Italian sounding

Italian sounding: il marchio Italian Taste e la sfida da 60 miliardi

“Il marchio contro le false imitazioni del Made in Italy” recita un baldanzoso titolo di Rai News. “Contro le false imitazioni” è un magnifico lapsus: dice una cosa che è priva di senso, e che tuttavia risulta stranamente pertinente al fatto al quale si riferisce.
Ecco di che si tratta: negli ultimi mesi, il frenetico attivismo di svariate pubbliche istituzioni ha già prodotto un paio di notevoli stravaganze turistico-promozionali. Sto parlando del discusso sito Verybello e del dissennato logo turistico Rome&you. Ma prima di entrare nel merito della nuova, recentissima stravaganza promozionale a cui si riferisce RaiNews devo segnalarvi alcuni elementi di contesto importanti, e tali da rendere questa e le precedenti stravaganze meritevoli di essere commentate.

TURISMO. Il turismo è strategico per la nostra economia: secondo il rapporto del World Travel and Tourism Council 2014 produce, direttamente, indirettamente o in termini di indotto, oltre il 10% del pil nazionale e riguarda oltre due milioni e mezzo di posti di lavoro.
In Francia e Gran Bretagna, però, il contributo del turismo in termini di pil e occupazione risulta già oggi maggiore. E le previsioni non fanno ben sperare: abbiamo una misera previsione di crescita del contributo del 2% contro un 4.2% mondiale. Ecco perché bisogna darsi da fare, e in fretta.

AGROALIMENTARE. Un altro pezzo di economia nazionale che merita un occhio di riguardo, e non solo per via di Expo, è l’industria agroalimentare, le cui esportazioni crescono a velocità doppia rispetto al totale delle esportazioni italiane: siamo a 34,3 miliardi di euro nel 2014. Esportiamo vino e dolci, e poi formaggi, pasta, passata di pomodoro, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Ma anche l’estremo oriente e il Brasile sono in crescita e oggi oltre 1,2 miliardi di persone comprano almeno un prodotto agroalimentare italiano all’anno. Oltre la metà (750 milioni) compra spesso prodotti italiani.
La filiera agroalimentare vale l’8.7% del nostro pil e riguarda 3,3 milioni di posti di lavoro: il 13,2% degli occupati (fonte: Nomisma per Adm). Oggi le esportazioni valgono un po’ più di un quinto (20,5%) della nostra intera produzione. Ma Germania (33%), Francia (26%) e Spagna (22%) fanno meglio, anche se noi già guadagniamo di più perché i prodotti che esportiamo sono tipici, eccellenti e più cari. Proprio per questo sono anche più esposti alle imitazioni: da una parte c’è l’italian sounding (prodotti fatti altrove che si fingono italiani), dall’altra le contraffazioni vere e proprie. Uno Speciale MarkUp riporta, insieme a molti altri dati, questi:

Italian soundingITALIAN SOUNDING. Notatelo bene: i prodotti italian sounding valgono 54 miliardi di euro. È il doppio del valore dei prodotti italiani “veri” che esportiamo. Il fenomeno si è triplicato negli ultimi 10 anni. Negli Stati Uniti solo un prodotto su otto, tra quelli venduti come italiani, è italiano davvero.
Lo racconta Legambiente: ci sono il Parma salami del Messico, il Parmesao del Brasile, il Parmesan venduto in tutto il mondo, il Regianito argentino, il Parmesano diffuso ovunque in Sudamerica, il Parmeson cinese. Un “parmesan perfect italiano” è fatto in Australia. Ci sono anche un gorgonzola argentino, un barbera rumeno e un pandoro tedesco. ‘Sta roba, lo scrive il Sole24Ore, costa all’Italia 300.000 posti di lavoro. Dunque, anche in questo campo bisogna darsi da fare, in fretta e bene: ci vuole un piano.

