ISTRUZIONE- Un contributo di Tullio De Mauro

ISTRUZIONE – Tullio De Mauro: se un mattino di primavera un governante…

Qual è la differenza tra analfabetismo primario, di ritorno e funzionale? Com’è la situazione in Italia? In che modo gli analfabeti mascherano la loro condizione? Perché l’istruzione è fondamentale per lo sviluppo? E che cosa si può fare per migliorare le cose?
Conversazione alla Scuola Mauri per Librai, Venezia, gennaio 2006.

Tullio De Mauro è professore di Linguistica generale all’università La Sapienza di Roma. È stato ministro della Pubblica istruzione.

In varie parti del mondo governi provvidi (pericolosi “sovversivi”, ma anche prudenti conservatori, perfino “neocon”) si occupano dei livelli di scolarità e lettura del loro paese. Hanno a cuore non solo (forse non tanto) lo sviluppo umano e civile, che quasi sempre, quasi dappertutto, è il primo frutto di alti livelli di istruzione e lettura. Tengono d’occhio anche lo sviluppo economico-produttivo. Perché lo tengono d’occhio? Partirò dalla risposta a questo interrogativo.

Come ormai sappiamo dagli economisti, o dovremmo sapere, è stretta la correlazione tra indici dei livelli culturali (scolarità formale, literacy effettiva, lettura di giornali e libri) e capacità tecnologiche e produttive di un paese e/o anche di una sua singola area regionale.
Rinvio a quattro testi. Anzitutto alle analisi dettagliate del volume curato da Nicola Rossi, L’istruzione: solo un pezzo di carta? (Il Mulino, Bologna 1993): trasferite quanti capitali e imprese volete in un’area, lo sviluppo economico là non decolla se vi sono bassi i livelli di formazione del capitale umano (e, per la verità, se è diffusa la microcriminalità).

Poi rinvio all’intero libro curato da Annamaria Testa, La creatività a più voci (Laterza, Bari 2005), in particolare alle pagine scritte da Giangiacomo Nardozzi, economista del Politecnico di Milano (pp.74-82). Mostra e spiega Nardozzi che anche dove brilli la creatività diffusa nazionale, le imprese italiane non sono in grado di raccoglierla, trasferirla, capitalizzarla: la Nestlè svizzera porta nel mondo i prodotti alimentari italiani, Pizza Hut la pizza napoletana e la Margherita, Starbucks l’espresso e il cappuccino.

Terzo: ricordo le analisi del libro assai informato di Attilio Stajano,Research, Quality, Competitiveness. European Union Technology Policy for Information Society (Springer, New York 2006, in stampa, che ho potuto vedere in bozze). Dopo volumi anche ponderosi, cito una breve schedina di Tito Boeri, mille battute nitide e perentorie, pubblicata in “Internazionale”, n.625, 26 gennaio 2000, p.12, col curioso titolo 000. Il triplo zero non ha eguali in Europa: i primi due zeri (e qualcosa) sono la crescita del PIL e dell’occupazione in Italia nel 2005, il terzo è il più preoccupante, è la crescita della produttività del lavoro, ferma a zero punti da 4 anni. Ma non basta. Scrive Boeri: «Il dato più allarmante riguarda la produttività del capitale: come spiega l’OCSE, l’Italia è diminuita addirittura del 2% annuo nel periodo 1995-2003. L’azzeramento nella crescita della produttività del lavoro e del capitale deriva dalla minore capacità delle imprese di adottare nuovi metodi di produzione e di inventare nuovi prodotti nel mondo rivoluzionato dalle tecnologie della comunicazione».

Scrive ancora Boeri che questi dati «non sono frutto del caso né di una oscillazione ciclica sfortunata, ma sono la continuazione di una tendenza cominciata già negli anni novanta». Vero. Da parte mia, se posso ricordarlo, insisto da molti anni sul punto della indicativa cronica povertà italiana di brevetti, metà di quella spagnola, un quindicesimo della anglo-franco-tedesca, un centesimo della nordamericana e meno di un centesimo della giapponese (La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Bari 2005).
L’idea nuova, se c’è, ma a bassi livelli rischia di non esserci, non trova l’apparato intermedio, l’ambiente che la capisca, raccolga, metta a frutto, trasformi infine in produzione, reddito, prestigio.

