudizi: non a caso FIEG è riuscita a dotarsi, per promuovere se stessa, di una campagna pubblicitaria di rara bruttezza.
Alla pubblicità intesa in senso lato fanno capo attori (e interessi) diversi e spesso contrastanti, ma le differenze non vengono percepite. In particolare, il sistema delle agenzie è minuscolo, soffre una crisi ormai decennale ed è funestato, come quello dei giornali, da licenziamenti e precariato. Su tutto questo c’è un pesante velo di silenzio: sono solo le – ahimè – molte campagne sceme a far notizia.
Eppure sui temi dell’etica, della difesa dei valori professionali, del linguaggio, della tutela dei giovani, della trasmissione di competenze forse potrebbe (dovrebbe?) potersi stabilire, nel rispetto reciproco e almeno tra alcuni degli attori, qualche forma di alleanza nuova. E (in termini di valore) utile. A tutti.

14 risposte

  1. In Italia esiste secondo me un principio etico di base del giornalismo molto disatteso: quello del controllo della verità dei numeri e delle regole elementari della logica (intendo la logica base del ragionamento). Ormai quotidianamente assistiamo ad interviste con disinvolte presentazioni di numeri inventati o alterati a proprio piacimento, o passaggi logici che avrebbero fatto inorridire i nostri professori di liceo. Il giornalista di turno, invece di contestare il numero o la mancanza di logica, al massimo si limita a identificare questa come “una posizione di parte”. Come se le opinioni, in quanto tali, si potessero legittimamente costruire o supportare con numeri sbagliati e logica zoppicante. Un giornalista minimamente professionale dovrebbe controllare, contestare, poi sbertucciare, ed infine eliminare dai dibattiti come “fonte non affidabile” chi dice consapevoli bugie, offre dati manipolati o espone con falsi argomenti di logica. Dobbiamo riappiarci dell’etica della verità e della paura della bugia, almeno di quella pubblica.

  2. I media NON parlano della loro crisi perché è tabù: come fa il direttore di una testata giornalistica ad autorizzare che il suo giornale (la sua tv) parli dei prepensionamenti, dei precari eccetera che la stessa sua redazione ha? Un’eccezione è stata, di striscio, Presadiretta due domeniche fa, con Iacona che ha fatto nomi e cognomi dei precari che gravitano attorno alla sua stessa redazione. Né i media non possono parlare del fatto che i lettori li giudichino male per evidenti ragioni. E neppure i media possono esplicitare in modo troppo palese il fatto che vivono (sempre più) solo grazie agli introiti pubblicitari, non certo alle vendite. Dunque, se i media non parlano di tutto ciò, come si fa a cominciare una riflessione seria su questi temi fondamentali? In rete, certo. Come il tuo post tenta di fare. Ma i nostri numeri, Annamaria, sono ancora troppo piccoli rispetto a quelli dei media tradizionali. Che fare?

  3. Si, quella di Presa Diretta è stata una grande lezione di trasparenza. la “manutenzione delle parole” è fondamentale per non dissipare tutto il patrimonio linguistico-letterario costruito in secoli di conoscenza e di studio, con l’aggiunta( spesso benvoluta) di neologismi presi dall’inglese o da internet. Quello che mi fa pensare sopra ogni cosa, però, è la riflessione riguardo la maggiore etica che dimostrano gli utenti di ciò che viene ormai definito il web 3.0. Anch’io ho la sensazione che in quel territorio lì, difficile da imbrigliare( ma non impossibile) una maggiore etica e una maggiore libertà sia ed è in qualche modo possibile. Ma, citando ( non me ne vogliate male) Caparezza, internet non è Che Guevara, anche se si finge tale…

  4. Beh. Intento ci si prova. A parlarne. In rete. Secondo l’adagio che recita: anche il cammino più lungo comincia con un primo passo. Oltretutto, si tratta di un tema non solo ignorato, ma ingarbugliato. D’altra parte, se non lo si comincia almeno a prendere in considerazione, non se ne esce. Con un bel danno collettivo.

  5. INTANTO… due ulteriori elementi di scenario. In occasione della Fiera del Libro di Francoforte gli editori riprendono posizione contro la legge bavaglio. E Milena Gabanelli va ufficialmente sul web nel sito del Corsera

  6. Rapido excursus storico. 1948, Costituzione, articolo 21: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La STAMPA non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. 1963, carta costitutiva dell’Ordine dei giornalisti: “è DIRITTO insopprimibile dei GIORNALISTI la libertà d’informazione e di critica, mentre è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.” 1993, Carta dei doveri del giornalista: “Il giornalista deve rispettare, coltivare e difendere il DIRITTO all’informazione di tutti i CITTADINI; per questo ricerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile.” Abbiamo avuto bisogno di quasi 50 anni per spostare il centro dell’attenzione dai diritti del giornalista ai diritti del cittadino. Inoltre, teniamo presente che in Italia, unico caso in Europa, il controllo deontologico sull’operato dei giornalisti è effettuato dall’Ordine, che il più delle volte, per motivi di protezione della casta, disattende il suo ruolo. Per lo più all’estero gli organi di vigilanza sulla deontologia professionale sono organismi misti, che prevedono la presenza, oltre a rappresentanti della categoria, di utenti dei media. Insomma, oltre che argomento spinoso, quello dell’etica nel giornalismo è un problemaccio che in Italia è nutrito da un clima culturale arretratissimo. Valeria

