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Problemi di comunicazione: e se fossero una scusa? – Metodo 106

Capi di stato e partiti politici, imprenditori e aziende, movimenti e associazioni… chi non ha problemi di comunicazione, oggi? Se qualcosa va storto (per esempio: se un obiettivo raggiungibile non viene effettivamente raggiunto. O se non c’è accordo sul fatto che sia stato raggiunto) e se l’agognato consenso pubblico viene a mancare, la scusa più gettonata è sempre questa: problemi di comunicazione.
Come dire “gente, noi ce l’abbiamo messa tutta ma è accaduto qualcosa che sta al di fuori del nostro controllo”.

CONTENUTO. FORMA. RELAZIONE. PUBBLICO. I problemi di comunicazione non sono qualcosa di separato: 1) dal contenuto dei messaggi 2) dalla forma in cui i messaggi vengono espressi 3) dalla relazione tra chi comunica e il suo pubblico 4) dal fatto che il pubblico “giusto”, selezionato in quanto tale, (se vogliamo usare l’inglese: il target) venga effettivamente raggiunto dal messaggio trasmesso.
Se davvero ci sono problemi di comunicazione, vuol dire che qualcosa non ha funzionato (e dunque che c’è stato un errore) a uno o più di questi quattro livelli: contenuto. Forma. Relazione. Pubblico.

SE IL PROBLEMA È ALTROVE. Ehi, qualche volta, invece, la comunicazione non c’entra un fico secco. E il problema sta altrove, perché a non funzionare sono le idee e le azioni conseguenti.
Donald Trump sostiene l’insostenibile quando, per giustificare il modesto consenso di cui gode, assegna a se stesso una A (un ottimo voto) per i risultati ottenuti, addirittura una A+ (un voto eccellente) per l’impegno e una C (un voto mediocre) per la comunicazione. E lo fa avendo peraltro vinto le elezioni proprio grazie a una strategia di comunicazione inedita ed efficace (anche perché fondata anche su una precisissima profilazione dell’elettorato).
Ma torniamo alla comunicazione, e ai possibili errori.

CONTENUTO. Prima di tutto, il contenuto: può essere inadeguato. E questo può voler dire: inaccettabile, inopportuno, offensivo, incongruo…. ma può anche voler dire sfuocato, inutile, irrilevante o flebile al limite dell’inesistenza.
Oggi, sempre più spesso, sembra che lo scopo della comunicazione sia il fatto stesso di comunicare, presidiando la più vasta area possibile del dibattito e dell’immaginario collettivo. Ma senza uno straccio di contenuto consistente la comunicazione evapora e non lascia traccia, o lascia solo un brutto alone negativo.

Occhio: notate che, a proposito di contenuto, non ho parlato di giusto o sbagliato, e nemmeno di vero o di falso. Ci sono, purtroppo, contenuti falsi e sbagliati che riescono a comunicarsi benissimo, per esempio perché somigliano a quanto il pubblico vuole sentirsi dire. L’unico modo per contrastarli è produrre contenuti veri e giusti che riescano a comunicarsi ancora meglio. E trasmetterli presto e bene, senza stare troppo lì a piagnucolare. Sì, è difficile. E sì, non c’è altra scelta.

FORMA. In secondo luogo: la forma. Chi parla o scrive per un pubblico dovrebbe aver sempre presente il fatto che renderà il proprio discorso efficace per un numero maggiore o minore di persone anche usando certe parole, e unendole in un certo modo, e non solo scegliendo certe argomentazioni e sostenendole in un certo modo.

“Efficace” significa diverse cose, e prima di tutto vuol dire vuol dire agevole da decodificare. Per farsi ascoltare bisogna in primo luogo farsi capire: è la singola semplice regola che alcuni dei cosiddetti “grandi comunicatori” dei tempi recenti hanno interiorizzato. E sì, è una regola che può fare la differenza tra l’avere e il non avere problemi di comunicazione.
La prima domanda da porsi è questa: quanto i miei ascoltatori sono in grado di capirmi (ehi!, capire è una faccenda complicata!) a partire dagli strumenti cognitivi e dalle informazioni di cui dispongono? E la seconda domanda è: quanto la fatica della comprensione, che loro sperimenteranno, verrà ripagata da ciò che dico?
In sostanza, più sforzo richiedo, più devo essere in grado di offrire, in cambio, un contenuto che per il pubblico vale lo sforzo richiesto. Più attenzione chiedo di investire, più devo preoccuparmi di ripagarla.