Dietro questo ristagno di lungo periodo c’è un livello di istruzione troppo basso nel confronto europeo. E si capisce che sia un’associazione di industriali, fondata da Umberto Agnelli, l’Associazione TreLLLe (Long Life Learning), sia un veterano della lotta per l’alfabetizzazione come Saverio Avveduto (cito da ultimo La croce del Sud. Arretratezza e squilibri educativi nell’Italia di oggi, Università di Castel Sant’Angelo, Roma 2005) sviluppino analisi e proposte che convergono con quelle di due donne di scuola e parlamentari DS, Chiara Acciarini e Alba Sasso, Prima di tutto, la scuola, Melampo Editore, Milano 2006).
Prima di tutto la scuola: non c’è dubbio. Ma la scuola è un investimento a lungo termine: spendi oggi e, se spendi bene, avrai frutti tra dieci, venti anni.

Se spendi bene: la cautela è d’obbligo per parecchi aspetti. Ma qui ne ricordo uno soprattutto. La scuola non può incidere immediatamente sul retroterra culturale degli allievi. Allievi che partono da ambienti segnati da arretratezza culturale partono svantaggiati. In Italia la scuola ha svolto un enorme lavoro per correggere questa condizione. Si fosse limitata a registrare e perpetuare le condizioni di partenza, il 59,2% di adulti senza scolarità, nemmeno la licenza elementare, degli anni cinquanta sarebbe ancora là, a segnare le leve giovani. Non è stato così.

Con la fine degli anni sessanta la scuola era riuscita a portare già allora il 100% delle leve giovani, per tre quinti (almeno) figli dei senza scuola, alla licenza elementare, da cui erano stati esclusi padri e madri, poi, a inizio anni novanta, aveva portato quasi interamente le fasce giovani, nove su dieci, alla licenza media. Infine nel 2000 oltre il 70% delle classi anagrafiche giovani è stata portata dalla nostra scuola al diploma.

Tuttavia si deve dire che a partire dai primi anni novanta attraverso una serie indagini internazionali dell’IEA (Institut of Educational Achievement), ma anche italiane, come quelle eccellenti dell’Istituto Cattaneo dirette da Giancarlo Gasperoni e pubblicate dal Mulino, sono andate oltre il guscio dei livelli formali di scolarità e ci hanno aiutato a capire e vedere che in parte notevole il gran balzo che la scuola ci ha fatto realizzare in termini di scolarità formale ha trovato solo in parte riscontro in un aumento effettivo delle corrispondenti competenze sostanziali.

Le indagini IEA degli anni novanta ci rivelarono che tra un quinto e un quarto dei licenziati di scuola media uscivano sì licenziati, ma con gravi deficit nelle capacità di lettura, scrittura, calcolo.
Pochi anni dopo le indagini di Gasperoni sui livelli dei diplomati dettero percentuali allarmanti di diplomati che, nei test dell’indagine, pur con voti assai alti agli esami di diploma mediosuperiore, non sapevano calcolare la percentuale di 3 su 25 e non avevano idea di come è fatto il Parlamento italiano.

