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Quotidiani: pessimi i dati, e la campagna

Secondo i dati presentati a fine giugno dall’Osservatorio tecnico Carlo Lombardi, nel 2009 la diffusione dei quotidiani è scesa sotto i 5 milioni di copie giornaliere, cioè ai livelli del 1939. I periodici non vanno meglio. Gli editori hanno un sacco di problemi (non ultimo quello dei resi, oltre il 30% per i quotidiani e oltre il 45% per i periodici) ed è ovvio che siano preoccupati: tanto da varare una campagna per reclutare nuovi lettori.
Del (modesto) risultato ragionano sia Giovanna Cosenza che Loredana Lipperini.

Aggiungerei qualche domanda: che senso ha provare a reclutare gente che non legge quotidiani e periodici con pagine pubblicitarie che escono su quotidiani e periodici (e sì, qualche surreale radiocomunicato a contorno)? Che senso ha immaginare un soggetto maschile e uno femminile, come se maschi e femmine non potessero condividere alcun interesse? Che senso ha affermare (guardate il bodycopy) che “tutte le persone parlano di cose”? E non di sogni, desideri, accadimenti, idee, vita, progetti, fortune e sfortune, ricordi, affetti, altre persone…?

E ancora: che senso hanno quei vestiti fatti di parole? E quei due (uno per annuncio) tapini in mutande? Che senso ha proporre la lettura di quotidiani e periodici (attività onerosa in tutti i sensi) sottolineando non il piacere di leggere, di pensare, di essere informati, di sentirsi cittadini consapevoli, di affinare i propri strumenti critici, ma come strumento di omologazione a un gruppo? Uno legge per sentirsi un individuo autonomo che ragiona con la propria testa, o per sentirsi identico a tutti gli altri, coperto da un miserrimo vestitino di parole messe a caso? Se volete arrabbiarvi ancora un po’, provate a leggere i vestiti, e confrontate le parole-abito maschili e quelle femminili. Che tristezza.

20 risposte

  1. Numeri che fanno tristezza… ma è giusto così, se gli editori continuano ad arroccarsi, a guardare noi giovani e blogger come la peste, se per loro i social media sono solo chiacchera… beh tanto vale che falliscano… magari sulle ceneri finalmente si potrà costruire! A quel punto non ci saranno più privilegi da difendere e largo al merito e soprattutto a chi avrà le idee!!!

  2. Faccio una piccola considerazione basata sull’altrettanto piccolo spicchio di società con cui ho modo di confrontarmi. Insegno Judo, da ormai diversi anni, a bambini, ragazzi e adulti e per questo ho occasione di relazionarmi con persone appartenenti a fasce d’età che vanno da quella scolare fino alla terza età. Capita spesso di parlare del più o del meno al di fuori del contesto sportivo e quindi anche di lettura. Capita anche che allievi mi aggiungano alla loro lista di amici su Facebook. Visitando i loro profili ho notato come, sempre più spesso, alla voce “libri preferiti” il campo ospiti le seguenti diciture: “libri???” oppure “non leggo libri!” o il più prosaico “???”. Sono solitamente ragazzi che vanno dai 15 ai 25 anni (con l’imbarazzante presenza di qualche mio coetaneo, ex compagno delle elementari, probabilmente rimasto fermo ad allora). Ovviamente quel che rilevo non ha valore statistico, né la mia intenzione è quella di fare di tutta l’erba un fascio, ma credo sia quanto meno “curioso”. Diciamo che mi ha colpito la sfacciataggine nel vantarsi di non aver mai aperto un libro. La home di NeU parla di quotidiani e periodici, ma il concetto è lo stesso. Sembra che leggere non sia cool. Sicuramente comporta un minimo impegno (di intensità variabile), un piccolo sforzo cognitivo e una costanza che sembra posseggano sempre meno persone. E nella lettura come nello sport. Forse, proprio come NeU suggerisce, è il caso di recuperare e comunicare l’idea che libri e giornali parlano, proprio come le persone cui vorrebbe riferirsi la campagna sulla lettura, di cose vicine, di sogni, desideri, accadimenti, idee, vita…

