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Perché in Italia non valorizziamo i giovani? Un commento alla ricerca di A. Rosina

LA SITUAZIONE

L’Italia non investe sulle generazioni giovani, dice Alessandro Rosina dell’Università Cattolica di Milano. Ma, facendo così, l’Italia rinuncia a investire sul proprio futuro

Il primo dato preoccupante è il de-giovanimento demografico: oggi in Italia i giovani sono meno del 25% della popolazione. In Francia e Inghilterra sono oltre il 30%.

Il secondo dato preoccupante è la mancata valorizzazione dei pochi giovani che nascono e crescono nel nostro paese: nel 2005, meno del 70% ha un diploma di scuola secondaria (solo il dato di Spagna e Portogallo è peggiore). Finiti gli studi, i nostri giovani trovano meno lavoro dei loro coetanei europei. E lo trovano sempre di meno, sempre meno pagato, sempre più precario. Il 75% dei giovani sotto i 25 anni dipende economicamente dai genitori, contro una media europea del 55%. Infine, i nostri giovani meno protezione sociale dei giovani europei. Sulle loro spalle, però, pesa un debito pubblico molto elevato.

Decresce, ma di pochissimo, la percentuale degli italiani che considera l’Italia come il paese più creativo del mondo (29% nel 2004, 24% nel 2008), e questo nonostante il recente ed evidente calo di competitività del paese sui mercati internazionali, e una situazione economica tutt’altro che rosea. La novità del 2008, non confrontabile con il 2004 in assenza del dato specifico, è però un 45% degli intervistati che ritiene l’Italia “molto indietro agli altri paesi europei”. Interessanti anche i motivi da cui, secondo il 45% che percepisce il problema, deriverebbe il calo di creatività nazionale: il 60% dice che è “colpa del sistema”, chiamando in causa in primo luogo istituzioni e aziende. Ma anche la minoranza che tira in ballo cause da Ipsos definite come individuali ragiona in un’ottica di sostanziale de-responsabilizzazione: la maggioranza delle risposte dà la colpa alla “vita moderna”, e si trascura completamente il fatto che mai come oggi il mondo occidentale ha avuto a disposizione informazioni, strumenti, stimoli per sviluppare la propria creatività. Della imbarazzante modestia della preparazione media degli studenti italiani, rilevata implacabilmente anno dopo anno dai test Pisa-Ocse, non c’è traccia né nelle domande né, ovviamente, nelle risposte.

Un dato confortante, invece, è la capacità, appartenente ad oltre la metà del campione (il 53%) di distinguere creatività e innovazione, e di interpretare correttamente la seconda come applicazione pratica, concreta e produttiva della prima. Il fatto che sull’innovazione la visione sia meno sfuocata, più realistica, è dimostrato dal dato successivo: per il 62% degli italiani il paese è molto indietro rispetto ai competitor europei.

Ipsos correttamente segnala il delta di meno 17 punti percentuali rispetto alla percezione del livello creativo italiano confrontato con quello europeo. In sostanza: molti connazionali continuano a pensare che siamo un paese creativo, ma quando sbattono il naso contro la realtà nazionale, scarsamente innovativa, a una buona percentuale di loro tocca ricredersi.

La tavola che mette a confronto l’autopercezione in termini di creatività e di innovazione offre molte conferme. Gli intervistati si sentono mediamente più creativi (media 6.9) che innovativi (media 6.3). Anche questo dato è confrontabile, e allineato, col dato 2004 della ricerca Eurisko, secondo la quale il 64% degli italiani si ritiene “molto o abbastanza” creativo.

La tavola successiva propone un altro dato a conferma delle evidenze già individuate da Eurisko: sono le professioni direttive a segnalarsi come dotate di capacità creativa e innovativa. Qualche tavola dopo, qualche dato ulteriore: ben oltre un terzo (per l’esattezza il 44%) dei 402 intervistati su 800 che definiscono se stessi né particolarmente creativi né particolarmente innovativi vede con estrema diffidenza una professione che richiede creatività e innovazione continua: sarebbe davvero molto faticoso. Del resto degli intervistati parliamo tra qualche riga.

Il commento sintetico che chiude la ricerca si spiega da solo: la creatività sembra essere ancora oggi percepita, nella sostanza, come un fatto di originalità individuale e poco altro. In passato siamo stati creativi ma oggi stentiamo a tenere il passo, e questo accade per motivi di sistema più che per ragioni individuali. Le aziende italiane offrono scarse possibilità di essere creativi e innovativi.

Ma l’ultimo punto è particolarmente rilevante e merita di essere riportato per intero: l’autovalutazione degli intervistati ci restituisce una fotografia in cui la maggioranza mostra una sorta di appiattimento riguardo all’innovazione e alla creatività: ciò nonostante l’aspirazione ad un lavoro altamente creativo e innovativo interessa la maggioranza del campione. E anche coloro che, per propria ammissione, non avrebbero le qualità per poterlo svolgere.

