Me lo ricordo bene. Sono stata a Miami per la prima volta all’inizio degli anni ’80, quando ancora buona parte degli alberghi Déco cadeva a pezzi e Miami Beach era un luogo schizofrenico: lungo Ocean Drive un andirivieni modaiolo di gente bizzarra, ragazzi abbronzati e atletici e bionde da schianto, nella strada subito dietro una tremolante folla di vecchi decrepiti vestiti di tessuti sintetici color confetto.
La cosa mi aveva talmente impressionata da convincemi a scriverci un (dimenticabile) racconto. Se volete avere una vaga idea dei tipi umani che si potevano incontrare, guardatevi le foto di Brenda Ann Kenneally pubblicate da Time.
Oggi la città si è espansa, ripulita e gentrificata, ed è abbacinante: di giorno tutto scintilla di bianco, verde acqua e azzurro. Di notte mille recenti grattacieli si stagliano nell’oscurità come torri aliene. Per strada si vede un’esorbitante quantità di Ferrari.
Anche i non molti anziani che si mostrano in giro hanno subìto radicali restauri.
L’architettura Déco resta incantevole. Però prendetevi una mappa (la trovate per un paio di dollari all’Art Deco Welcome center) e divertitevi a distinguere tra gli stili: Tropical Déco, Mediterranean Revival, Miami modern…
A cercar bene, e al di là dei negozi, dei bar e delle belle spiagge potete ancora trovare qualcosa di curioso, o magari di autentico. Per esempio: non potete non fare un salto a Villa Vizcaya: una finta villa italiana costruita da un riccone fragile e solitario ai primi del ‘900, nel bel mezzo della foresta subtropicale, importando dall’Europa marmi, colonne, mobili e cristallerie, arazzi e interi soffitti.
È un progetto talmente strano e visionario che anche la componente kitsch sembra accettabile: c’è dentro sogno, desiderio, onnipotenza, candore, fascinazione, nostalgia. I giardini sono bellissimi.
Usciti da lì, prendetevi la briga di andare a piedi fino a Little Havana percorrendo la Tredicesima avenue, il Cuban Memorial Boulevard. Bastano una quarantina di minuti, ed è un piccolo pellegrinaggio illuminante. Man mano che vi avvicinate, tra scritte celebrative e modesti monumenti ricchi di pathos, potete percepire e ricostruire tutto il senso di frustrazione, orgoglio, dolore e rivalsa della comunità cubana americana.
Little Havana non è granché, ma ci sono tre cose da fare: la prima è fermarsi a guardare gli anziani che giocano a scacchi e a domino al Máximo Gómez Park, contro lo sfondo del mural che celebra i protagonisti del Cumbre de las Américas del 1994. La seconda cosa da fare è cacciare il naso nei negozi di sigari, e possibilmente attaccar bottone coi commessi.
La terza cosa da fare è fermarsi a mangiare (non costa neanche tanto) da Versailles, uno storico ristorantone di cucina cubana. Per guadagnare alla propria candidatura alla presidenza il sostegno della comunità degli esiliati, ci hanno cenato anche Bill Clinton, Mitt Romney e John McCain. I turisti si presentano, ahimé, in ciabatte anche a cena, ma i molti avventori di origine cubana si mettono deliziosamente in ghingheri.
Scendendo da Miami verso sud, un’altra cosa che val la pena di fare è fermarsi al gigantesco parco delle Everglades, patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Ci sono diversi ottimi percorsi e vi basta un pomeriggio per farvi un’idea di come acqua dolce e salata, terre emerse e rigogliosissima vegetazione si possano mescolare dando luogo a un ecosistema complesso e affascinante.
Se vi va, potete anche giocare a “scova l’alligatore”. Un gioco che, tra Florida e Louisiana, potreste praticare piuttosto spesso: tanto vale cominciare da subito.
Il National Geographic ha inserito l’Overseas Highway tra i Drives of a lifetime, i viaggi in auto di una vita. Si tratta di 181 chilometri di strada lungo tutta la collana delle Florida Keys, l’arcipelago di isole coralline che parte dall’estremità meriodionale della Florida.
Sono quattro ore di guida mozzafiato, ed è inebriante la sensazione di essere sospesi letteralmente tra acqua e cielo superando i quasi 11 chilometri del Seven Miles Bridge, tra Knight’s Key e Little Duck Key. Fermatevi ogni tanto, però, per fare un bagno o un giro a piedi, o semplicemente per guardare il panorama. Diverse isole ospitano parchi naturali.
L’isola e la cittadina di Key West sono il punto più a sud degli Stati Uniti, a poco più di cento chilometri da Cuba: strade linde, basse case di legno, ricette di pesce nei ristoranti e atmosfera rilassata. Frequenti arcobaleni LGBT in forme diverse: bandiere, scacciaspiriti, mural, strisce pedonali, pannelli, tende. Del resto Key West è stata, nel 1983, una fra le primissime comunità americane a darsi un sindaco dichiaratamente gay.
Una notevole colonia di gatti accoglie i visitatori nella casa di Hemingway (si tratta dei discendenti dei gatti posseduti dallo scrittore, e oggi sono loro i veri padroni di casa). Galline, pulcini e galli se ne vanno invece a zonzo per le strade (sono una peculiarità locale, peraltro oggetto di costanti controversie). C’è una discreta vita notturna.
Se volete entrare nello spirito, potreste cominciare andando a vedere i turisti che guardano il tramonto affollandosi sul molo che parte da Mallory square. Musica dal vivo, festoni di lampadine colorate, cibo, birra, cocktail e gente che agita telefonini o grossi apparecchi fotografici cercando di catturare un angolo di cielo fendendo la ressa: un rito cominciato negli anni Sessanta. Già che ci siete, spostatevi un po’ più in là e date anche voi un’occhiata anche al tramonto, però.