  3. Ciao e te, Annamaria, e a tutti. L’immagine che preferisco è quella riprodotta ora sul frontone del sito, nella sequenza di quattro. Magari con sotto: Lasciamolo leggere in pace, o qualcosa di simile che evochi relax e concentrazione. La scelta della Fieg è invece inefficace e incomprensibile: l’avevo vista di sfuggita (!), senza capirla. Le parole che la Lipperini riporta sono atroci, soprattutto Sposa, Rosa, Sashimi. E Uomini 2 volte: ne parliamo in continuazione, è vero, e non per i bicipiti, ma in un incessante, distruttivo scavo psicologico. Ma non potremmo lasciarli in pace -magari a leggere il giornale-, dopo averli piantati ( conditio sina qua non )? Neuromante, complimenti. Insegni Judo, scrivi bene, leggi: concentrazione, cultura, ambiente in tutt’e tre le attività. Senza scomodare la bookterapy, segnalo il sito http://www.vivere con lentezza.it, che lancia una campagna di lettura collettiva denominata: Leggevamo quattro libri al bar.

  4. DACCI OGGI IL NOSTRO QUOTIDIANO Il calo nella diffusione dei quotidiani è un dato che, una volta tanto, non riguarda solo l’Italia (rapporto OCSE “L’evoluzione dell’informazione e Internet”). Gli unici paesi che registrano una controtendenza sono Irlanda, Portogallo e Turchia: e qui sarebbe utile approfondire il discorso per capire le ragioni che regolano quest’andamento, anche se a naso, mi viene da collegarlo ad un “ritardo” complessivo di queste nazioni rispetto agli altri membri OCSE (leggasi: prima o poi registreranno un calo anche loro). In virtù di ciò, mi sembra abbastanza ovvio che la soluzione a questo problema non può essere trovata tramite una campagna di comunicazione (bella o brutta che sia. E quella della FIEG è bruttissima e stereotipata). Non so se le “colpe” di queste perdite sono da ascrivere ad Internet: ma nel caso in cui così fosse, allora tutto ciò sta a significare che le persone non hanno smesso di leggere. Hanno solo smesso di comprare i giornali. Perché? Per una sfiducia generale nella qualità e nella validità delle notizia? Per cattivi esempi di giornalismo? Per il famoso analfabetismo di ritorno? Forse per tutto ciò, ma anche per altro. Mi viene in mente una famosa citazione da Brave New World di Aldous Huxley: “Perchè non date alla gente libri su Dio?” Per la stessa ragione per la quale non diamo loro Otello; sono vecchi; sono su Dio di 100 anni fa. Non su Dio oggi. “Ma Do non cambia.” Gli uomini però sì. Personalmente, sono affezionata ai giornali – anche se ritengo che la stragrande maggioranza sia davvero carta straccia – ma in un certo senso sono stata preparata a farlo: già dalle scuole medie, dove la mia insegnante di lettere aveva organizzato nella nostra classe una sorta di redazione internazionale, in cui ognuno di noi era l’inviato speciale di una determinata nazione e ogni giorno era tenuto a stilare un bollettino con le notizie che riteneva più interessanti (a me era capitata la Polonia dell’epoca di Solidarnosc, quindi non vi dico il traffico continuo di notizie drammatiche ed entusiasmanti al tempo stesso!). Sul fatto che si legga di meno in generale (non solo giornali ma anche libri), beh, qui il discorso diventa ancora più complesso e trasversale. Chi legge di meno? Come si stabilisce che si legge di meno? Dalle vendite? Dai sondaggi? E poi, se davvero così fosse, tutta la diatriba sugli ebooks decadrebbe immediatamente, no? E i social network sulla lettura (aNobii in testa)? E i blog letterari alcuni dei quali registrano più fan di una rockstar (in particolare uno che ha tra i suoi editori una gloria rock nazionale)? Mah… Vi lascio con questo video molto carino: forse dovremmo ricominciare da qui ;-))) http://www.youtube.com/watch?v=ool3vdgLYdI Eleonora p.s. comunque leggere è amare. [cit.] ;O) p.p.s. perché ho sempre detto LA bodycopy???