  7. La debolezza del singolo non griffato: il singolo non griffato diciamolo subito sono io Pietro Greppi… per anni ho operato nel settore della comunicazione pubblicitaria anche da posizioni particolarmente prestigiose ma istituzionali. Da sempre (leggasi da anni) ho cercato di suggerire quanto fosse imperativo dal punto di vista dell’orgoglio professionale e urgente per le conseguenze altrimenti nefaste, il formare una coscienza responsabile ed etica in tutti coloro che operano nella costruzione e diffusione dei messaggi pubblicitari e giornalistici. Da sempre ho cercato di sottolineare che le colpe risiendono nel singolo e non nella sigla per cui egli/ella lavora (anche se credo che sian piu’ gli “egli” che le “elle” a marcar male). Da sempre, ma fino a due annni fa, ho sempre ricevuto risposte e atteggiamenti supponenti e dubbiosi. Prendendomi del talebano solo perchè indicavo (e indico) la strada del rispetto dell’altro quando si produce informazione pubblicitaria o giornalistica che sia. Da sempre mi sono sentito dire “vai avanti tu che vedrai che nessuno tui segue”…” il business chiede altro”. Molti dei colleghi che fanno ho hanno fatto o fanno finta di fare il mio stesso lavoro (consulente per la comunicazione…. nel mio caso con l’agggiunta del termine “etica”) mi han sempre manifestato vicinanza ma disinteresse operativo. L’etica da sempre per loro era percepita come un freno, mentre per me e’ uno straordinario acceleratore. …. Alle aziende per le quali cerco di lavorare dico sempre…. “se siete disposti a pagare qualcuno che vi rende un servizio che non contiene un processo etico nell’elaborazione del messaggio da diffondere… potete pagare me … il processo etico ve lo regalo… comunque”- Facendola breve … gli stessi ai quali ho rotto certamente le scatole negli anni passati (e ognuno di loro lo sa e molti sono anche TOP) con questo tema allora da loro snobbato…. oggi lo cavalcano bellamente presidiando convegni, scrivendo libri, facendosi eleggere in comitati di ricerca e addirittura facendosi pagare per fare ricerche su un tema per la cui spiegazione basta il buon senso: le persone ripagano chi le rispetta con la fedeltà…. Ma in pubblicita’ ognuno fa quello che puo’. Ma che non mi si venga a dire che chi non ha mai fatto nulla per cambiare sia capace di stabilire come si fa a farlo. Ci vuole una bella faccia… e certamente c’e’ chi ce l’ha. Mi trovate pubblicato come anonimo ma sono pietro greppi e rispondo al 3351380769 o alla mail piotr_4@libero.it Grazie

  8. Ma come può andare avanti il giornalismo, se dopo anni di gavetta e iscrizione all’ordine (100,00 euro annui) per scrivere ti pagano 2 euro. Il mio tempo, le mie ore di studio, i titoli che con sacrificio e senza raccomandazione ho preso, i libri che compro per imparare qualcosa, che valore hanno? Accenno a una misura: io valgo 2 euro. Com’è possibile che succeda questo. Le redazioni chiamano per scrivere pezzi sul precariato, sulla CGIL la CISL e gli altri sindacatati, e poi? Intervistati che minacciano querele, telefonate a carico, viaggi a mie spese. Per 2 euro e qualche pacca sulla spalla! I giornalisti contrattualizzati, i ‘copia e incolla’ che dalle redazioni non si muovono nemmeno per vedere com’è il tempo – preferiscono leggerlo su facebook – sono trincerati nei loro privilegi. Quand’è l’ultima volta che sono usciti a fare un’inchiesta? Il loro compito è aspettare notizie fresche portate da collaboratori esausti che non vedranno nemmeno il loro nome sotto quel pezzo.

  9. Anonimo10 racconta un altro bel pezzo del problema. Ed è un pezzo che, per ovvi motivi, difficilmente ha visibilità sui media. 2 euro è… niente. So che anche molte persone che producono contenuti per il web sono nelle medesime condizioni. Alla fine del commento c’è un altro fatto da notare: l’impossibilità di firmare il pezzo. Che, per un giornalista, coincide con una totale espropriazione della dimensione autoriale. Mi chiedo: è possibile avere almeno un’idea della diffusione tutto questo? Cioè: fanno così tutte le testate, o solo alcune?

  10. Da lettore di quotidiani,ma soprattutto da spettatore radio televisivo assisto passivamente all’occupazione di spazi giornalistici da parte di persone senza senso e professionalità. Non e’ il caso di generalizzare, ma ritengo che spesso non siano ne’ i contenuti ne’ la preparazione le ragioni per cui non ci si scrolla di dosso certe figure.

  11. Sì, il fenomeno è vasto e per averne un’idea basta interpellare l’Ordine o il sindacato dei giornalisti (FNSI), anche se il sommerso è enorme. Vengono chiamati free lance, ma sono solo precari mal pagati e tenuti al guinzaglio dalla minaccia quotidiana di sostituzione con colleghi più docili di loro. Ma questo è sintomatico di cosa sia l’informazione (per il) nel nostro paese. A questo aggiungiamo la schiera sempre più numerosa di giornalisti “militanti”, che non difendono la notizia ma il politico di turno. Costruendo castelli di ragionamenti per trovare giustificazioni a comportamenti ingiustificabili. Giornalisti che dicono o scrivono fiumi di parole per imbonire invece che informare. Non si tratta solo di mancanza di professionalità, peggio, di uso scorretto e fraudolento della professione giornalistica; ma questa è oggi l’Italia.

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