Analisi più raffinate ci portano al cuore dei fatti. Un altro economista, Daniele Checchi, ha svolto negli ultimi anni diverse indagini (The Italian educational system: family background and social stratification, “Annual Report on Monitoring Italy”. ISAE, Roma 2003, pp.131-176; Da dove vengono le competenze scolastiche? L’indagine PISA 2000 in Italia, in “Stato e Mercato”, n. 72, dicembre 2004, pp. 445-4; The Economics of Education: Human Capital, Family Background and Inequality, Cambridge University Press, Cambridge 2005) da cui risulta che soltanto una parte di quelli che vengono da ambienti di basso livello di cultura intellettuale riescono attraverso la scuola a raggiungere le competenze richieste dai diversi livelli formali

Per altri, e non importa ora la percentuale che altrove ho cercato di stimare intorno al 50%, la scuola non riesce a rimuovere l’handicap culturale iniziale, il suo lavoro gira a vuoto come una ruota su un terreno limaccioso.
Qui pesa ancora, presente tra noi, l’eredità dell’analfabetismo secolare, della secolare mancata o bassa scolarità della popolazione adulta. Continueremo a spendere male in scuola se, nello stesso tempo, non aggrediremo questa eredità, non cancelleremo l’analfabetismo adulto che ancora ci affligge e pesa sul destino scolastico delle generazioni più giovani.

Ma ci sono gli analfabeti? Ci sono ancora? E dove? Stupore se se ne parla. Giornalisti assalgono Avveduto, assalgono me, quando ne parliamo, chiedendoci un po’ aggressivamente: “ma dove stanno gli analfabeti?” E aggiungono: “Io non ne vedo mai nessuno”.

Un magistrato di Firenze, Silvia Garibotti, li vede, se ne accorge e lo ha detto al convegno di Firenze Dalla legge alla legalità. Un percorso fatto anche di parole, il 13 gennaio scorso. Ci ha raccontato dei molti casi in cui i testimoni non sono in grado di leggere la formula di rito sul dir la verità e di quanti, leggendola, arrivati alla “mia deposizione” restano smarriti (pensano a Gesù Cristo deposto dalla croce o, i più colti, a qualche sovrano) e lei deve aiutarli e anzi, ci ha detto, ha deciso di lasciare da parte la sacra formula e di suggerire di dire, come diremmo io e voi, qualcosa come “Dirò la verità e so che potrò essere punito se dico il falso”. Ma questo magistrato è eccezionale. Altri, magistrati e non, degli analfabeti non si accorgono o non si preoccupano.

Come si dice dei trucchi, l’analfabetismo c’è ma non si vede. E, naturalmente, non si vede specie se non lo si vuole vedere e far vedere. Attenzione, non parlo degli usi estensivi di analfabeta, una parola ormai assai diffusa (oltre 140.000 testi in Google), che spesso è usata per offendere il giornalista che scrive in modo sciatto, il politico che si mostra disinformato, il professore che ignora la bibliografia fondamentale su un argomento che tratta ecc., tutte persone che in qualche modo leggono e scrivono, e magari anche molto.
L’uso estensivo e offensivo è tanto diffuso che nel 2003 nella Svizzera italiana è stata svolta una ricerca per sostenere che la parola non è political correct e che non bisogna usarla per designare chi non sa leggere e scrivere, ma bisogna ricorrere a sinonimi più politicamente corretti.

Ma qui non parlo di usi estensivi, parlo degli usi propri della parola che, però, sono diversi. Ecco una serie di significati e usi differenti della parola:

– analfabeta primario strumentale è una persona che non ha mai imparato a leggere e scrivere (in talune indagini si aggiunge che nemmeno ha imparato a far di conto, ma per questa categoria si preferisce parlare di innumeratismo, innumeracy in inglese): è, dirò poi, la Hannah di A voce alta i Schlink;

– analfabeta di ritorno strumentale è una persona che ha forse imparato, è andata a scuola per alcuni e a volte per molti anni, ma in età postscolastica ha vissuto una tal vita da disimparare completamente, da non sapere usare lo strumento dell’alfabeto: è la Eunice del giallo di Ruth Rendell;

– analfabeta funzionale è la persona che decifra uno scritto, che sa apporre e riconoscere la propria firma, ma non corrisponde al livello di alfabetizzazione funzionale definito già nel 1952 dall’UNESCO come capacità di andare oltre l’alfabetizzazione strumentale, e cioè di metterla pienamente a frutto sviluppando la capacità di leggere e di scrivere un texte (dice la versione francese) o uno statement (dice l’inglese) su problemi e fatti della vita quotidiana di interesse sociale.