IL PIANO. Il piano, in realtà, ci sarebbe. È l’ampio, ambizioso Piano per la promozione straordinaria del Made in Italy varato lo scorso febbraio: sono previsti 260 milioni di euro d’investimento che, considerando la posta in gioco e la dimensione mondiale, restano comunque pochi, ma coi tempi che corrono sono assai meglio di niente. Il piano riguarda moda, cibo e bevande, meccanica.
E vabbè, in realtà sarebbe tutto collegato: l’immagine dell’Italia all’estero, il turismo estero in Italia, l’esportazione agroalimentare, la promozione di moda, design e imprese culturali e creative, l’attrazione degli investimenti. E tutto andrebbe messo a sistema, realizzando sinergie ed economie di scala, perché tutto, in fin dei conti, rimanda al prestigio, al valore percepito e alla desiderabilità internazionale dell’Italia e di ciò che è italiano, alla nostra identità. Ma già un intervento parziale ci riempie di aspettative no? E poi, dai, il bel video presentato a Davos farebbe sperare in interventi efficaci e di qualità.

IL MARCHIO. Ed eccoci, finalmente, al punto. Secondo il documento di presentazione del Piano per la promozione straordinaria (pag.18) una campagna contro l’italian sounding avrebbe già dovuto essere lanciata ad aprile in Canada, dove si vendono 3,6 miliardi di dollari di parmigiano, provolone e prosciutto tarocchi.
Ma oggi in rete trovo solo questa notizia. In compenso, a fine maggio 2015 viene presentato il marchio (anzi, come dicono i documenti ufficiali, il “segno distintivo unico dell’agroalimentare italiano”) che potrebbe identificare nel mondo i nostri prodotti originali. Dovrebbe essere, se adeguatamente applicato e pubblicizzato, l’arma potente, efficace e definitiva contro le vere (e non le false!) imitazioni. Eccolo qui.

Italian soundingPAROLE CHIAVE. Ma… ma perché c’è un blabla generico come The extraordinary italian taste, che ricorda altri generici blabla come Magic Italy ed è talmente generico da sembrare a sua volta italian sounding? E perché mancano tutte, ma proprio tutte le parole-chiave: originale, vero, autentico, inimitabile, garantito, fatto in Italia? Ce ne fosse almeno una, accidenti.
E poi “gusto”, parlando di cibo e vino, è una parola ambigua perché fa riferimento alla percezione soggettiva e non a qualità oggettive: “gusto italiano” è proprio quello che hanno i prodotti italian sounding.
E perché rinunciare non solo a scrivere parole qualificanti, che dicono quel che devono dire, ma anche a scriverle in italiano (lo ripeto ancora una volta: è la quarta lingua più studiata al mondo)? Tra l’altro i termini “originale, autentico, garantito italiano” risultano facilmente comprensibili (per controllare bastano due clic con Google translator) non solo a tutte le persone che parlano inglese e che dunque capiscono la scritta attuale, ma anche a quelle che parlano francese, spagnolo, tedesco, rumeno, lettone e lituano, portoghese…

CREDIBILITÀ. E ancora: i prodotti italian sounding usano, storpiandole, una quantità di parole italiane (su una confezione rumena Prima Pasta le penne diventano “pene”). Perché mai i prodotti italiani “veri” dovrebbero risultare più credibili vantando la propria italianità in inglese?
Tra parentesi: come la mettiamo coi siti italiantaste.it e italiantaste.net, che già esistono si ritroveranno con un bel po’ di pubblicità ministeriale gratuita? Per inciso: mentre scrivo, italiantaste.com è in vendita per “soli” 20.000 euro.