  5. @ eleonora. Il genere della parola bodycopy è questione dibattuta: guarda la nota qui in fondo. Tutto sommato, credo che la cosa più importante sia astenersi dal chiamarla/chiamarlo sbrigativamente, come fanno ahimé molti, “body”. Che è davvero un’altra cosa. Il video è davvero un grazioso esempio di uso dello straniamento. Leggere è amare: già… 😉

  6. Innanzitutto buongiorno a tutti, anch’io, come ipotizza eventualmente Eleonora, credo che le persone abbiano smesso di comprare i giornali ma non di leggere, anzi di leggerli. Credo che i lettori di quotidiani, di periodici, di libri siano più o meno sempre gli stessi, magari modificano solo le proprie abitudini. Vorrei però soffermarmi un attimo sulla campagna pubblicitaria, della quale il “parlano di cose” mi sembra l’aspetto meno negativo. Lo vedo solo come l’azzardo di scrivere il linguaggio parlato; credo che a molti di noi capiti di “parlare di una certa cosa o di un paio di cosette” a qualche amico. Certo, è sbagliato scriverlo, io non l’avrei fatto, però si dice. Magari è solo il tentativo di coinvolgere un target più pragmatico. Onestamente, sarò ignorante, ma trovo più curiosa la distinzione tra Giornali e Quotidiani, per la verità. In ogni caso, al di là di questo, credo che la campagna in questione sia l’espressione di un modo di fare pubblicità che da diversi anni predilige la forma al contenuto. Più che all’idea si dà, quasi, più importanza alla perfezione del visual. Non a caso il messaggio è “Chi legge, si vede.” Sembrare non essere questo è il problema. O almeno potrebbe esserlo?

  7. Buonasera Annamaria e voi tutti. Anhe se commento poco vi leggo sempre con interesse (avete mai pensato ad un quotidiano cartaceo NEU ;-P). Ho trovato interessante due cose nella home di neu: 1) il paragone con il 1939 (azzeccatissimo visto i tempi di magra e dove questo Paese sta andando) 2) L’osservazione del “perché i comunicati stampati sui giornali per colpire il potenziale target di NON compratori… di giornali” °_° Poi ho guardato i due comunicati (da bravo aspirante art) e sinceramente li ho trovati tendenzialmente denigranti in due sensi. A) Divisione fra uomini e donne; B) Divisione fra chi legge e non (forse per questo a 36 anni suonati al portfolio night di maggio mi sono sentito dire che il mio era un “portfolio di serie C” con lavori “provinciali”). Molto carini i vestiti fatti con le font però. La divisione fra uomini e donne forse perché c’è ancora il vecchio concetto che i quotidiani sono fatti per gli uomini (intellettuali?) e le riviste patinate per le donne (pettegole e perditempo?)… che strano, la stessa macchina pubblicitaria che vorrebbe l’uomo dall’etsetista (pettegolo e perditempo?), l’uomo che legge riviste patinate al maschile che parlano dei “i 10 trucchi per sedurla” (ma non era intellettuale?) e baggianate varie… Sperando di non essere uscito troppo fuori topic, concludo scrivendo che il fatto che non si vendano più quotidiani (e questo non vuol dire che non vengano letti magari online) sia da attribuire ad un paese incapace di creare un sistema lavoro e quindi far girare l’economia. Voi fra 1 litro di latte ed un qutidiano, dove lo investereste quell’unico euro e cinquanta per non uscire fuori dal budget?

