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Le macchine “troppo” intelligenti e il futuro del lavoro

C’è il software inventato dal professore dell’Insead (che, così, si configura come autore di secondo grado) per scrivere plausibili libri di nicchia sulle prospettive del commercio del cibo per cani, o dizionari di uguiro (la lingua dei cinesi turcofoni) e pampangan (un dialetto filippino). Ha già pubblicato 106mila titoli. Il passo ulteriore, dice  Riccardo Staglianò, è la narrativa: programmi come StatsMonkey o Narrative Science hanno esordito come cronisti di baseball o di andamenti borsistici. Stesso schema: si cibano di dati e scodellano articoli, mimando costrutti di giornalisti a sangue caldo. Non sono gran letture, però si capisce quel che c’è da capire ed è già un miracolo.

C’è lo smarthphone che parla tutte le lingue, e traduce restituendo anche le inflessioni della voce. E c’è il computer per la diagnosi, capace di aggiornarsi istantaneamente perché può leggere e interpretare milioni di libri e non si fa travolgere da un corpus di conoscenze mediche che raddoppia ogni cinque anni. Sa diagnosticare a partire dai sintomi, disponendo le diagnosi per ordine di probabilità e considerando tutte le 12.000 possibili malattie. In futuro (quando sarà in grado non solo di processare dati, ma anche di elaborare complesse e astratte relazioni di causa-effetto e di fare dedizioni logiche) potebbe essere anche in grado di individuare la terapia migliore.

Tutto questo riguarda, come racconta il New Yorker, il deep learning, la vera rivoluzione dell’intelligenza artificiale: macchine in grado di  percepire, riconoscere, e rispondere in modi analoghi a quelli propri della mente umana. Se ne parlava già alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, si è cominciato ad andarci vicino solo nel 2006, con computer in grado di affrontare enormi masse di dati e di dividerli in categorie. Così, Google sta imparando progressivamente a riconoscere le immagini (per ora ci riesce a patto che la prospettiva non sia troppo strana), e altre macchine cominciano a cimentarsi con concetti astratti integrando tecniche diverse, dalla statistica al ragionamento deduttivo.

Bisogna segnalare che, almeno per ora, queste macchine mimano plausibilmente strutture di pensiero complesse (per esempio, le storie) ma non si può dire che propriamente le capiscano. Sono, però, in grado di fare (meglio) un sacco di lavori, ma proprio tanti, che fino a ieri potevano essere fatti solo da una persona in carne ed ossa: scrivere un testo secondo un paradigma standardizzato, rispondere a un centralino, analizzare migliaia di documenti legali… tutta roba che ha sì una componente cognitiva, ma routinaria e, dunque, prevedibile e programmabile.

Tutto questo sta avvenendo molto, e probabilmente troppo in fretta e solo negli  Stati Uniti può coinvolgere, si calcola, 50 milioni di posti di lavoro, il 40% circa del totale.

È, come scrive il Sole24Ore, una nuova rivoluzione industriale, delle cui dimensioni stentiamo oggi a renderci conto: Le macchine intelligenti possono consentire un incremento del Pil, ma avranno anche l’effetto di ridurre la domanda di persone, comprese quelle intelligenti. Perciò potremmo ritrovarci ad assistere a una società che diventa sempre più ricca, ma in cui gli incrementi di benessere vanno a favore di chi possiede i robot.

Come se ne esce, possibilmente prima di esserci dentro fino al collo? L’unico modo è cambiare radicalmente i paradigmi educativi, e mettere le nuove generazioni in grado di  fare un lavoro che le macchine comunque non sanno (e per un bel po’ non sapranno) fare: prendere decisioni, gestire l’ambiguità, risolvere problemi, applicare la creatività, inventare. In una parola, svolgere compiti cognitivi complessi e non routinari. Vi sembra una soluzione estrema? Eppure è di questo che si parla oggi discutendo di sistemi scolastici. A brevissimo riprendiamo l’argomento.

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16 risposte

  1. Peccato che in un’azienda le posizioni che richiedono queste capacità sono una frazione minoritaria. Direi dal 10 al 20%, se non ci sono molti operai. Fanno eccezione le imprese che forniscono servizi alle aziende, che però sostituiscono o integrano figure comunque ricomprese in quella quota.