ORIGINALITÀ. Infine: che cosa mai distingue ‘sto marchio distintivo, se si limita ad affermare che il gusto italiano è straordinario? Su questo sono d’accordo anche gli imitatori che, infatti, non solo imitano e replicano, ma sbandierano proprio l’“italian taste”. Guardate i due marchi di prodotti italian sounding pubblicati in cima a questo articolo.
E in che modo ‘sto marchio tutela l’originalità, se non prova neanche a discriminare tra prodotto falso e prodotto autentico e a trasmettere certezza e garanzia ai consumatori?
Infatti, la precedente versione (2014) del Piano per la promozione straordinaria recitava (pag 12): con il Ministero dell’Agricoltura, si introdurrà un marchio internazionale “Italian original” (nome provvisorio) che corrisponde alle nostre DOC/DOP e IGP/IGT. Insomma, il nome provvisorio era meglio. Più preciso. Più semplice. Più chiaro e inequivocabile. Unito a una soluzione grafica davvero distintiva e ben strutturata avrebbe potuto fare un ottimo lavoro: le parole “originale italiano” per descrivere. L’immagine per identificare.

BANDIERE. Invece anche quella bandierina lì, che sembra appesa con quattro mollette a un filo per i panni teso storto, fatica a trovare un suo perché. Da una parte, di solito le bandiere sventolano e garriscono orgogliosamente, e non pendono. Dall’altra, di bandierine italiane variamente disegnate sono pieni proprio i prodotti italian sounding.
Eppure, a dar retta al video di presentazione (tra qualche riga trovate il link) la floscia bandierina appesa (o, chissà?, morsicata) dovrebbe evocare mille cose: territorio, paesaggio rurale, pesca, biodiversità, vino, tradizione, gusto, materie prime e altro ancora. Quelle tre ondine in alto, nel caso non l’aveste capito, sono “il segno del cambiamento, dell’espansione e della crescita”. E pazienza se non si è mai visto nulla che cambi, cresca o si espanda in quella forma o con quell’andamento. E neanche nulla di territoriale, agricolo, originale o appetitoso.

Italian soundingFOODPORN. Oggi, tra video e foto, vino e cibo vengono presentati in modo magnifico, tanto che si arriva a parlare di “foodporn”. Guardatevi, per esempio, questo portfolio (basta cliccare sulle immagini). O guardatevi l’epica campagna Lurpack. Avete visto? Bene, adesso guardate il video che presenta l’Extraordinary italian taste e ditemi se quella lì è la maniera di mostrare un raviolo, una pizza o un pasticcino, e di parlare di promozione dell’eccellenza e della sapienza alimentare italiane.

È DIFFICILE. So bene che è difficile mettere tutto a sistema, ed è difficilissimo mettere tutti d’accordo. So perfettamente che non si può chiedere a chi fa un altro mestiere e si occupa di affari esteri e politiche agricole, o di economia, o di PMI di stare a lambiccarsi sulla qualità grafica, o sulle parole.
So bene che è difficile lavorare con le istituzioni: troppi referenti, tempi stretti. Le molte criticità del risultato possono derivare dalla complessità del processo o da cento altri motivi che non riguardano le competenze dei professionisti coinvolti (non so di chi si tratta: in rete non ce n’è traccia). Magari, tra diverse soluzioni presentate, non è stata scelta la più efficace. Magari questa soluzione è differente dall’idea originale ed è frutto di qualche compromesso.

CORAGGIOSI E INEQUIVOCABILI. Ma, accidenti, un marchio non è una sovrastruttura accessoria e intercambiabile, e in comunicazione la forma (cioè il modo in cui viene espresso un contenuto) determina la percezione, la comprensione, la credibilità del contenuto medesimo. E, con questo, il suo successo presso il pubblico. Le imprese private lo sanno perfettamente e sullo studio dei marchi investono tempo, energie, attenzione, pensiero strategico.
Qui sono in ballo un investimento – finalmente! – importante, e una sfida durissima da vincere: quella contro le “vere” (e non le false) imitazioni. Cominciare con un “vero” marchio, che dica inequivocabilmente e coraggiosamente garanzia e originalità, che non sembri a sua volta italian sounding e che abbia altissima riconoscibilità rispetto ai 54 miliardi di roba taroccata e imbandierata che viaggia sul mercato non sarebbe male.

