pubblicità sessista 2

Pubblicità sessista: piccola storia molto istruttiva

… non smetteremo di batterci per permettere che una donna si possa comportare e vestire come vuole… In apparenza, questa orgogliosa dichiarazione non fa una piega. Nella sostanza non è così. Ma cominciamo dall’inizio: la storia, nel suo piccolo, è istruttiva.

L’adci è il club dei creativi pubblicitari italiani. Non rappresenta “tutta” la pubblicità, ma un gruppo di professionisti attenti alla qualità della medesima, i quali oltre un anno fa hanno varato questo Manifesto deontologico. Lo scorso 8 marzo, un post di Gabriele Clima sul blog dell’adci invita i soci a protestare con un’azienda d’abbigliamento (non l’unica, ahimé) che continua a cercarsi notorietà diffondendo immagini femminili discutibili. La peggio (per ora) delle quali mostra una bella fanciulla che esibisce il proprio perfetto sedere senza mutande. Quel manifesto è stato condannato dal Giurì della pubblicità e l’azienda l’ha dovuto ritirare. Gli altri, per ora, continuiamo a sorbirceli.
L’azienda reagisce al post dell’adci a muso duro, producendo la seguente risposta (in corsivo) che merita qualche commento (in tondo).
Silvian Heach è un marchio esclusivamente femminile disegnato e prodotto dall’azienda Arav Fashion, guidata e composta prevalentemente da donne. 
L’ultimo dei nostri obiettivi è pertanto svilire la donna a cui, di contro, vogliamo dare attraverso le nostre campagne, certamente provocatorie, un messaggio forte di libertà e di apertura mentale.

Ehi, calma, sorelle. Qui c’è un “pertanto” di troppo. Non è che l’esser donne sia garanzia automatica che tutto quel che fate non svilisca, eccetera. Per esempio: che c’entrano l’assenza della mutanda e il sedere all’aria con la libertà e, questa è bella, con l’apertura mentale? E che c’entra la vostra più recente produzione: una signorina dall’espressione stordita, accomodata su una vasca da bagno e brancicata da due tetri giovanotti? Trattasi di pubblicità sessista, e non ci piove.

Le donne Silvian Heach devono poter essere libere di esibire se stesse, laddove lo desiderino,
senza dover temere in alcun modo che il loro atteggiamento, a volte anche sfrontato, possa essere interpretato da uomini prepotenti ed incapaci di
 gestire le proprie pulsioni come un “via libera” a comportamenti scorretti.

Ah, ok, la libertà rivendicata è quella esibire se stesse (modello di ruolo implicito: l’Olgettina) e di essere sfrontate (dal dizionario Hoepli, sfrontato: privo di misura e di ritegno). Tutta ‘sta bella roba coinciderebbe con l’essere (ehm) mentalmente aperte? E magari col valorizzarla, la mente delle donne? Inoltre: mi devo essere persa la parte di messaggio volta a persuadere gli “uomini prepotenti e incapaci” a “gestire le proprie pulsioni”. Dov’è?

Gabriele Clima, forse, dovrebbe domandarsi se ritiene corretto che una ragazza che esce la sera debba rinunciare ad una minigonna per paura di poter essere accusata di aver “indotto” una eventuale violenza.
Questa è un’arrampicata sugli specchi, e si sente il rumore delle unghie fin qui.
La violenza sessuale e domestica e il femminicidio sono un’emergenza mondiale, drammatica, spaventosa e sottovalutata (si veda Internazionale 990, p 38/47): parlarne per giustificare l’ennesima esibizione mercificata del corpo femminile è inqualificabile.
E quando dico “mercificata” sottolineo che il problema non è il corpo nudo, ma il corpo ridotto a oggetto e mostrato in modo del tutto pretestuoso. Il problema non è la sessualità, ma la provocazione sessuale volta a vendere svendendo il corpo.

Io e l’azienda che rappresento, dunque, non smetteremo di batterci per permettere che una donna si possa comportare e vestire come vuole senza che per questo possa essere considerata una istigatrice della violenza maschile.
Grazie mille ma, se il contributo alla lotta contro la violenza maschile è questo, ne faremmo volentieri a meno.

Dicevo che la storia è istruttiva. Ci mostra quanto è facile predicar bene razzolando male: con un po’ di aggressività, sicumera e faccia tosta, ci si può travestire da paladini dei buoni principi e ci si può far schermo di problemi reali per spacciare comportamenti pessimi in sé, e in plateale contraddizione coi principi che si proclama di voler difendere.
È una vecchia acrobazia, rinnovata attraverso esecuzioni sempre più spericolate.