Interessante, emozionante, incuriosente: queste sono tre buone parole-chiave. Ce n’è un’altra, importantissima specie se si parla in pubblico: “divertente”. Divertente non vuol dire solo “che fa ridere”. Vuol dire che ti cattura e ti fa star bene. Pensate al sense of humor di Barak Obama: essere seri non vuol dire essere seriosi.

FARSI ASCOLTARE. Ed eccoci a un altro punto importante: c’è una enorme differenza tra leggere e ascoltare. Chi legge può decidere il ritmo: può accelerare, rallentare, tornare indietro. Chi ascolta deve seguire, e non ha altra scelta, il ritmo di chi parla. Questo complica enormemente l’atto dell’ascolto e lo rende più fluttuante. Peraltro, questo è anche il motivo per il quale, di norma, ricordiamo meglio e in modo più preciso ciò che abbiamo letto di ciò che abbiamo ascoltato.

Dunque se chi parla vuol farsi ascoltare deve avere una preoccupazione in più, che riguarda il ritmo di chi ascolta. Significa che può, e dovrebbe, usare tutti i possibili accorgimenti (tono di voce, gesti, pause) per aiutare chi ascolta nel compito della comprensione.
Sono di recente stata ad ascoltare Joseph Stiglitz. Parlava, in inglese, di temi economici complessi: lavoro e disuguaglianze. Ma ritmo, tono, scelta dei termini, un pizzico di humor e un adeguato uso di immagini hanno reso il discorso straordinariamente chiaro (e, di conseguenza, assai convincente).

RELAZIONE. In terzo luogo: la relazione.
È proprio il modo in cui diciamo le cose a indicare il modo in cui consideriamo i nostri interlocutori, e a decidere il tipo di relazione che, comunicando, stabiliamo con loro. Questa è la parte più sfuggente, più sottovalutata e più importante del processo di comunicazione. Credo che un singolo esempio basti a suggerire quanto questo aspetto è importante. Riguarda l’arroganza, e sono certa che qualche caso vi sia già venuto in mente.
Spesso, a chi comunicando appare “arrogante”, si consiglia di essere più “umile”. Ma umiltà e capacità di comando (leadership) non vanno molto d’accordo. Tuttavia, chi comunicando appare arrogante sta implicitamente dicendo ai suoi interlocutori “voi non valete niente”: non è un bel messaggio, e pregiudica l’efficacia della comunicazione nel suo complesso. Ma l’umiltà non è l’unica alternativa all’arroganza: si può essere assertivi, competenti, pacati, risoluti, incisivi, vigorosi, suadenti…. senza essere arroganti.

PUBBLICO. In quarto luogo: il pubblico.
Gli interlocutori (il pubblico) non solo “valgono qualcosa”. Valgono tutto. Ed è arrogantissimo non tenerne conto. Forma e contenuto dei discorsi vanno calibrati sui diversi pubblici: l’istinto aiuta, ma ormai non basta più. Ci vogliono dati e ricerche, sia per individuare forme e contenuti convincenti, sia per selezionare i media più convenienti per veicolare quei contenuti, in quelle forme, a quei pubblici. Altrimenti, sappiamo già che succede: problemi di comunicazione.

Se questo articolo vi è piaciuto, potreste dare un’occhiata a qualche altra Questione di metodo. Sono tutte raccolte a questa pagina. Una versione più breve di questo articolo esce su internazionale.it.