L’immagine in cima a questo articolo: due dei mille marchi italian sounding. Questo articolo esce anche su internazionale.it

34 risposte

  1. No Annamaria, non era possibile presentare l’extraordinary italian taste in un modo peggiore. Non si giustifica una scelta del genere con “altre priorità” perche i Ministeri alla pari di qualsiasi committente possono scegliere a chi affidare una campagna e soprattutto possono pagare. Considerando le scelte fatte e gli inciampi comunicativi di questa orribile Expo viene il sospetto che a questi signori non interessi proprio nulla di “sfamare il pianeta”. Basti sfamare sè stessi.

  2. È possibile interrompere una tradizione di scempiaggini così consolidata?
    Ogni ente, ministero, assessorato, facoltà, ufficio provinciale si fa fare il marchio, selezionando fra i grafici i più incapaci e compiendo le scelte secondo i criteri di commissioni di inesperti e incompetenti lautamente gettonati. Ne viene fuori che, ad esempio, il Ministero degli Interni ha per logo, (perfetta copia di un logo di una società immobiliare francese) una bandiera il cui primo settore è un rombo, tale da sembrare una porta che si apre. Confondendo “affari interni” con interior.
    Lo stesso ministero utilizza in abbinamento il brushscript, carattere evidentemente molto amato all’interno della pubblica amministrazione.

    Questo extraordinary richiama, con le tre onde, le mantovane delle tende esterne dei negozietti di paese. Ed è così poco evidente che persino Annamaria ha difficoltà a riconoscere cosa si intende raffigurare. Ma il peggio è che ancora una volta si confonde e si promuove –peraltro senza riuscirci– il contenitore invece del contenuto.
    L’unico elemento gradevole è l’ombra, che evoca una giornata di sole nostrano, ma allora perché non il paesaggio, la campagna, l’agricoltura, ciò di cui parla Carlo Petrini? E perché sempre questo insulso inglese da colonia sub-culturale?

  3. Domanda: i nostri “carissimi” Ministeri non potrebbero far scegliere ai cittadini o alle aziende (es. tramite le camere di commercio, tramite “concorso di idee” o altro) quale logo, marchio, testo utilizzare in casi come questo?

    Potrebbero proporre tre/quattro alternative dando la possibilità agli interessati (in questo caso coloro che esportano in tutto il mondo prodotti DOC/DOP, IGT/IGP, ecc) di votare quello migliore.

    A loro scegliere se affidare lo studio dei vari logo/marchio/testo a: studenti, scuole, privati, aziende specializzate e se farlo semplicemente tramite camere di commercio, “concorso di idee” (o altro) aperto a tutti.

    La dicitura “original” sarà anche internazionale ma non mi convince al 100%, si addice forse meglio agli oggetti e all’abbigliamento piuttosto che agli alimenti.

    Con tutti i suoi limiti internazionali, scriverei ad esempio: Prodotto Italiano (DOC/DOP/IGT/IGP se pertinente) : Made in (città, luogo di produzione).

    Si potrebbe inserire un : 100% Italia : Made in (città).

    E il tricolore? Semplice e genuino, come il prodotto.

    Perdonate queste mie proposte banali e non certamente dal sapore “extraordinary”, ma erano soltanto idee 100% Italia : Made in … 😉

  4. Caro NU, cara Annamaria,

    vivo all’estero (Dubai) da tempo e credo si comprenda dunque come il tema del “fatto in Italia” sia di grande interesse per me. Non fosse altro per cercare di avere qualche motivo per rispettare (e amare?) ancora la Patria.

    Il marchio.
    Non sono un tecnico della comunicazione, pero’ sono uno tra i possibili destinatari, e nemmeno a me piace.