Questo post è uscito anche su Internazionale. Se il discorso riguardante donne e pubblicità vi interessa, potreste anche guardare lo slideshow ospitato in questo post.

 

18 risposte

  1. La scorsa settimana ho partecipato al seminario IAB a Milano e ho notato, come succede spesso in queste occasioni, che gli uomini erano abbigliati tutti dignitosamente, chi in stile classico chi sportivo si notavano e ascoltavano per ciò che avevano da dire non per ciò che indossavano, sia che fossero oratori o spettatori. Lo stesso vale per le oratrici che hanno presentato argomenti diversi, la maggior parte erano eleganti, discrete … qualcuna si è concessa uno stile decisamente curioso: tacchi 20 cm, abiti stile baby doll, accessori esageratamente esagerati, il tutto abbinato ad età non consone. Tra il pubblico, poi, erano diffusi i tacchi inversamente proporzionali alla lunghezza delle gonne. Caratteristica condivisa, oltre allo stile, era l’iperattività di queste donne: con camminata tra il fatto e l’acrobatico, sono passate decine di volte davanti a tutti, operatori video inclusi.
    Sorgono alcune domande: perché, noi donne, sentiamo il bisogno di esagerare ed esibire parti del nostro corpo in occasioni in cui sarebbe consigliabile esibire intelletto? Non ci guardiamo intorno e non osserviamo che gli uomini si abbigliano in funzione di ciò che fanno non in funzione di un’esibizione del sé fisico? Non vediamo gli sguardi perplessi dei nostri interlocutori attratti non da ciò che diciamo ma da ciò che esibiamo? Credo che fino a quando noi donne non faremo del buon senso e del buon gusto i valori che ci guidano nella scelta dell’abbigliamento, chi produce qualsiasi prodotto destinato a noi si permetterà di utilizzare il nostro corpo per vendere e arricchirsi adducendo motivazioni, a dir poco, insulse, poco dignitose, molto opportunistiche.

  2. “perché, noi donne, sentiamo il bisogno di esagerare ed esibire parti del nostro corpo in occasioni in cui sarebbe consigliabile esibire intelletto?”

    Secondo me, lasciatemi semplificare, è un fatto di domanda-offerta. Chi esibisce in questo modo non lo fa per l’esibizione in sé ma perché sa che a qualcuno, dell’altro sesso e in grado di prendere decisioni, è interessato.

  3. Gabriella,
    visitando fiere in Europa capita spesso di vedere giovani impiegate commerciali catapultate nell’esposizione delle merci trasformarsi, per omologazione, in apparenti addescatrici. Credo che questo dipenda dalla convinzione che per parlare di merci occorra mostrarsi merci. Poi c’è una profonda insicurezza che si trasforma e si maschera dietro un’immagine di aggressività provocatoria. Spesso in questa messa in scena l’altro sesso c’entra ben poco: si tratta di competitività intra-genere, la stessa riscontrabile anche negli uomini. Un agente di commercio si riconosce a chilometri di distanza, impacchettato come un regalo di compleanno, ridicolo vuoto a perdere. Le italiane e gli italiani in questo si distinguono per esagerazione, specchio della cultura nazionale e del declino morale inrrestabile. Mi fanno pensare alla velocità “smodata” della navicella spaziale di Mel Brooks. C’è una perfetta concordanza, in questo modo di confezionare la propria immagine pubblica fatta di sola apparenza, con la pubblicità sessista, che sarebbe ancor meglio definire idiota. In quelle immagini e in quei concept di sesso c’è ben poco.
    Quando le merci non hanno, di per sè identità e qualità, la si costruisce facendo riferimento ad alcuni parametri noti e consolidati del mondo. Le merci della “campagna senza mutande” si ispirano evidentemente alla pornografia. Forse ci sono alcune donne che si riconoscono nel messaggio e che ritengono che per farsi notare occorre prostituire la propria immagine, quindi acquistano quel prodotto. Chissà. Ma ci sono moltissime merci pornografiche, sovraesposte. I frigoriferi che compaiono negli spot, stracolmi solo dello stesso prodotto sono pornografici, così come sono pornografiche le folle impegnate nell’assalto al supermercato, secondo i sogni, ahimè irrealizzati, dei committenti di quella pubblicità.
    La stupidità di alcuni creativi e l’acquiescenza dei consumatori fa il resto.

  4. Ringrazio Annamaria per la condivisione della presentazione e per aver riproposto un tema che troppo spesso viene bollato unicamente come una diatriba tra femministe e non. Credo che il problema non sia mostrare un corpo femminile (v. le ironiche campagne WonderBra) ma associare qualunque prodotto a una parte del corpo, senza alcun pensiero critico.