  8. Buongiorno a tutti, sono giornalista, mi occupo di finanza e i numeri sono sempre il mio punto di partenza. Le vendite di giornali sono in calo, in Italia e dovunque nel mondo (guardate questo grafico dell’OCSE: sono gli Usa il paese dove la diminuzione è maggiore; http://www.oecd.org/document/48/0,3343,en_2649_34223_45449136_1_1_1_1,00.html). Però però, partiamo da livelli diversissimi. Ecco le vendite quotidiane di giornali nei principali paesi europei (fonte: Giancarlo Salemi, L’Europa di carta, 2005): Gran Bretagna: 16 milioni Francia: 12 milioni Germania: 25 milioni di copie (non è un refuso: venticinque milioni di copie) Insomma, il problema non è il calo (dovuto alla freepress ma soprattutto a internet, che ha decretato la ormai prossima morte del giornale di carta), ma il numero ridicolo di lettori di giornali che abbiamo in Italia: tenete presente che DA SEMPRE veleggiamo intorno ai 5 milioni, numero che non abbiamo mai superato di granché. Quanto al prezzo: i giornali nei paesi menzionati sopra costano ben più dell’eurino che paghiamo noi. Quindi l’ostacolo alla diffusione non è qui. Dove sta, allora? Io propio non lo so. Valeria

  9. Qualche dato, forse indicativo. Nel sito della Regione Toscana si dice che i lettori dei quotidiani tutti i giorni sono 45% uomini e 29% donne. Per la lettura di libri l’ISTAT nel febbraio 2009 rileva che i lettori sono per il 38,2% uomini e per il 51,6% donne. Si sapeva: gli uomini preferiscono i giornali ( ma non ne leggono tanti). Le donne preferiscono i libri-quelli per pollastre, ma anche i libri di scuola- ( e ne leggono più di quanto tocchi loro).

  10. PERCHE’ IN ITALIA SI LEGGE POCO Scrive Tullio De Mauro, il maggior linguista italiano, all’inizio del 2006: … il fatto è che abbiamo in Italia, tra persone analfabete primarie, incapaci affatto di leggere, e persone in grado soltanto di compitare e firmare, il 46, 1%, quasi la metà della popolazione, largamente al di sotto della soglia di alfabetizzazione funzionale fissata dall’UNESCO più di mezzo secolo fa. Se si aggiunge a questa massa l’altro 35,1% della popolazione che si arresta al livello 2 (definito “a rischio di analfabetismo funzionale”), l’indagine ALL conclude che soltanto un po’ meno del 20% della popolazione è in condizione di mediocre o buon possesso delle capacità alfabetiche funzionali. L’intero articolo, che merita di essere letto, è pubblicato su NeU nella pagina “le visioni dei saggi”. Possiamo presumere che negli ultimi quattro anni la situazione non sia sostanzialmente cambiata. Se si trascura il dato di base riguardante la diffusa incapacità di leggere testi strutturati, non si capiscono i dati nazionali riguardanti la lettura dei libri e della stampa quotidiana e periodica. Non si capisce nemmeno la straordinaria importanza che, nel nostro paese, ancor oggi ha l’informazione (si fa per dire) televisiva. Risulta difficile progettare iniziative efficaci per migliorare le competenze e la propensione a leggere. Eppure questo dato di base viene costantemente ignorato o dimenticato. Si sottostimano l’importanza di una seria educazione scolastica e della formazione permanente. In sostanza: siamo un paese che non legge in primo luogo perché gran parte della popolazione (oltre due cittadini su tre) non ha mai imparato o ha disimparato a leggere. E’ un tema che su NeU abbiamo ripreso spesso. De Mauro continua a dirlo, in ogni occasione, e anche ne La cultura degli italiani, recentemente uscito in un’edizione aggiornata per Laterza. … e tutti, anime belle, fanno finta di niente.

  11. Valeria si domanda quali siano gli ostacoli alla modesta diffusione dei quotidiani in Italia e non si sa dare una risposta. Ovviamente le risposte ci sono e sono molteplici ma, ricordando il buon Pareto (leggi: regola 20-80), io ne butterei lì una sola: l’ignoranza. Scusate l’approccio poco politically correct ma io ho pochi dubbi. Questa risposta spiega, peraltro, sempre a mio parere, anche altre cose che succedono nel nostro Paese…