Va detto che l’analfabetismo funzionale è una condizione che tutti possiamo sfiorare: in un tribunale quando ci impappiniamo dinanzi alla controinterrogazione di un abile avvocato, agli esami e, soprattutto, quando siamo esposti alla necessità di un salto di norma linguistica, dobbiamo scrivere aulico e non sappiamo farlo, dobbiamo parlare a un bimbetto e ci accorgiamo che non sappiamo farlo o, peggio ancora, dobbiamo servirci di una lingua diversa dalla nostra, che per certi aspetti conosciamo, per esempio ne sappiamo leggere testi tecnici della nostra materia, ma non sappiamo usarla per leggere o scrivere della quotidianità o di sentimenti: è la condizione iniziale di fronte alla scrittura francese dell’io narrante di quello straordinario gioiello di quella grande scrittrice di origine ungherese che è Agota Kristof, L’analfabeta. Racconto autobiografico.

Questi tre tipi di analfabeti, gli strumentali primari e di ritorno e i funzionali, coesistono e si mescolano tra noi. Le società postindustriali del Nord del mondo si definiscono da se stesse con enfasi “società della conoscenza”. In realtà, produzione di redditi e sfruttamento delle risorse umane sono in genere accortamente organizzate in modo che alti livelli di conoscenze scientifiche e tecnologiche, propri di uno strato ristretto, si equilibrino con livelli mediocri e perfino bassissimi. Gli analfabeti primari (i senza scuola) e gli analfabeti di ritorno sono lo strato più profondo dei livelli bassi. Uno strato che è ampio in tutti i paesi più ricchi ma è enorme, nel confronto internazionale, in Italia.

In un mondo in cui dalle etichette degli alimentari ai cartelli stradali o elettorali tutto è filtrato attraverso testi scritti o, se orali, di grande complessità, come sopravvive chi è tagliato fuori dal leggere, scrivere e capire un grafico, una percentuale?
Varrebbe la pena esplorare la situazione anche psicologica di chi si trova incapsulato in questo strato. Varrebbe la pena tentare una “ricerca ombra”, come quelle che in Italia e USA, e proprio in materia di scuola, ha condotto Marianella Sclavi: seguire come un’ombra qualche analfabeta, ricostruirne la psicologia, il buio di informazioni e però anche le sovrane abilità compensative che sviluppa per vivere a Francoforte, New York o Milano. Per ora, a mia conoscenza, dobbiamo affidarci alla letteratura. Ho già accennato a qualche autore e titolo. Ci torno su.

La macchia umana, di Philip Roth (tradotto da Einaudi, 2003: Robert Benton ne ha tratto un film, 2004), qui l’analfabeta, veramente solo semianalfabeta, è la coprotagonista, Faunia, la bidella a cui, isolato e sconfitto per una falsa accusa, chiede infine aiuto e rifugio il coltissimo professor Coleman Silk, ex preside della Facoltà di Athena, macchiato interiormente per tutta la vita dal sapersi un sangue misto, e accusato e messo alla gogna e costretto alle dimissioni per aver chiamato spooks, “fantasmi”, ma anche “sporchi negri” gli studenti assenti a una sua lezione(doppio contrappasso, per lui gran filologo e sangue misto!).

Altro romanzo è il bellissimo pseudogiallo, secondo alcuni il più bello dei molti di Ruth Rendell, un giallo di cui dall’inizio si conosce l’assassino e perfino il movente, ma non il groviglio psicologico nella mente della protagonista, Eunice Parchman, un’analfabeta che riesce a lungo a tenere nascosta la sua condizione anche alla famiglia da cui è a servizio. Il giallo è Judgment in Stone, La morte non sa leggere (tradotto da Mondadori, 1987; Ousama Rawi, La morte non sa leggere, 1986, e Claude Chabrol, Il buio nella mente, 1995, lo hanno trasposto sullo schermo). Attenzione: Eunice ha fatto tutta la scuola dell’obbligo, ma ne è uscita senza sapersi portare con sé, passati alcuni anni, la capacità di scrivere e leggere (vedrete come supplisce se leggerete il romanzo).