    Personalmente in questi giorni sono rimasta molto colpita (e non in positivo) dagli spot tv della Muller, in cui ogni nuovo gusto corrisponde a un modello maschile a cui le donne cedono (il fate l’amore con il sapore esaltato al massimo).

    E mi chiedo: davvero l’agenzia non ha saputo fare di meglio? O semplicemente quel che vediamo è il risultato di una costante mediazione con le richieste del cliente? Non si possono trovare strade più creative anche nella diplomazia?

  5. Mi piacerebbe -lo suggerisco ad Annamaria–, visto che di pornografia stiamo parlando, un’estensione del discorso alle merci pornografiche in generale. Se per pornografia intendiamo una sovraesposizione smodata e sostanzialmente quantitativa del corpo e dell’atto sessuale, per traslato possiamo considerare, ad esempio, la pubblicità -nonché il design e le dimensioni- di un gran numero di autovetture come messaggio puramente pornografico. Questo perenne fuori luogo e fuori misura ci circonda in modo pervasivo. Oggetti e cibi e persone sono raccontate e mostrate con modalità non dissimili al porno. Anzi, con internet la pornografia classica ha raggiunto una tale diffusa sovraesposizione per cui non provoca più stupore o eccitazione: è diventata una commodity. Lo spettacolo della merce è pornografia, a volte sottintesa e ammiccante, altre volte esplicita, come nella campagna descritta dal post. Anche i registi del porno s’inventano una sceneggiatura per dare una patina di cultura al loro lavoro. La stessa giustificazione dell’agenzia della pubblicità in questione. Questa pornografizzazione del mondo travalica la questione strettamente di genere, che pure condivido, per estendersi ai rapporti sociali, economici e di progettazione del futuro in generale.

  6. Condivido in pieno i commenti precedenti e credo che sarebbe “sano ed utile” istituire un “board” che additi al pubblico boicottaggio tutte quelle merci che usano l’immagine femminile (ma anche maschile…) come specchietto per le allodole con evidenti richiami sessuali. Uno degli esempi – a mio avviso – peggiori è “Acqua di Gio’” con quella sfilza di primi piani voyeristici, ma è in buona, anzi, ottima compagnia.
    Se tutti quelli che aderiscono all’iniziativa boicottassero sistematicamente i prodotti messi all’indice per il suo stile pubblicitario, forse piano piano la smetteremmo di usare tale registro per reclamizzare prodotti magari i pubblicitari potrebbero fornire messaggi utili anche al potenziale cliente (che di norma, oltre agli organi sessuali, e’ dotato anche di cervello) per orientare la sua scelta di acquisto.
    Cosa che, personalmente, già faccio..!

  7. BRAVA Annamaria!

    Vedendo la pubblicità “bella fanciulla che esibisce il proprio perfetto sedere senza mutande” sai che cosa mi viene in mente? Il BUON GUSTO sul quale Umberto Eco ha scritto fiumi di parole. Non sono perbenista, ma…insomma ragazzi (*_))

  8. Ma quella del Campari (o era il Martini?) in cui il vestito di maglia della modella si impigliava nella sedia e progressivamente scompariva, non era la stessa cosa? E’ passato migliaia di volte. Non è che c’entra anche il calibro dell’inserzionista?

  9. In questi giorni ho guardato curiosa delle foto e una mi ha particolarmente colpito, questa:

    http://www.ilpost.it/2013/03/11/foto-sandra-milo/sandra-milo-14/

    Soprattutto mi hanno colpito le espressioni delle donne che assistono alla premiazione o quello che è. Lei doveva essere una donna emancipata, libera o comunque fuori e in rottura con le regole del tempo. Poche sorridono e quelle che lo fanno sembrano essere a disagio. Mi sembra la foto dello spirito di un’ epoca. Così quando ho letto il comunicato di questa agenzia avevo sullo sfondo non il sedere della tipa, ma questa foto d’ altri tempi, e penso con tristezza che la pubblicità si sia impadronita di una battaglia (il femminismo) per ridurla a proprio uso e consumo e in modo talmente potente e prepotente da potersi permettere anche proclami così ipocriti. Tu Annamaria parli spesso di un immaginario da costruire, e a volte faccio fatica a seguirti, perchè rimanere critici e consapevoli ai nostri giorni è un’ impresa ardua. Ecco, a costruire un immaginario ci hanno pensato un certo tipo di pubblicitari e di televisione, per fini poco nobili. I movimenti (lasciamo perdere la politica che mi metto a piangere) che si sono attivati per la liberazione da stereotipi duri a morire scompaiono in rapporto allo strapotere di certa pubblicità. Meno male che ci dai sempre nuovi spunti di riflessione perchè io faccio sempre più fatica a capirci qualcosa.