Dalla ricerca, in sintesi, emerge l’immagine di un paese che percepisce i temi della creatività in modo sfuocato, che evita di responsabilizzarsi ma pretende di esprimersi, anche se riconosce di non avere gli strumenti per farlo. Non è una bella immagine. C’è da augurarsi che cambi in fretta. Ma questa situazione non è preoccupante solo per le classi di età interessate: è drammatica per l’intero paese che, però, continua a far finta di non accorgersene.

CAUSE POSSIBILI E CONSEGUENZE PROBABILI

Le dinamiche sociali sono complesse e governate da un’infinità di fattori che possono influenzarsi e rinforzarsi a vicenda. Ci preme qui segnalare, a commento della bella ricerca di Alessandro Rosina, un paio di cause possibili, non così evidenti, e che forse non andrebbero sottovalutate.

Possibile causa numero 1: l’Italia è un paese governato essenzialmente da maschi anziani o molto anziani. Crede che questa sia una situazione normale e si sbalordisce perché la Spagna del 2008 si sceglie Carma Chacon come ministro della difesa. Una donna di 37 anni che evidentemente viene ritenuta (ma si sa, gli spagnoli sono gente bizzarra) in grado di fare un lavoro impegnativo. Una donna che per di più è incinta, e che a un mese dalla nomina partorisce un figlio.

E’ ovvio che la visione e la progettualità di un maschio anziano siano influenzate dalla sua condizione: non solo dal desiderio istintivo di difendere posizione e ruolo acquisiti, ma anche dall’incapacità oggettiva di immaginare l’esistenza di talenti, visioni del mondo, culture, esperienze, progettualità e possibilità differenti da quelli che gli appartengono. I maschi anziani che governano l’Italia sono nati e cresciuti nella prima metà del secolo scorso: quando ancora si discuteva se una donna fosse o meno in grado di votare.

Nella già disperante condizione giovanile descritta da Rosina, la componente femminile è ulteriormente e doppiamente svantaggiata. L’Italia è un paese in cui, per cultura e tradizione, le donne sono sottoccupate e sottopagate. Manca una visione delle potenzialità, dei talenti e del possibile contributo che le donne possono dare al paese. E questo avviene ancora oggi, e nonostante il fatto che i risultati scolastici delle donne siano ormai permanentemente migliori di quelli dei maschi.

Se una donna, poi, si azzarda a fare un figlio, la sua condizione diventa ancora più critica.

Dunque, i motivi per cui in Italia si fanno pochi figli e la fertilità è bassissima non sono per niente misteriosi: le madri hanno poca assistenza, poca protezione, rischiano di essere espulse dal mercato del lavoro o di ritrovarsi precarie a vita. Ma i maschi anziani che governano il paese tendono a ignorarli, e soprattutto a ignorare il consistente legame che esiste fra partecipazione femminile al lavoro e fertilità. Mantenere un figlio, e a maggior ragione due figli, con un solo stipendio per molte famiglie è davvero difficile. Specie in una situazione come quella italiana, in cui i figli pesano sulle famiglie molto a lungo. Se in Italia le donne lavorassero di più e avessero lavori migliori, sarebbero anche nella condizione di fare più figli. La situazione demografica del paese sarebbe più equilibrata.

Possibile causa numero 2: mediamente, i risultati scolastici dei ragazzi italiani non sono brillanti. Ecco come il Corriere della Sera (4/12/07) commenta i risultati del test Ocse-Pisa, che mette a confronto le competenze degli studenti quindicenni di 47 paesi del mondo in quattro aree: scienze, matematica, capacità di leggere e comprendere testi (literacy) e attitudine al problem solving.

Il rapporto Ocse-Pisa si è svolto su un campione di quindicenni in tutti e 30 i Paesi dell’Ocse più altri 17 Paesi del resto del mondo. L’Italia ha partecipato con 21.773 ragazzi di quindici anni e 803 scuole tra medie inferiori, superiori e centri di formazione professionale. Il nostro Paese era già stato stroncato nel 2003 nell’indagine approfondita sulla matematica. Quest’anno il tema di approfondimento sono le scienze e i risultati non sono migliori. I test che dovevano riscontrare le conoscenze dei ragazzi e la loro capacità di comprensione hanno dato risultati non incoraggianti: l’Italia ha un punteggio medio di 475 contro una media Ocse di 500 e una media Ue di 497. Il 25,3% dei ragazzi si colloca sotto il livello 2, quello delle competenze di base. Tra i Paesi con punteggi più alti, in vetta alla classifica, Finlandia (563), Hong Kong (542), Canada (534). Peggio di noi fanno, invece, in Ue, Grecia, Portogallo, Bulgaria e Romania.

