Foglia di fico

Pubblicità. Purché se ne parli. O anche no – Metodo 17

pubblicità

Questa homepage di NeU, al contrario del solito, non vi propone alcun link perché affronta un paradosso nel quale di sicuro vi siete già imbattuti. E, per affrontarlo sul serio, non deve e non può mandarvi a vedere ciò di cui parla.
Ecco il punto: in questi giorni escono un paio di campagne pubblicitarie (una per una marca di abbigliamento, l’altra per un’automobile) per motivi diversi discutibili. Sono accomunate dal fatto che non vantano direttamente alcuna caratteristica positiva, né tanto meno esclusiva, del prodotto o della marca che dovrebbero essere oggetto della comunicazione.
Straparlano d’altro.
Se le avete viste, bene. E se no, pazienza.
Qui, vi basta sapere che la campagna per l’abbigliamento cerca per l’ennesima volta lo scandalo visivo sfruculiando tra cronaca, politica e religione. Lo fa nascondendosi dietro la foglia di fico di un appello buonista, e del tutto campato per aria. La campagna per l’automobile invita in modo generico e prepotente a ignorare ogni regola. E, lì, non c’è neanche una foglia di fico. C’è, invece, la spaventosa e straziante coincidenza della morte di un bambino e di un anziano recentemente uccisi da automobilisti che, in un modo o nell’altro, non hanno rispettato le regole.

L’obiettivo di entrambe le campagne è chiaro: strillare una cosa – qualsiasi cosa – capace di colpire l’attenzione. Un maligno potrebbe immaginare che si tratti di un espediente dovuto al fatto che la marca o il prodotto in questione hanno poco di consistente da dire, e allora che si fa? Si urla. Ma magari non è neanche così. E, sotto, c’è solo lo stupido presupposto che la pubblicità, quando provoca, è moderna. È tosta. E quindi funziona, si fa vedere e fa vendere.
Notate che provocare è molto, molto più facile che far sorridere, o ridere. Per far sorridere ci vuole acutezza, precisione, sorpresa, eleganza, misura, ritmo. Lo humour è una faccenda delicata da gestire. Una specie di magia.
Per provocare basta dire a caso una cosa cafona, o fuori luogo, o assurda, o tale da urtare la sensibilità del pubblico. Basta calarsi i pantaloni e mostrare le chiappe.
È, bisogna rimarcarlo, qualcosa di piuttosto diverso da quanto intendeva Steve Jobs nel suo celebrato appello alla foolishness.

Non è solo la pubblicità a scegliere la scorciatoia brutale della provocazione. Molte dichiarazioni di politici, sgarbate e a capocchia, cercano lo stesso effetto: visibilità attraverso l’insulto, l’offesa, la pernacchia e il rutto. Con lo scandalo conseguente. E l’ulteriore effetto dell’amplificazione involontaria (tutta visibilità gratuita) del messaggio attraverso il rimbalzare di commenti indignati e di prese di posizione contrarie.
Purché se ne parli, appunto.
Eccolo, il paradosso. Il trappolone: sembra che non ci sia via d’uscita tra subire in silenzio o protestare facendo un ovvio favore a chi proprio sulla protesta attesa ha costruito la propria meschina strategia comunicazionale.
E qui, però, ci soccorre Gregory Bateson: dalle trappole del paradosso si esce definitivamente solo con un salto di livello logico. E di consapevolezza. Prendendo le distanze non solo della singola campagna fuori luogo, della singola dichiarazione offensiva, ma del meccanismo idiota e stucchevole della provocazione non pertinente, gratuita e strumentale. Che non è creatività, nel senso della produzione di un messaggio nuovo e utile. Che non è un bel niente, se non rumore, e rumore, e rumore. Cominciamo a dircelo con energia. E a passare parola.