In Germania, un magistrato, Bernhard Schlink, è diventato un best-seller (e si è poi dedicato alla letteratura) raccontando lo stesso tema dell’analfabetismo in un altro giallo-non giallo, Der Vorleser, A voce alta (Garzanti 1996; Anthony Minghella ne trarrà, pare, un film), in cui il giovane Michael Berg intesse una storia con Hannah, più anziana di lui, che agli amplessi fa seguire la richiesta di letture di libri appunto “ad alta voce”: Michael intuisce che Hannah ha un segreto, un doppio segreto, e, come si vedrà, quello che lei considera più grave è l’analfabetismo e non lo confessa nemmeno quando confessare la sua condizione potrebbe salvarla da una condanna al carcere.

L’analphabète. Récit autobiographique (2004), tradotto nel 2005 da Casagrande (Bellinzona), racconta con levità di scrittura (anche dinanzi agli eventi più drammatici e aspri) la vicenda autobiografica dell’autrice, l’ungherese Agota Kristof, dalla sua precocissima scoperta della lettura, da bambina di pochi anni, e poi della gioia di raccontare e scrivere, infantile e poi via via più matura, ma tutto ciò entro il suo mondo linguistico ungherese (a p.25 una pagina non dimenticabile sulla lingua materna), fino alla drammatica fuga, dopo la rivolta del 1956, attraverso l’Austria verso la Svizzera e le “lingue nemiche”, il tedesco e infine il francese, che, lei gran lettrice e scrittrice risospinta dallo sradicamento verso l’analfabetismo nel target language, ha imparato faticosamente prima a parlare, poi, con un’altra nuova fatica, a scrivere nello stile luminoso e lieve che le appartiene.

Nella serie tv “Il Commissario Rex”, RAI 1, 30.4.2004, Una dritta mortale, un analfabeta vergognoso della sua condizione e che quindi tiene nascosto di frequentare un corso per adulti non dice la verità su quel che fa in una certa ora della sera (andare a scuola) e rischia di farsi condannare perché privo di alibi per un assassinio commesso in realtà da un suo “colto” amico cui aveva confidato l’esistenza di goielli in casa d’un ricco gioielliere a riposo; la verità però viene fuori, l’analfabeta, vinta la vergogna e rivelatosi ormai tale, si salva e invece l’amico istruito, inseguito dalla polizia, pur sapendo leggere, non legge un cartello di pericolo, cade in un baratro e muore.

In mancanza di ricerche empiriche su individui, la letteratura e perfino le trasmissioni televisive ci danno per ora il meglio per capire il mondo e le strategie degli analfabeti. E la prima strategia è nascondersi. Solo gli analfabeti in cima a un monte non esitano a confessare (all’ISTAT, come ora vedremo) la loro condizione. Gli altri che vivono tra noi, appena smaliziati, la nascondono ed elaborano strategie complesse per nasconderla, a rischio di farsi condannare per omicidio pur di non confessarla.

Di conseguenza è difficilissimo rendersi conto della enorme massa di analfabeti primari e di ritorno che vive in un paese come l’Italia: segno che, come nei romanzi, elaborano strategie per mascherare la loro condizione.

In più, chi di noi sta ai piani alti dell’istruzione dà un robusto contributo a favorire il mascheramento. E sui dati c’è parecchia confusione. Abbiamo dati di diversa fonte. Sembrano e sono diversi ma, ciascuno a suo modo, sono tutti buoni.