In matematica va malissimo per gli studenti italiani: sono al posto 38 con 462 punti, contro una media Ocse di 498. I ragazzi vanno molto meglio delle ragazze. Ma, in totale, il 32,8% degli studenti si colloca al livello 2, uno tra i più bassi. In vetta alla classifica Ocse, invece, Taiwan (549), Finlandia (548), Hong Kong (547), Corea (547). Fanalini di coda, i Paesi del Sud-America, la solita Grecia, la Turchia. Ma, ad esempio, la Lituania e la Slovenia fanno meglio di noi. I quindicenni italiani, infine, non si salvano neanche con la competenza nella lettura: l’Italia ha 469 punti contro i 492 della media Ocse che piazzano il Paese al posto 33. In questo ambito le ragazze stravincono sui colleghi maschi. Ma gli Italiani restano indietro comunque. I più bravi al mondo, ai primi posti, sono Corea (556), Finlandia (547), Hong Kong (536) e Canada (527).

Il Corriere tace sul fatto che i risultati sono in peggioramento rispetto alle edizioni precedenti del test Ocse-Pisa e sul fatto che le studentesse hanno in media 41 punti in più dei maschi anche se vanno peggio in matematica. Il dato che qui ci interessa riguarda non tanto le conseguenze competitive per il l’intero paese, che si trova ad avere ragazzi con una formazione di qualità inferiore a quella dei coetanei stranieri, quanto le conseguenze per i singoli ragazzi italiani. Almeno un quarto di loro rischia di uscire dalla scuola dell’obbligo senza avere le competenze di base necessarie per destreggiarsi in un mondo complicato, per capire quello che succede, per esprimere con consapevolezza il suo ruolo di cittadino. E’ gente che, prima ancora di entrare nel mercato del lavoro, si trova ad avere una posizione fatalmente marginalizzata. La tabella che segue mostra il dettaglio dei risultati per quanto riguarda le capacità di lettura censite da Ocse 06, e ci aiuta ad arrivare al nostro terzo punto.

Possibile causa numero 3: commentando la sua ricerca sui trentenni, Alessandro Rosina scrive L’impressione è che si stia creando in Italia, sia nelle teste dei singoli sia nell’immaginario collettivo, un sempre maggior divario tra realta’ desiderata e realta’ vissuta, tra realta’ percepita e realta’ vera, tra cio’ che pensiamo di essere e cio’ che siamo veramente. Tanto che persino i sondaggi non funzionano piu’. Questo crea una sorta di dissonanza cognitiva collettiva che forse sta alla base di molte delle anomalie del nostro paese.

Questo è un paese che non legge perché fa fatica a leggere. E buona parte dei ragazzi non è in condizioni migliori di quelle dei genitori.

Ma chi non legge fa anche fatica a comprendere le parole che non siano d’uso quotidiano, e a sviluppare pensieri complessi come quelli che servono a capire realtà complesse.

Le nostre élite parlano e scrivono (senza nemmeno porsi il problema, e probabilmente senza accorgersene) con un linguaggio che per buona parte della popolazione, giovani compresi, è difficile da capire. Perfino le parole dei telegiornali sono difficili per almeno la metà della popolazione italiana. Il risultato è che, per molti, l’unica finestra sul mondo, l’unica sorgente di valori, visioni, criteri di giudizio, senso di sé è la parte più semplice e spettacolare della televisione: l’intrattenimento, il varietà, gli spot pubblicitari, i quiz a premi, i talk show in cui il conduttore taglia qualsiasi discorso più lungo di mezzo minuto perché se no diventa noioso. Dei programmi d’informazione e di attualità politica passano gli slogan più che i ragionamenti, il litigio più che il confronto: slogan e litigi sono più facili da capire.

Questo fatto porta, forse, a due conseguenze: alla realtà vera si sostituisce la realtà televisiva. E, poiché l’offerta televisiva italiana è, per i motivi che molti conoscono, piuttosto omologata, alla realtà vera si sostituisce una realtà non solo televisiva ma anche piuttosto omologata. Perfino le parole del dolore e quelle della rabbia vengono rubate ai telefilm. E ripetute, a volte, come se venissero malamente recitate.

Conseguenze probabili: se si continuano a fare meno figli perché le donne continuano ad essere svantaggiate. Se i pochi figli mediamente imparano poco a scuola, e imparando poco non hanno, nel loro complesso e come classe anagrafica, gli strumenti per esprimersi, per farsi valere e per rivendicare in modo forte e convincente il proprio ruolo. Se i pochi eccellenti soffrono la scarsità di prospettive e il sistema bloccato, e se ne vanno altrove. Se di tutto questo non ci si accorge perché una fetta considerevole dei cittadini si smemora davanti alla televisione e non possiede altri strumenti per capire come vanno le cose, i maschi anziani che governano il paese in base a criteri e visioni appartenenti alla prima metà del secolo scorso continuerannno a farlo, promettendo miracoli che si avvereranno solo nella pacificante manipolazione televisiva.