  10. credo che una donna intelligente abbia tutto il diritto di indossare tacchi alti e gonne corte, e nessuno ha il diritto di considerarla una senza cervello (tra l’altro si può ammirare la bellezza di un uomo o di una donna e apprezzare la sua intelligenza, le due cose non sono in contrasto, se poi uno non riesce ad ammirare senza sbavare il problema è lui non il vestito della donna).
    Anche ciò che dice Rodolfo: il porno (vale a dire il male) è ovunque, mi lascia perplesso (sia perchè non identifico il porno con il male nè lo vedo ovunque).
    Veniamo a Silvan Heach: io sono sicuramente d’accordo che una donna può vestirsi come vuole senza essere considerata istigatrice di violenza o offesa, credo che esista pure la libertà di essere sfrontati/e e “provocanti” (ma poi chi decide cosa è provocante e cosa no?)..ma dai manifesti pubblicitari Silvian Heach tale libertà non traspare: per prima cosa dato che pubblicizzano vestiti dovrebbero mostrare persone vestite e non a culo nudo: non è un problema di pudore o buon gusto, ma di logica commerciale e di contesto (certi contesti sono adatti a certe immagini altri no)..il secondo manifesto poi, quello della donna nella vasca, fallisce totalmente perchè l’espressione stordita della modella non è quella di una donna felice che si diverte con due amanti..quindi il manifesto nega quella libertà sessuale di cui Silvian Heach dice di essere alfiere.

  11. Paolo,
    di norma tengo ben separati i tacchi e le gonne dal cervello e non ho detto che il porno è il male. Se per pornografia intendiamo: ” Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore” secondo il dizionario Treccani, per traslato gran parte degli artefatti che ci circondano rispondono a queste caratteristiche. Al di la del discorso di genere e dell’uso del corpo femminile nella comunicazione solo e in quanto oggetto sessuale, ritengo che siano gli oggetti, le merci, a rispondere maggiormente alla categoria dell’osceno. Quando un politico-merce appare in tv eccolo che indossa l’oggetto “cravatta rossa” che non vedi in altre occasioni, solo perché qualche consulente gli ha detto che a video attira maggiormente l’attenzione ed evoca un fallo in erezione con il glande bene in vista. Ecco quindi che il politico-merce si denuncia per ciò che è, tanto per dirla con un elegante francesismo: una esimia testa di c. , un uomo-oggetto impegnato in un atto pornografico.
    Moltissime merci che fanno riferimento allo status –praticamente tutte tranne qualche limitata commodity- tendono a sovraesporre sempre più e sempre più spesso in modo osceno, la loro natura, basta dare un’occhiata agli smisurati suv –al di fuori di ogni antropometria– che richiedono di spostare tremila chili per trasportarne intorno ai sessanta, di cui dieci di cellulite. Per non parlare del cibo da continua grande abbuffata, dell’energie e delle risorse naturali utilizzate per fare piste da sci negli emirati, vero e proprio crimine contro l’umanità. Forse quelle due misere chiappine posizionate su due coscette incavate, da fare invida alle signore del suv in dieta perenne, è la cosa meno oscena, dato che lo è molto di più la ignonbile giustificazione dei “creativi” che quell’immagine hanno partorito.

  12. ” Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore” secondo il dizionario Treccani”

    ecco appunto, senza entrare nel merito del tuo discorso sul fatto che le meci siano la vera pornografia e la vera oscenità, il problema è proprio questa definizione..innanzitutto ci sarebbe da dire cosa è osceno e cosa no..anche qua entriamo in un bel ginepraio..perchè applicando la definizione della Treccani la pornografia può essere rintracciata davvero ovunque, l’amante di Lady Chatterley stando alla Treccani sarebbe porno (e tale era considerato all’epoca poichè trattava di cose ritenute oscene per gli standard vigenti e di sicuro eccitanti)..io ne ho un’altra molto meno generica: porno è quella forma di fiction incentrata su atti sessuali non simulati e in cui la non simulazione è continuamente mostrata e dimostrata dalla mdp pertanto le scene di sesso, d’amore che vediamo nei film non porno non sono pornografia per quanto possano essere realistiche o eccitanti per gli spettatori (e pure oscene secondo qualcuno)..non sono porno non solo perchè sono giustificate da una trama di cui fanno parte, non solo perchè gli attori comunque simulano, ma perchè, anche qualora facessero sesso “per davvero”, noi spettatori non vediamo la “prova visiva” dell’avvenuto rapporto sessuale.insomma viene lasciato all’immaginazione ciò che di solito il porno mostra insistentemente

    1. È proprio quanto sostengo a proposito della cravatta rossa dei politici in tv.
      Sono approdato al concetto di “pornografico” a partire dall’osservazione dagli oggetti merce, non dalla estensione agli oggetti della sovraesposizione dell’atto sessuale, che ritengo estremamente marginale nell’ambito del concetto di pornografia e che ben poco m’interessa e i cui limiti sono strettamente individuali.