27 risposte

  1. “Ma magari non è neanche così. E, sotto, c’è solo lo stupido presupposto che la pubblicità, quando provoca, è moderna. È tosta. E quindi funziona, si fa vedere e fa vendere. Notate che provocare è molto, molto più facile che far sorridere, o ridere. Per far sorridere ci vuole acutezza, precisione, sorpresa, eleganza, misura, ritmo. Lo humour è una faccenda delicata da gestire. Una specie di magia. ” Signora Testa, se voglio ridere non mi rivolgo alla pubblicità, né pretendo che sia diversa da quello che è e dal suo scopo. Vede, lei parla retoricamente di paradosso ma non c’è nessun paradosso tra lo stare in silenzio e protestare favorendo l’oggetto della protesta, sa? Vuole sapere quale invece è un paradosso vero? Pensare di maturare la consapevolezza critica delle persone e poi poter proporgli ancora una pubblicità. Hqr

  2. @Hqr: la pubblicità può raggiungere il proprio scopo ANCHE facendo sorridere, o ridere. Non è questo il punto, mi sembra. E in fin dei conti credo che lei affermi la medesima cosa che, nel finale del post, dice A. Testa. Citando “Prendendo le distanze non solo della singola campagna fuori luogo, della singola dichiarazione offensiva, ma del meccanismo idiota e stucchevole della provocazione non pertinente, gratuita e strumentale”. D’altra parte come possono i pubblicitari “far maturare la consapevolezza critica delle persone” se non MOSTRANDO che “il rumore è solo rumore e rumore” e non pubblicità?

  3. @Jac acrive: “D’altra parte come possono i pubblicitari “far maturare la consapevolezza critica delle persone” se non MOSTRANDO che “il rumore è solo rumore e rumore” e non pubblicità? ” Semplicemente non possono. O pensi che la malattia possa essere la terapia?

  4. Cara Annamaria avevo scritto tempo fa una paio di post sul mio blog. Sono pienamente d’accordo con quello che scrivi. Eccolo qua. http://www.carucciechiurazzi.com/sottotracce/prova-post-blog.html La questione è che il purchè se parli è da sempre al negativo. Ci ricordiamo campagne delle quali per lo stesso “efftto rumore” se ne è parlato bene? Sono davvero rare credo. Dovremmo impegnarci, colleghi e committenti, affinchè all’ormai noioso “purche se parli, si sostituisca il “purchè se ne parli bene”

  5. Soltanto rumore, basta che funzioni. Che funzioni poi…è come quando mio figlio, che va alel scuole medie, per provocare mi racconta delle sue parolacce o canzonette volgari che si inventa per cercare di far ridere i compagnetti più “scafati” di lui. Io gli rispondo sempre la stessa cosa: è facile far ridere con una parolaccia o un riferimento sessule esplicito e volgare, ma devi usare intelligenza ed ironia, magari semplicità, e ti seguiranno anche gli pseudobulli. L’ha fatto e ne ha testato l’efficacia. Se ci riesce un ragazzino di 11 anni, ci possono riuscire anche queste grandi superstar della comunicazione pubblicitaria? Perché sfruculiare tutto lo sfruculiabile( considerandoci meno di pseudobulli undicenni), esaurire le scorte di idee e di immaginazione, scivolando in un vero e proprio facile cattivo gusto( e mi riferisco soprattutto alla pubblicità del Suiv)…meno male che, pare, Pisapia abbia ritirato i manifesti…ma ci voleva quella disgrazia? Sono perfettamente d’accordo sul prendere le distanze e sul passaparola. E grazie infinite per quello “sfruculiare” che non sentivo da tempo, soprattutto nel linguaggio scritto!

  6. Bene, caro Ugo- Homme qui rit. Il suo commento è proprio ciò di cui c’è bisogno, in questo tetro lunedì di novembre, per cominciare bene la settimana. Un’obiezione che non entra nel merito, espressa in modo tanto superficiale quanto supponente. E con una venatura di disprezzo che non guasta mai, no? Sa, caro Ugo? Anche quello che lei scrive è una provocazione gratuita. Ma, poiché non la mette su un manifesto, ne posso perfino parlare. Rida di quel che vuole. Continui a pensare che la pubblicità è quel che è (e tutti sono in grado di capire gli impliciti dell’affermazione). E che dunque sia necessariamente tutta uguale. E che sulla pubblicità, come su qualsiasi altro fenomeno, non si possa applicare un pensiero critico. E che su questa faccenda del provocare aggratis non si possa intervenire. Resto persuasa del contrario. E continui a non capire la natura del paradosso reale di cui sto cercando di discutere: il fatto che parlare di un messaggio negativo, e parlarne anche per condannarlo, significa, nei fatti, dargli più forza. E che l’unico modo per uscire dal paradosso è cambiare prospettiva, e discorrere sul discorso. Sono certa che lei abbia un mare di cose più necessarie e urgenti e divertenti da fare che continuare a partecipare a questa conversazione. E mi auguro che lei ci si dedichi. Ma, poiché anche lei è quel che è, può anche darsi che decida di insistere. In questo caso, caro Ugo – Homme qui rit, mi toccherà sopportarla. Con il sorriso sulle labbra. Ma dubito che avrò ancora voglia di risponderle. Anch’io, dopo tutto, ho qualcosa di meglio da fare.