    Saro’ strano io ma la prima impressione non e’ stata quella di una bandiera stesa tra tre mollette, ma quella di una fetta di formaggio morsicata e “testurizzata” (come si dice in Italiano?) con la nostra bandiera. (e nemmeno formaggio Italiano, non so perche’ mi e’ venuto in mente l’hemmental :-))

    Inoltre, triste ma vero, qui la bandiera italiana e’ confusa spesso con quella Irlandese. E, certo che non si puo’ cambiare la bandiera!, tuttavia sarebbe interessante una ricerca in merito, credo. A causa della confusione il Tricolore non e’ dunque immediatamente ricondotto, da molti, al nostro Paese.

    Insomma con quel pezzo di formaggio tricolore (e il payoff in inglese) si potrebbe promuovere il Cheddar!

    E poi, davvero, se debbo promuovere l’Italia e i suoi prodotti, perche’ scriverlo in inglese? Parlato un po’ ovunque, certo, ma in molti paesi (dall’Europa del nord, al Sudamerica, passando per Cina e Oriente) una parola in lingua straniera (che’ tale e’ L’inglese per quei paesi) vale l’altra. E allora, straniero per straniero, perche non usare la lingua madre del prodotto che si vuole promuovere?

    Capisco le furbate (stavo per dire baggianata) all’ “Italian Independent” (ma independent da che?) che tuttavia si rivolgono essenzialmente agli anglofonizzati/anglofonodipendenti nostrani. Ma sono con te, quindi, dell’idea che un marchio ideato per promuovere l’Italia deve usare parole Italiane.

  5. Quando anni fa mi trasferii a San Marino per amore, ebbi la fortuna (e l’onore) di lavorare presso una prestigiosa Agenzia pubblicitaria di San Marino gestita da italiani. Per scherzo e goliardia, fra di noi si giocava dicendo “se vuoi fare una campagna istituzionale su San Marino, basta che richiami in qualche forma i 3 picchi del Monte Titano e sei a posto”… era uno scherzo ovviamente e sono passati pure 10 anni… non mi aspettavo dopo tanto tempo di vedere realizzato quello scherzo con l’unica differenza che al posto di 3 picchi ce ne sono 4 -.- !
    Sensazioni personali a parte (leggete ricordi) sarei tentato di pensare che il lavoro sia stato affidato (ma spero vivamente di no) a qualche sito di crowdsourcing.
    Questo giustificherebbe la scarsa qualità o comunque la mancanza di una certa professionalità o efficenza del messaggio.
    Ci sarebbe da dire, però, che difficilmente poi le idee, spot, annunci stampa vinti su una piattaforma crowdsourcing si vedono in giro. Personalmente ne ho visto uno e una sola volta al cinema (era uno spot per poste italiane) e non in TV.

  6. L’unica speranza, in un certo senso, è che il capolavoro sia un parto di qualche ufficio interno al Ministero al cui funzionario designer piacciono i fumetti ed in cartoni animati..ma temo che non sarà così….giusto?

  7. Onestamente non riesco a capire la differenza fra le due seconde versioni, dove nell’articolo viene detto:
    “a vincere il concorso di idee, al secondo tentativo – al primo giro erano state scartate tutte – era stata una bandiera morsicata poi sostituita con l’attuale bandiera “a gradini” …” visto che io “il morso” lo vedo anche su questa seconda versione.

  8. Sono letteralmente disgustato. Ma stiamo ADESSO pagando 20 anni di barzellette, di governi all’amatriciana, di politici de noantri, di ballerine elevate a rango rappresentativo dell’Italia, di gente per bene e di professionisti ridicolizzati soltanto perché seri e scrupolosi.
    Quello che vediamo nella comunicazione è il frutto di una generazione di mezzo incapace di capire, ad esempio, perché un gruppo di tifosi olandesi arriva in Italia e si sente autorizzato a rompere le fontane e a comportarsi da perfetti incivili.