  12. NOIA, IMMOBILITA’, INTOLLERANZA Ho la vecchia abitudine di predisporre sopra i ripiani dei mobili più alti dei fogli di giornale (già letti) come temporanei raccogli polvere, e con le pulizie generali togliendo i vecchi per rimetter i nuovi, mi capita di sbirciarli e rileggere almeno i titoli. Solite questioni, stesse facce, solito pollaio, che potrei spolverarli, passarci un panno umido e dopo una stiratina con il ferro caldo rimetterli in circolazione e farli tornare freschi di giornata. Così preferisco comprarne di meno, le mie orecchia si rifiutano perfino di ascoltare le rassegne stampa dei più partigiani, il mio grado di saturazione si auspica finalmente che venga colpito da un analfabetismo funzionale, come cita Annamaria, che mi metta in pace per sempre. Mi salvo con internet, con i libri, con i giornali internazionali della biblioteca delle Oblate.

  13. Mi trovo perfettamente concorde con Graziano e con Wc. Ignoranza e “Solite questioni, stesse facce, solito pollaio”. Sono in attesa, per esempio, della nuova campagna mediatica pro-influenza (quest’anno magari sarà portata da canarini domestici o da allevamenti di bradipi), delle nuove promesse pro-istruzione, pro-ricerca e pro-tantecosechesonbelle. Lavorando in una casa editrice, vedo come a volte gli stessi giornalisti vedano se stessi come una castra privilegiata a cui tutto è concesso (ex: collaboro con il giornale del sarcallo e della sagra della burrata: potete inviarmi gratis il catalogo che costa 60.00 euro della tal mostra che non recensirò perchè non tratta di “stracchino nell’arte dal 1500 a oggi”?). On line e su giornali-contenitore (passatemi il termine) come Internazionale invece, mi sento libera: se voglio poi approfondire un determinato argomento, sarà la mia volontà/curiosità a deciderlo. Apprezzo per esempio l’iniziativa di Exibart, che permette di comporre il proprio giornale dell’arte come si preferisce. In un mondo sempre più omologato e fallomarmocchioso, la vera libertà risiede nella scelta. Aggiungiamo inoltre che molti giovani, per darsi un tono e per sentirsi”amici del popolo” (ne discutevo in vacanza con darling) certe letture non le fanno perchè non sono giudicate culturalmente elevate, e questo non fa che aumentare il carico dei resi e degli invenduti. E ora mi confesso: leggo Repubblica e la Stampa on-line, compro quasi ogni settimana la Settimana Enigmistica e ogni mese Wired, Cosmopolitan, Glamour. Leggo Internazionale a casa del mio darling, ma non disprezzo Ginger generation. Sono curiosa, e forse è proprio questo che manca: la curiosità. Chissà dov’è finita…

  14. A PROPOSITO DI INTERNAZIONALE Rurrina cita Internazionale. E’ un ottimo esempio. Una testata nata senza troppe risorse, da un direttore-ragazzo (ai tempi Giovanni, se ricordo bene, non aveva ancora trent’anni) ma su un progetto chiaro e con un rapporto di grande lealtà nei confronti dei propri lettori. E, naturalmente, contenuti eccellenti, curiosità e voglia di capire e far capire. Il piccolo, grande Internazionale ha continuato a crescere e a moltiplicare (intelligenti) iniziative nel corso di tutti questi anni, in bella controtendenza rispetto a un mercato depresso in tutti i sensi. Se non conoscere la testata, o se volete sapere come è nata, guardatevi a questa pagina di NeU il video “inventare un giornale”

  15. Certamente la motivazione è l’ignoranza, e datata, se la diffusione dei quotidiani è da sempre intorno ai 5 milioni. Ma questa considerazione, ve lo confesso, mi fa star male: dichiararlo è come se si fosse arrivati in fondo al libro delle regole. Se però l’ignoranza fosse una seconda scelta o un effetto obbligato? In un paese dove è poco diffuso il senso di responsabilità personale ( unico vanto del pensiero della destra liberale) e molto diffusa, specie al Sud, l’abitudine remissiva di mettersi in fila alla porta di un potente, quale valore pratico può apparire nella promozione culturale? O nell’informazione come quotidiana abitidine di un cittadino?