  13. “pertanto le scene di sesso (a prescindere da quanta “nudità” vediamo), d’amore che vediamo nei film non porno non sono pornografia per quanto possano essere realistiche o eccitanti per gli spettatori”

    tra l’altro non sono un appassionato di film porno ma a quanto mi dicono le scene porno hanno poco di realistico ed è strano se si pensa che tutto è basato sul fatto che non stanno simulando

  14. Nelle possibilità d’uso di un vestitino di cotone, nero, probabilmente confezionato in Cina per quattro soldi, c’è, se lo consideriamo quale abbigliamento, cioè oggetto con cui abbigliarsi, anche la libertà di sollevarlo e scoprirsi il sedere, sincero e smutandato. Ma questa possibilità è insita in ogni abbigliamento e non appartiene alla marca. Il fatto che la marca se ne impossessi e ne faccia strumento col quale concretizzare la libertà di agire travalica il suo ruolo. Se la comunicazione cerca la concordanza con quante ritengono che mostrare le terga sia un fatto liberatorio ai margini della morale comune, in effetti rivela le sue pruderie e la sua bacchettonaggine (se così si può chiamare) e le reazioni alle critiche lo dimostrano. La messa in scena della merce non aggiunge nulla a quella particolare merce. Qualunque vestitino può essere sollevato allo stesso modo. Quello in questione non ha nulla di più o di meno e, comunque, le differenze oggettive si collocano in uno spazio esterno al messaggio e alle modalità d’uso mostrate.
    Stiamo parlando di oggetti e di relazioni con essi; al più di simbologia collettiva e di immaginario socioculturale condiviso. Da questi pensieri i miei precedenti interventi sulla pornografia degli oggetti. Mi scuso per gli interventi multipli ma il tema è particolarmente intrigante e a tratti divertente.

  15. Ho postato questo commento su Internazionale, con l’intento di chiarire meglio quanto ho scritto nei troppi precedenti commenti. Mi scuso con Annamaria Testa.

    Se l’immagine in questione riguardasse una notizia di cronaca: “Ragazza mostra il sedere in luogo pubblico. Interviene la Buoncostume (Esiste ancora? La burocrazia a volte stupisce per la precisione della terminologia).” avremmo disparità di commenti, dal “dai, dai, tira più sù” al “copriti, svergognata”. Si tratterebbe di una “scostumatezza”, di una infrazione del costume, del modo di costumarsi, appunto, secondo i valori medi della società o del gruppo di appartenenza. La scostumata, col suo atto, -ma col viso voltato a guardare con ironia gli astanti- apporterebbe una critica al modello corrente.

    Ma l’immagine in questione non è cronaca. È messaggio pubblicitario nel quale la carnalità è annullata dal bianco-nero e il protagonista è la Marca.

    Il “poter fare” non è una eslusività, come si vorrebbe far credere, di Silvian Heach, dato che qualunque abito aperto al fondo consente la stessa azione. Ci va ben altro che uno straccetto, per di più cinese, per fare una bandiera. L’operazione insita nella comunicazione, tesa a trasformare il soggetto in oggetto (non è più la ragazza che “sa fare” e “vuole fare” ma è il marchio che “fa fare”, secondo il quadro semiotico greimasiano), produce di fatto una sovraesposizione che è mera pornografia. E non è tanto in ragione della quantità di epidermide scoperta, la cui valutazione quantitativa dipende da un giudizio soggettivo. L’operazione inversa, del “troppo” coprire, opera sul soggetto allo stesso modo. Se l’abitino in questione fosse un burqua posto a copertura integrale del corpo, avremmo lo stesso risultato di trasformare il soggetto, l’attore, in soggetto subente, in attante passivo. L’immagine derivante sarebbe allo stesso modo pornografica.

    Ciò che ha fatto la marca è appropriarsi di una possibile istanza libertaria compiendo, di fatto, la reificazione del soggetto e uccidendo, in tal modo, l’idea di emancipazione.

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