  9. Sì, un tantino sconcertante, forse ancor più delle altre iniziative “ufficiali.” Alla fine gli ignoti sono riusciti a concepire una imitazione vera e a tutto gusto di ciò che si urla per il mondo per spacciare delle immaginarie imitazioni false ( ed esecrabili proprio perché false, no?) dei prodotti italiani, in una contorsione cognitiva sublimata nell’itanglese per un effetto che più maccheronico di così non poteva essere. E dire che pure i maccheroni sono realtà italiana, ma il cacio che immancabilmente cadrà su siffatti maccheroni altro non potrà essere che Parmesão prodotto, non me ne vogliano i simpaticissimi amici brasiliani, dalle parti di Ribeirão Preto Sì, questo maccheronico italian sounding attende ancora il suo geniale Folengo

  10. Concordo su tutto. Non si sono toccati i picchi vergognosi di VeryBello, ma al solito si cede all’inutilità dell’Inglese, soprattutto laddove sarebbe stato naturale, lapalissiano, Catalanico usare l’italiano. Ovviamente vedo più le ferite verbali di quelle grafiche, ma anche su quel fronte …

  11. Un bel morso alla bandiera italiana! Un logo che tra 5 anni risulterà già vecchio.. Ma francamente, dopo tanta spazzatura (logo per la città di Firenze, logo per la Roma Capitale…) questo non è nemmeno così male! Diciamo che siamo abituati a ben di peggio!

  12. Dopo aver letto tutti i commenti (ancke quelli de linkiesta) ho cercato di vedere il “morso alla bandiera”, che non riuscivo a identificare. Ho così scoperto che siamo di fronte a un segno ambiguo del tipo figura-sfondo, come quelle di Wertheimer o di Gaetano Kanisza.
    Quello che io ho visto, dal primo momento, è stata una tenda da Sole da esterni, bianca, con tre balze arrotondate, che fa ombra alla bandiera-parete.
    Se inverto la percezione –tipo profilo di volti/coppa–, vedo finalmente il segno di tre denti su uno spessore non uniforme, dove ogni segmento è arrotondato sul bordo sinistro e non ha spessore sul bordo destro.
    Insomma, anche dal punto di vista percettivo, oltre che strutturale, un best pastrokkio italiota.
    Lo studio grafico che ha fatto il capolavoro, probabilmente un incarico diretto e senza concorso, dato che non si trovano informazioni, ha compiuto proprio un bel mordi e fuggi o prendi i money e skappa. Verybello!
    (Chissà se, punto sul vivo, ci darà la sua versione?)

  13. Ciao Annamaria, grazie per il tuo blog.
    Sono una grafica, forse per quello, il morso l’ho percepito subito, ma ho anche pensato al reato di vilipendio alla bandiera:
    “Chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. La pena è aumentata da euro 5.000 a euro 10.000 nel caso in cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale.
    Agli effetti della legge penale per bandiera nazionale si intende la bandiera ufficiale dello Stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali.”
    Multiamoli tutti!!! Scherzi a parte, se questo logo facesse davvero il giro del mondo, che effetto farebbe una bandiera mozzicata in paesi dove il vilipendio alla bandiera è punito con pene severissime? Penso che un progettista dovrebbe porseli questi problemi, così come chi approva poi il progetto.
    Quello che proprio non capisco è perché con una tradizione grafica come la nostra (faccio un nome per tutti perché la lista sarebbe infinita: Grignani con il marchio di Pura Lana Vergine) si continuino a produrre e a proporre aberrazioni grafiche che ignorano i principi base della progettazione visiva, ma che soprattutto nascono da richieste sbagliate: sarebbe interessante infatti leggere il brief del progetto perché il vero problema di questo logo probabilmente è lì, nelle richieste della committenza.