Analfabeti secondo l’ISTAT, sono gli analfabeti autocertificati, che si dichiarano tali o dichiarano tale un loro familiare. Sulla popolazione italiana di oltre 6 anni al censimento 2001 si ha:

Laureati 4.042.259 7,57%

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Diplomati 13.923.366 25,85%

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Lic. Media 16.221.737 30,12%

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Lic. Elementare 13.686.021 25,41%

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Senza titolo* 5.199.237 9,66%

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Analfabeti 782.342 1,45%

* La maggior parte di questi (4.430.982) appartiene alle classi d’età 6-14: perlomeno per le classi 6-11 (circa 3 milioni) è ovvio che si sia in presenza di senza titolo; se poi si scorporano tutti i 6-14enni, i senza titolo ultraquattordicenni sono pari all’1,40% circa. Attenzione: lo stesso non può dirsi per gli analfabeti, che, se dichiarati tali, tali sono anche tra i 6 e i 14 anni!

Analfabeti secondo Avveduto e l’UNLA. Se si tiene conto della “regola” del -5 (e cioè: sappiamo che in età adulta regrediamo mediamente di 5 anni rispetto al livello massimo di una competenza acquisita a scuola, se non la esercitiamo), possiamo ritenere che in età adulta si trovino in condizione di analfabetismo non solo gli analfabeti autocertificati e i senza titolo, ma anche in buona parte i dotati di sola licenza elementare, dunque, ipotizza l’UNLA, 19.667.600 persone (analfabeti autocertificati, senza titolo e muniti di sola licenza elementare) pari al 36,52% della popolazione. Pessimistico? Forse sì, ma non fallace, come si vedrà.

“Illetterati” secondo ALL (Invalsi-MIUR). L’indagine Adult Literacy and Life Skills è un’indagine osservativa condotta nel 2003-04 su un campione stratificato di popolazione dai 16 ai 65 anni in diversi paesi con 5 questionari progressivi, da uno assai elementare a uno piuttosto complesso (una sintesi puntuale dei dati è fornita da Silvana Ferreri, Alfabeti e analfabeti , in “La Vita scolastica”, LX, 12 (1. marzo 2006), pp. 13-18). L’indagine ci dice che nella comprensione dei testi in prosa il 46,1% della popolazione italiana si trova in condizione di illetteratismo, cioè non supera il livello 1, il 35,1% si ferma al livello 2; il livello 3 è raggiunto dal 16,5%; soltanto il 2,3% della popolazione giunge ai livelli 4 e 5, di piena “letteratezza”.

Agli estremi della scala vediamo che sono circa 2 milioni, pari a circa il 5% della popolazione in età postscolastica, le persone non in grado nemmeno di leggere il primo questionario. E scopriamo che più del 30% di diplomati e più del 20% di laureati (dico laureati) si trovano ai livelli uno e due del questionario, tra gli analfabeti e semianalfabeti funzionali.

I dati e le ipotesi dell’UNLA, fondate su dati ISTAT, hanno fatto gridare l’ISTAT e, assurdamente, anche il ministro dell’Istruzione allo scandalo. Il silenzio e la censura hanno accompagnato i dati dell’indagine osservativa ALL, ma queste sono malinconie secondarie.

Il fatto è che abbiamo in Italia, tra persone analfabete primarie, incapaci affatto di leggere, e persone in grado soltanto di compitare e firmare, il 46, 1%, quasi la metà della popolazione, largamente al di sotto della soglia di alfabetizzazione funzionale fissata dall’UNESCO più di mezzo secolo fa.

Se si aggiunge a questa massa l’altro 35,1% della popolazione che si arresta al livello 2 (definito “a rischio di analfabetismo funzionale”), l’indagine ALL conclude che soltanto un po’ meno del 20% della popolazione è in condizione di mediocre o buon possesso delle capacità alfabetiche funzionali.

Vediamo altri dati. Una copia di quotidiano viene letta mediamente da tre persone. Poiché oggi (esattamente come nel 1955!) in Italia si vende un quotidiano ogni dieci abitanti si può stimare pari al 30% la percentuale di persone che leggono quotidiani in Italia. Tra parentesi: è un vero miracolo di buona volontà, di spirito civile, che si venda in Italia una copia di quotidiano ogni 10 abitanti e non ogni quattordici o quindici. Ed è un altro miracolo che si sia arrivati al 38% di persone collegate alla rete! 38% e non 20% come dovremmo aspettarci.