5 risposte

  1. Articolo nutrientissimo, come sempre. Grazie!
    A proposito di vari punti toccati (la comunicazione di Trump e lo studio del pubblico), raccomando la lettura di due articoli pubblicati dal Guardian (in inglese):
    https://www.theguardian.com/politics/2017/feb/26/us-billionaire-mercer-helped-back-brexit
    e
    https://www.theguardian.com/politics/2017/feb/26/robert-mercer-breitbart-war-on-media-steve-bannon-donald-trump-nigel-farage
    Allarmanti è dir molto poco. Siamo già a una fase tutta nuova della guerra di propaganda, con mezzi potentissimi, non controllati, non regolati e disponibili solo a un contendente.

    Alla luce di quanto è emerso in tali articoli, riprendo alcuni punti del Suo articolo:

    “L’unico modo per contrastarli è produrre contenuti veri e giusti che riescano a essere comunicati ancora meglio. E trasmetterli presto e bene, senza stare troppo lì a piagnucolare. Sì, è difficile. E sì, non c’è altra scelta.”
    Confronto non impossibile, ma molto impari. L’alt-right americana e i fautori della Brexit nel Regno Unito beneficiano non solo di competenze d’alto livello e finanziamenti immensi, ma soprattutto di uno strumento tecnologico potentissimo, che mette insieme profilazione psicologica, raccolta e analisi dei dati attraverso i social media e intelligenza artificiale. L’impiego di tale strumento è stato nascosto all’opinione pubblica e agli enti preposti. E non viene controbilanciato da uno strumento equivalente nelle mani degli avversari, visto che il suo uso è stato concesso ai soli alleati di Mercer, suo detentore: la destra americana e britannica.

    “Forma e contenuto dei discorsi vanno calibrati sui diversi pubblici: l’istinto aiuta, ma ormai non basta più. Ci vogliono dati e ricerche, sia per individuare forme e contenuti convincenti, sia per selezionare i mass media più convenienti per veicolare quei contenuti, in quelle forme, a quei pubblici. Altrimenti, sappiamo già che succede: c’è un problema di comunicazione.”
    E’ proprio questa la nuova frontiera: la calibratura individuale del messaggio propagandistico, in modo da scavalcare i media tradizionali e andare a sfruttare direttamente le emozioni del singolo votante attraverso il suo profilo Facebook. Si sa cosa pensa il singolo individuo, e gli si può quindi mandare messaggi su misura direttamente tramite Facebook, scavalcando i media tradizionali che molta gente non segue comunque (specie a furia di schernirli come falliti o fabbricanti di “fake news”). Purtroppo i media tradizionali (specie di qualità, meno semplici da digerire rispetto agli spacciatori di slogan) sono come isole in un mare il cui livello cresce sempre più. Insieme alle campagne tradizionali, in Inghilterra questo ha fatto pendere molti indecisi dalla parte del “leave”.

    Buona lettura!

  2. Bellissimo articolo: ottimo come al solito.

    Ma questa volta devo fare i complimenti anche a Gianfranco Zecchini, perché questi link (che devo ancora leggere per intero e verificare) sembrano altrettanto interessanti.

    Yum!

    Andrea

  3. La comunicazione NON è una cosa facile per le ragioni magistralmente Annamaria descrive.

    Non è facile e non si improvvisa. Necessita di un affinamento continuo che, se per una comunicazione scritta pare ovvio, non sempre viene considerato importante in quella parlata.
    Ma che cosa significa affinamento continuo? Io penso che si debba porre attenzione al proprio argomentare e perfezionarlo infinitamente.

    Nella mia attività di formatore mi accadeva di ripetere in aule diverse lo stesso argomento. Bene ogni volta era differente, non solo perché il pubblico era differente, ma perché io volevo migliorare ogni volta, perché dal pubblico precedente avevo avuto dei “ritorni” di rilievo e poi perché, contrariamente, mi sarei annoiata a morte e l’empatia è un elemento fondamentale *_*

  4. Un altro posting ben scritto (come vorrei saper spolpare cosi’) su un tema interessante per tutti ma anche tanto ignorato. Una domanda, Annamaria: come si può essere assertivi, competenti, pacati, risoluti, incisivi, vigorosi e suadenti…. senza essere arroganti e soprattutto, aggiungo io, senza appropriarsi delle idee di chi legge, spesso diverse o addirittura opposte a quelle di chi scrive?

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