  14. Premesso che seguo “nuovo e utile” da tempo e spesso condivido quanto scrive Annamaria, oggi però, in questo articolo, vi è un’affermazione su cui vorrei esprimere il mio dubbio e per la precisione mi riferisco a questa frase:” Le imprese private lo sanno perfettamente e sullo studio dei marchi investono tempo, energie, attenzione, pensiero strategico”. Concetto poi, che trovo ribadito da vari commentatori qui di seguito, in vario modo e forse con più enfasi.
    Per essere chiari da subito, penso che: se l’italiano medio riservasse, spostasse, anche solo il 10% delle sue attenzioni totali dedicate al calcio, alla politica, intesa come bene comune, saremmo un paese civile.
    Se la smettessimo di pensare che è sempre colpa di qualcun’altro se le cose vanno male e non, invece, della nostra idiosincrasia allo sporcarci le mani, di sartriana memoria, saremmo un popolo migliore.
    Se non fossimo fondamentalmente un popolo ignorante, difenderemmo il nostro vero patrimonio culturale, che esso sia artistico, culinario, ambientale lo proteggeremmo come un bene assoluto e invece? Oggi la loggia dei Lanzi, ieri Pompei, la lista è semplicemente infinita.
    Premetto questo perché ho conosciuto, nella mia carriera di grafico, dei sindaci onesti, che credevano nell’impegno politico, come governo della cosa comune, ho conosciuto uomini politici che “mettevano la faccia” e pretendevano che nella comunicazione quotidiana, quella che governa la città giorno per giorno, si vedesse. Poi ho conosciuto degli uomini di comunicazione che hanno svilito quest’idea, perché hanno applicato le regole del marketing, non per comprendere, ma per convincere il target di bisogni inesistenti, sempre nuovi, sempre più complicati, sempre più assurdi. Vi garantisco che ogni 5 anni, davanti al gabinetto del sindaco, la fila di liberi professionisti è sempre molto lunga non solo per chiedere, ma anche suggerire lavori nuovi, progetti indicibili e spesso impresentabili. Vedo uomini di comunicazione, che sfruttando l’ignoranza comunicativa dei politici suggeriscono il marchio come risolutore dei problemi, e questi sì avete ragione voi lettori, sono dei marchi nati vecchi, tanto devono durare quanto un assessore, poco, per essere cambiati, dimenticati velocemente e lasciar posto ad altro politico, altro studio grafico, altro finto bisogno.
    Insomma in questo nostro paese la politica ora è un mostro che pervade la vita quotidiana, ma come l’etimologia della parola suggerisce, la politica mostra ciò che noi siamo, ma allora siamo poi così sicuri di essere migliori? Siamo sicuri che l’unico problema di questo paese sia la politica corrotta, lo statale ignorante e scansafatiche? Francamente non sono così sicuro e il dubbio mi venne quando, qualche anno fa, mia moglie insegnante, mi disse che stavano aumentando in modo preoccupante le famiglie disposte a dichiarare il proprio figlio “da certificare”, pur di ottenere per il fanciullo, un percorso didattico facilitato, più semplice, non solo per lui, ma anche per la famiglia, meno compiti, meno impegni, meno problemi.
    Concludo e condivido con molti di voi lettori, quel marchio fa schifo, perché se la grafica è la forma visibile di un contenuto, come io penso, quello è un marchio per un fastfood, dietro non vi è pensiero, conoscenza, cultura, insomma progetto.

  15. Ieri leggevo questo articolo sul nuovo “brand” (le virgolette sono d’obbligo) THE EXTRAORDINARY ITALIAN TASTE. Nato per contrastare il problema dell’ITALIAN SOUNDING, che costa al nostro paese circa 60miliardi di euro l’anno.
    L’esempio lampante è che la CONTRAFFAZIONE ci costa qualcosa come 3 miliardi, mentre l’ITALIAN SOUNDING ne costa 57. Ognuno ovviamente può fare tutte le considerazioni del caso e magari leggendo l’articolo può farsi una idea di cosa parliamo.
    Stamane dopo aver approfondito con altri articoli simili mi sono imbattuto in un video di una GROSSA FIERA 2015 (sovrapponete il numero alla scritta, pls.) in cui si decantavano delle eccellenze gastronomiche italiane, la tradizione, prodotti bio etc. etc.
    In un fermo immagine l’occhio (maledetto) mi “cade” sull’etichetta di “un prodotto” e la bandiera è disposta dal basso verso l’alto in verde, bianco e rosso, un po’ come il DOODLE di GOOGLE di qualche giorno fa.
    Ora io mi chiedo: Abbiamo speranze? E questo logo che dovrebbe rappresentare le nostre eccellenze non sembra uscito da un pack del LIDL?
    Ma soprattutto siamo ECCELLENTI? Dall’immagine che “diamo” sembrerebbe di no (ripeto: dall’immagine che diamo).
    Buona Giornata a tutti.