Il paese diventerà gradualmente, oltre che ancora più vecchio, più povero, marginale, irrilevante, depresso e ripiegato su se stesso. Tuttavia continuerà a sognare. E a credere (ne è convinto un terzo degli italiani, dato Eurisko 2004) di essere il paese più creativo del mondo. Le élite, d’altro canto, continueranno a chiacchierare tra loro, senza preoccuparsi di avvertire i sognatori, di provare almeno a spegnere la tv, oppure di fare in modo che trasmetta -anche- programmi meno omologanti e tuttavia capaci di farsi capire.

La creatività, intesa come capacità di progettare, inventare, scoprire ciò che è nuovo e utile, ha bisogno di due cose: individui altamente competenti e tenaci, un ambiente favorevole e capace di sviluppare e premiare l’eccellenza. Non è esattamente la situazione italiana.

Lo scenario delineato poco sopra, che nel breve termine sembrerebbe destinato a verificarsi caricando la generazione degli attuali trentenni di una quantità di conseguenze nefaste, nel medio termine potrebbe cambiare, e non solo perché la classe che oggi governa il paese è sì incredibilmente longeva, ma non immortale

Le università stanno comunque producendo, anche per quanto riguarda le discipline scientifiche, una quantità di donne preparate e motivate molto superiore al passato. E’ improbabile che tutte si rassegnino alla scarsa rappresentanza e alle mediocrissime opportunità che hanno avuto le loro madri e le loro sorelle maggiori.

Il web sta ancora più rapidamente erodendo pubblico alla televisione generalista: offre una quantità di informazione, conoscenza, confronto prima impensabili. A costi ridottissimi dà la possibilità di organizzarsi e di fare politica in modo incisivo: l’esempio americano di MoveOn, prima o poi, potrebbe ispirare qualcuno anche da noi.

MoveOn è nata nel 2000 da una semplice mail inviata a cinquanta amici dai coniugi americani Wes Boyd e Joan Blades, due imprenditori informatici di Berkeley, per suggerire una petizione al Congresso: “Censor Clinton and move on” (Censurate Clinton -per lo scandalo Lewinsky- e andate avanti, a occuparvi di cose più importanti). Nel 2001, dopo l’11 settembre, la sigla riemerge per chiedere un reazione moderata e razionale al terrorismo. Nel 2002 è all’avanguardia del rinato pacifismo Americano. Già a fine 2003 ha due milioni di aderenti, supera gli iscritti a qualunque partito americano ed è una straordinaria macchina di raccolta-fondi. Nel 2006 ha 3.2 milioni di aderenti. Nel 2008 appoggia e finanzia Barak Obama contro il repubblicano McCain.

Forse, gli attuali trentenni non ce la faranno. Ma i ventenni o i quindicenni di oggi dovrebbero avere qualche possibilità in più. A patto che studino, mettendocela tutta e colmando le lacune lasciate dalle scuole superiori. Che leggano e non si limitino a guardare la tv, o comunque a inseguire miraggi televisivi di successo e soldi facili. Che siano tenaci. Che aiutino le ragazze a farsi strada (e che, quando queste fanno dei figli, le aiutino anche a casa)

A patto che abbiano il coraggio di accettare la sfida del merito. A patto che siano pronti a lottare per trovare la loro strada e ad abbandonare le piccole certezze e i piccoli comfort che la famiglia d’origine può garantire. E, soprattutto, che capiscano un fatto semplice: nessuna generazione, mai, ha avuto la cortesia di farsi da parte per dare spazio ai giovani.

Bisogna prendenderselo, lo spazio, essendo semplicemente più bravi. Più energici. Più competenti e più coraggiosi. Rinunciando a farsi coccolare dalle famiglie. Correndo dei rischi. Mettendosi in gioco.

Una risposta

  1. Ho personalmente incontrato e conosciuto (e li ho anche in famiglia) tantissimi giovani veramente geniali che, però, hanno scarse risorse economiche e perciò scarse probabilità di emergere. Secondo me (e non lo dico per campanilismo), se lo Stato investisse su di loro e la burocrazia fosse meno invasiva, le altre nazioni sarebbero completamente oscurate dal genio creativo italiano sia delle nuove generazioni che di quelle meno giovani, coi suoi meravigliosi artigiani, per esempio. Si dovrebbe insistere di più su questi punti: ne guadagneremmo tutti ( e non solo in prestigio).

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