E cioè: nonostante gli handicap iniziali, la bassa e/o mediocre scolarità, la gente ha voglia di leggere il giornale o collegarsi alla rete in una misura assai più alta delle sue capacità alfabetiche. E’ un punto di forza su cui dovremmo saper fare leva.

È in questa condizione complessiva che la scuola ha operato e opera. La massa enorme della illetteratezza pesa su di essa e pesa sull’acquisizione informale di competenze: questo, negli altri paesi studiati dall’indagine, coinvolge il 50%, 60% delle popolazioni, in Italia non tocca il 20%.

Il serpente si morde la coda. I bassi livelli di competenze minano alla base la voglia e disponibilità ad acquisirne di nuove attraverso letture e occasioni personali (p.7 dell’indagine ALL): così dichiara l’indagine ALL. Ma, con le considerazioni del precedente capoverso, possiamo pensare che una più larga offerta di occasioni formative informali potrebbe avere una grande incidenza sulla voglia di crescere culturalmente in via informale. Certo, siamo in una condizione di inferiorità culturale rispetto agli altri paesi europei e del mondo sviluppato. Certo questa condizione pesa negativamente sulla vita della scuola e sullo sviluppo economico e produttivo del paese, sulla circolazione dell’informazione, sulla intera vita sociale. Si può uscire da questa situazione a breve lungo due vie.

La prima via è incentivare la lettura, anzitutto creando una rete di biblioteche territoriali comunali che rendano facile e non oneroso l’accesso al libro e alla rete. In Italia oggi le biblioteche comunali sono 2000 su 8000 comuni. La loro istituzione dovrebbe diventare per i comuni una spesa obbligatoria, come per le fogne, i servizi idrici o i trasporti.
Ma incentivi a leggere possono venire anche da altre fonti: per esempio da provvedimenti didetassazione dell’acquisto di libri per particolari categorie professionali, come gli insegnanti medi ed elementari, a reddito fisso e privi di partita IVA, oppure per categorie anagrafiche, i giovani sotto una certa età.

Seconda via: un piano nazionale per la creazione di CTP, Centri territoriali per l’educazione permanente in tutti i 14000 edifici scolastici, che ora sono utilizzati a scartamento ridotto (6 ore su 24) e in tutti gli 8000 e passa comuni. Con la spesa di un ATA aggiuntivo (un tempo si diceva bidelli) potrebbero funzionare 12 ore, con un altro 18, e ospitare i CTP, che sono stati congelati e atrofizzati dall’attuale governo. Ricerche utilizzate da Benedetto Vertecchi insegnano che un rientro anche breve in formazione (anche pochi mesi e su qualunque soggetto) riattiva nelle persone le capacità di lettura, scrittura, problem solving.

Non sono spese eccessive, anzi non sono spese ma investimenti nelle infrastrutture della nostra cultura, premessa di crescita della nostra vita sociale, delle nostre capacità produttive, del miglior rendimento delle nostre scuole. E’ possibile sperare che chi governerà il paese dalla prossima primavera prenda in considerazione queste proposte e le avvii ad attuazione?

13 risposte

  1. Chiedo scusa. Ho scoperto da poco questa pagina e leggendo questo articolo, per mia scarsa dimestichezza, non mi risultano chiari alcuni punti inerenti al modo in cui esso è stato strutturato:

    1) Si tratta di un articolo dello stesso De Mauro (o di estratti di alcuni suoi saggi), oppure dell’articolista Annamaria Testa (o di chi scrive nella sua pagina)?

    2) Leggo sopra “Conversazione alla scuola Mauri…”; escludendo quindi eventualmente il punto 1), si tratta quindi di una conversazione tra Il prof De Mauro ed Annamaria Testa (o qualcun’altro che scrive nella sua pagina)?