  16. Inutile, non ce la possiamo fare. Almeno non in tempi brevi. Serve una rivoluzione di mentalità e cultura che richiede tempo.
    In questo momento siamo ancora preda di una sorta di masochismo atavico, fors’anche genetico a questo punto, che ci porta al tentativo continuo di farsi ridere dietro dagli altri.
    Questo ultimo marchio, i casi citati nell’articolo, il celeberrimo “cetriolone” che doveva rappresentare il marchio dell’Italia ai tempi dell’infausto portale Italia.it etc.
    E se cambiamo settore non troviamo di meglio.
    Pensiamo per esempio al caso di questi giorni della cookie law con relative circolari interpretative: ci sarebbe da ridere se non fosse che c’è da piangere per il disagio – anche economico – che creano per chi con l’online ci lavora.
    Ribadisco: serve un deciso cambio culturale. Ed è l’ora che non solo ci si cominci a pensare seriamente, ma si cominci anche a fare qualcosa perché le cose pian piano possano migliorare. A partire dunque col rifiutarsi di cooperare a determinati scempi, vuoi di comunicazione vuoi di altro genere.

  17. Grazie Annamaria per questo articolo. La cosa migliore che possa accadere a questo brand ( ci hanno infilato pure dentro la flexible identity, che fa molto modernità…) è che venga messo nel dimenticatoio. Incredibile che non si sappia chi l’ha fatto. Forse il cuggino del cuggino? No, non ce la possiamo fare siamo indietro di 15 anni.

  18. Fosse di “soli” 15 anni il gap…
    Vedo più realistico che noi si sia indietro di anni luce, purtroppo. Il dramma è però constatare che, ogni santa volta, il divario è sempre quello. Segno che di lavoro da fare ce n’è ancora moltissimo.

  19. ‘The extraordinary Italian taste’ non è nemmeno inglese, ma un bel esempio del’ ‘English sounding’. Ci vorrebbe forse un marchio anche per proteggere il inglese autentico.

    E poi peccato che nessuno si sia accorto del fatto che ‘extraordinary’ non si utilizza solo in un senso positivo: può significare ‘strange’ oppure addirittura ‘extraordinarily bad’.

  20. Come volevasi dimostrare. In questi giorni nella mia piccola città Reggio Emilia scoppia la polemica di piccola provincia, ovvero un’agenzia copia un marchio (Ultravox 1980) e lo vende al Comune, meglio al dirigente del Comune che, ovviamente ignorante in comunicazione, compra. Qui la politica c’entra poco, l’ignoranza invece tanto, ma ora tutti scandalizzati per la copia e nessuno che si sia chiesto la ragione di un marchio per una iniziativa estiva. Allora chiedo: chi è più colpevole il dirigente ignorante o l’agenzia che ha copiato l’inutile?

  21. Gentile Annamaria, mi permetto di inviare a lei e ai suoi lettori, un riferimento giornalistico sulla grafica in genere e quest’argomento come effetto collaterale: su “il Venerdì” di La Repubblica, 3 luglio 2015, pag 73 articolo di Aurelio Magistrà, “Che poster e che cartoline ai tempi del grafico condotto” mostra retrospettiva sul lavoro di Massimo Dolcini e la grafica di pubblica utilità, una vera e propria Cenerentola dalla grafica italiana.

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