  2. Personalmente lo trovo un futuro angosciante. Il tutto sta avvenendo davvero ad una velocità supersonica. Ci sarebbe da domandarsi il perché di tutto questo… proprio ieri ho letto un passo del libro di Asimov “la fine dell’eternità” dove parlando dello studio dell’antropologia, il protagonista sostiene che l’uomo si sia evoluto perché l’ambiente circostante era in continua mutazione e che quindi per non morire, si è dovuto adeguare. Onestamente credo che in questi anni stiamo assistendo ad una sorta di effetto inverso. L’uomo (ormai 7 miliardi) viene sempre più via via marginato e spinto verso il passato (si ritorna all’agricoltura, all’artigianato); e le macchine spinte verso il futuro… se di futuro si può parlare.
    Nello.

  3. Ecco Annamaria. Ci terrei davvero tanto che (molto) prossimamente tu affrontassi questa questione centrale: la relazione tra sistema scolastico, apprendimento, creazione della conoscenza per affrontare la complessità. Sto vivendo sulla pella la scelta degli studi superiori per i miei figli 13-14 enni. Che stiamo affrontando in modo aperto e con una profonda riflessione sul senso della scuola e sulle capacità e sui talenti che non è affatto detto che l’istruzione come viene intesa tradizionalmente possa soddisfare. E’ un tema enorme che credo interessi moltissime persone e ti pregherei di condividere attraverso il tuo taglio metologico il tuo pensiero. Vorrei capire quale è oggi il modo giusto di affrontare la questione con una visione del futuro non dogmatica e libera da sovrastrutture. Ti ringrazio di donare la tua intelligenza così preziosa.

  4. In Young & Rubicam venne prodotto un annuncio.
    Foto in bianco e nero: una bella giovane donna triste con una lacrima che le spunta dagli occhi.
    Titolo: Un computer non sa piangere.
    Testo: Se interrogate un computer potrete sapere tutto di lei. Quanti anni ha, dove abita, cosa legge, cosa compra. Potete scoprire che programmi tv guarda e a che ora. Saprete che programmi ha per Natale, se è sposata. Ma solo un copywriter può dirvi perché sta piangendo. La Young & Rubicam crede nei computer. Ma la Young & Rubicam ama i copywriter.

    1. Ciao Peig. Mi ricordo l’annuncio. Che risale, però, al secolo scorso (a spanne direi agli anni Ottanta).
      Le cose sono cambiate.

      Oggi i computer non hanno ancora imparato a piangere, ma forse sono in grado già di scrivere una storia strappalacrime.

      Ma, soprattutto, molte agenzie sembrano aver smesso di amare la creatività. Non valorizzano il lavoro creativo. Non valorizzano le persone creative. Tendono a massimizzare i profitti industrializzando una produzione che difficilmente può dirsi “creativa”. Con questo si condannano a perdere, già nel medio periodo, ruolo, credibilità, e anche business.

      E’ una logica cieca e autodistruttiva, purtroppo estesa a diversi settori e non solo al mondo della pubblicità.

  5. Interessante l’articolo, ma un po’ troppo condito di enfasi giornalistica. Gli sviluppi dell’ intelligenza artificiale sono innegabili e affascinanti, la progressione è esponenziale, ma siamo ancora lontani dalla “sostituzione degli umani”.
    Molte macchine (e i software che le guidano) sono in grado di fare molto bene e assai più velocemente alcune cose che sembravano prerogativa degli umani. Arrivano perfino ad “imparare” e questo è affascinante. Ma il loro campo di azione è per ora limitato e specifico.
    Arriveremo a sviluppare qualcosa di simile ad “HAL”? Credo occorrano molti decenni ancora….
    Riporto, riveduta per l’occasione, una conclusione di articolo sopra linkato:
    “abbiamo costruito una scala migliore, ma una scala migliore non significa necessariamente che si debba arrivare alla luna”.

  6. …Deep learning. Doppia riflessione, ma solo a monte, senza pensare alle conseguenze nel mondo del lavoro: da un lato l’idea di macchine che mettono insieme libri nozionistici mi piace (i nuovi dati li inseriremo noi umani? magari a un certo punto non dovremo fare più nemmeno data entry). Dall’altro lato penso che sia interessante separare arte e tecnica, dando valore “umano” alla prima (che diventa espressione dei tempi – e di aspettative sui tempi futuri – e di riflessione sui tempi passati – e di mille altre cose… che c’entrano con la creatività e con l’essere appunto… umani). Ma… qualcosa mi sfugge ancora… significa che esiste un linguaggio “tecnico” universale? Non mi convince. Il linguaggio cambia in continuazione… Siamo noi a dover dire alle “macchine” che va cambiato. Siamo noi a creare la formula, insomma. O no?

  7. Ma è determinante che il PIL cresca? se il lavoro diventa sempre più nicchia che senso ha questa nostra vita? l’ambiente lo stiamo distruggendo noi pur essendo tanto intelligenti! La scuola e lo sviluppo obiettivi da condividere.

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