    3) Se il punto 2) mi venisse confermato, quale parte dell’articolo riporta espressamente le affermazioni di De Mauro e quali quelle dell’articolista?

    4) Il prof De Mauro ha espressamente parlato di “Analfabetismo Funzionale”, o ha usato altri termini, per analizzare il fenomeno?

    1. Caro Alessandro, l’intero testo è di Tullio De Mauro, e riporta una sua conversazione alla scuola Mauri. Tullio De Mauro me l’aveva spedito, e gli ho chiesto di concedermi il privilegio di pubblicarlo qui.

      1. Gentile Annamaria Testa

        L’origine della mia domanda deriva dal fatto che mi è risultato davvero strano che un linguista emerito come Tullio De Mauro potesse aver fatto suo l’uso di un neologismo etimologicamente tanto astratto, come “analfabetismo funzionale”. Ha sì spesso parlato di analfabetismo di ritorno, ma non mi sovviene che egli abbia mai citato l’analfabetismo funzionale, se non soltanto in questo articolo. Di fatto, avendo studiato tutti i testi (alcuni dei quali qui citati) nei quali è giusto marginalmente inclusa questa definizione, ho notato che da essi vi emerge tra l’altro una traduzione forse esageratamente letterale del termine “functional illiteracy”, le cui due parole costituenti a loro volta non vanno intese fedelmente al loro originario significato in lingua anglosassone. E più che risultare un oggetto di tesi, l’analfabetismo funzionale sembrerebbe essere piuttosto una categoria del momento, di occasionale circostanza, ossia di comodo e per pura convenzione, funzionale altresì solo strumentalmente ai fini di una ricerca molto più ampia, legata all’istruzione e al mondo del lavoro. È un termine piuttosto vago, poco definito, che racchiude in sé un insieme di categorie disparate di individui: nell’ambito lavorativo, in quello puramente scritto di corrispondenza, in quello dell’apprendimento e in quello sociologico legato all’approccio e allo stimolo all’istruzione, alla comunicazione e al lavoro. Criteri attendibili che accomunino tra loro tutte queste categorie non sono stati di fatto esplicitati nei documenti da me letti, nemmeno in questo articolo. E per quanto si sia voluto dare un nome ed un concetto a questa categoria di persone, anzi a questo fenomeno, in verità non vi è ancora sufficiente chiarezza anche solo nel significato (in questo caso) della parola “funzionale”; figurarsi una chiarezza che sia considerabile sufficiente per poterne parlare liberamente. Vi è più che altro il rischio concreto di dare vita non ad una definizione che sia frutto di un’accurata analisi scientifico-sociologica, bensì ad un’etichetta dal valore squisitamente mediatico. L’Accademia della Crusca sta attualmente tenendo sotto controllo la fruizione e l’impatto del neologismo e del concetto generale da esso derivato. Ma attualmente da esso vi è più una funzione provocatoria e stigmatizzante, che una funzione realmente analitica. Ad avviso fatto, dal momento che un documento del genere di De Mauro l’ho trovato soltanto qui, da voi pubblicato, inviterei cortesemente ad utilizzare con prudenza la definizione di “analfabetismo funzionale”, prima di attribuirla al linguista.

  2. Gentile Alessandro.
    Non attribuisco nulla.
    Ho chiesto a Tullio De Mauro, che per quasi trent’anni (per l’esattezza dal 1988) mi ha onorato della sua amicizia, di poter pubblicare il testo del suo intervento proprio perché mi sembrava assai importante e mi dispiaceva che non fosse disponibile.
    Me l’ha inviato. L’ho copiato e pubblicato senza cambiare nulla. Punto.
    Se ha ancora dubbi, scriva alla Scuola Mauri. Il sito pubblica gli interventi della giornata conclusiva a partire dal 2008, ma immagino che sia conservata traccia anche degli interventi precedenti.

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