  16. Grazie, Annamaria, di aver ricordato le parole di De Mauro. Che peraltro citi in chiusura del tuo bellissimo “La trama lucente”. Sono pagine tremende: ci spieghi che un italiano su tre ha difficoltà di comprensione con frasi scritte tipo “il gatto miagola, perché vorrebbe il latte”. Tremendo. Mi sono sentita davvero persa. Perché negli anni scorsi ho tenuto corsi in biblioteche pubbliche e centri culturali su “come difendersi dal cattivo giornalismo”. Insegnavo qualche semplice trucco per smascherare le pessime abitudini dei nostri giornalisti. Niente di troppo diverso da quello che fa David Randall su Internazionale. Ma il problema a questo punto non è il nostro (pessimo) giornalismo. Sono i lettori stessi. E allora cosa ci resta da fare? Cosa mi resta da fare? Io cerco sempre qualcosa che IO STESSA possa fare per migliorare la situazione. E’ chiaro, stato/istituzioni/eccetera devono agire, ma nel frattempo io posso innescare una qualche forma di contagio sociale positivo, no? Ma se questa è la situazione, che cosa posso fare? Valeria

  17. CHE COSA RESTA DA FARE @ valeria – Temo che non esista, purtroppo, “una” cosa risolutiva da fare. E questa è la brutta notizia per la nostra impazienza. Credo invece che vada innescato da più parti un processo. Mi spiego, prendendo a prestito un fantastico concetto espresso a metà del secolo scorso dal grande antropologo Gregory Bateson. Bateson parla di “coevoluzione” intendendo il processo attraverso il quale, nei sistemi biologici e nelle società umane, lo sviluppo del fenomeno A favorisce lo sviluppo del fenomeno B, e viceversa. Per esempio: l’incremento della sensibilità ambientale di élite sempre più ampie di consumatori incoraggia un numero crescente di aziende a proporre prodotti corretti sotto il profilo ambientale, e questo fatto, insieme agli investimenti in comunicazione che ne derivano, rafforza ed amplia ulteriormente i target di consumatori sensibili all’ambiente. Oppure: nel secolo scorso, con l’avvento dei lettori DVD, cresce esponenzialmente l’offerta di film visibili su DVD, e il crescere dell’offerta porta a un ulteriore ampliamento del mercato dei lettori DVD… Oppure: il bisogno di cibi sani e di origine certa, e di nuovi stili alimentari, porta alla crescita di movimenti come Slow Food e più recentemente di fenomeni come Eataly, e il crescere di un’offerta di qualità amplia ulteriormente i target sensibili e interessati. E così via. In sostanza: che crescano la sensibilità, il bisogno e il desiderio di un’informazione di qualità, e che sia noto e percepito il problema della literacy sono, secondo me, fatti assai positivi. Che il bisogno e il desiderio vengano manifestati in ogni occasione, e diffusi, è indispensabile. Come è indispensabile che si colgano con favore tutti i – piccoli e grandi – segnali che vanno in questa direzione. Per esempio: che un periodico come Internazionale cresca. O che il nuovo TG di Mentana abbia realizzato ascolti a due cifre per la prima volta nella storia di un’emittente come La7 magari vuol dire qualcosa. E magari fa venire qualche buona idea sulle potenzialità di un modo differente di fare giornalismo anche a qualcun altro.

  18. VESTITI PARLANTI In effetti la prima volta che ho visto queste doppie pagine, con quei vestiti traforati di parole e il povero/a sbigottito e ammutolito semignudo dietro gli altri, la prima associazione che ho fatto è stata verso i deodoranti ascellari, (quindi con l’olfatto) Poi mi sono detto, ma che scemo, quelle lettere rappresentano lo status dei vari logos celati dai vestiti che certificano nelle etichette il grado di competenza nella moda di chi le indossa, e quindi leggendo l’headline mi è sembrato che tutto cominciava a schiarirsi. (infatti…la vista) Solo alla fine, sbirciando il testo e riconoscendo il marchio della FIEG ho capito dove volevano andare a parare, e mi è sembrato un messaggio ambiguo che sembra che parli di profumi e di marchi glamour solo a coloro che leggono nelle trame dei tessuti che indossano il loro grado di consapevolezza culturale. walter

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