  7. Per un problema tecnico è saltato uno dei due commenti di Luca. Li ripubblichiamo entrambi, senza nessuna modifica, uno di seguito all’altro. La redazione 1) Sono d’accordo anche io che edificare le persone non può essere un obiettivo, ma non credo che qualcuno qui ce l’avesse. E comunque non è un buon motivo per lasciar passare sotto silenzio la trivialità di certe campagne. Non perchè volgari ma perchè squalliducce, banalotte, troppo facili. D’altra parte è anche vero che se ce la prendessimo con tutti quelli che non vogliono fare lo sforzo – o semplicemente non sono capaci – di essere bravi e brillanti, screditeremmo la maggior parte del genere umano. E non può essere. Concludo però stigmatizzando il rilancio della pur comprensibile lamentela del signore padre della piccola vittima di via Solari, a cui esprimo sinceramente vicinanza e cordoglio. Non credo sia stata una buona idea. Ha criminalizzato chi ha fatto la campagna facendolo apparire antisociale, quando è stato semplicemente trasandato. E’ stata una sfortunata coincidenza a far interpretare quel messaggio in quel modo. E l’ha fatto, come sempre più spesso la comunicazione politica, per rimestare nel ventre molle della società. D’altronde l’amministrazione se è prontamente intestata la cosa via twitter. 2) Faccio questa precisazione perchè voglio chiarire che non volevo riferirmi a questo post: Concludo però stigmatizzando il rilancio DELLA STAMPA DEGLI SCORSI GIORNI della pur comprensibile lamentela del signore padre della piccola vittima di via Solari, a cui esprimo sinceramente vicinanza e cordoglio.

  8. Per chi non l’avesse capito, una delle due campagne di cui stiamo parlando è la cosiddetta campagna “Unhate”, trionfo della cultura Photoshop. Già l’uso del termine “unhate” fa tanto Nando Mericoni, americano “del Kansas City”, ma tant’è. Poi l’impressione è che chi ha ideato la campagna appartenga alla categoria delle “quote giovani”, perché evidentemente non ha mai visto le stesse immagini – baci tra maschi attempati, in bianco e nero – trasmesse dall’agenzia di stampa sovietica Tass, quando il compagno segretario generale del Pcus (da Kruscev a Breznev) baciava sulla bocca il malcapitato compagno in visita a Mosca da una delle repubbliche dell’impero sovietico. Di solito l’atto di “unhate” avveniva sulla pista dell’aeroporto Sheremetyevo, ai piedi di una scaletta di un Ilyushin di Stato. Patetico poi il comunicato stampa che accompagna la campagna, in cui si dice che si vuole dare: «visibilità mondiale a un’idea alta di tolleranza», facendo altresì psicologia da rotocalco invitando a riflettere «su come l’odio nasca soprattutto dalla paura dell’altro e di ciò che non si conosce». Wow. «Aridateci Carosello».

  9. Ma come? E io che pensavo per una volta che provocare in un post che parla proprio di come evitare di cadere nella provocazione potesse essere non solo pertinente ma anche istruttivo. E lei è caduta nella provocazione 🙂 Ma chiaramente l’ha fatto apposta, perché è troppo ironica per non averlo notato. Buona settimana 🙂 hqr

  10. @ Puzzle. Ricordo anch’io gli spaventosi baci sovietici. Un bel riferimento per una campagna buonista, non c’è che dire. Brrrr. Se volete sperimentare il brivido, trovate un’antologia con Google images, semplicemente cercando “bacio Breznev”. Un ulteriore paradosso sul quale vorrei attirare la vostra attenzione è questo: qualsiasi sciocchezza, se detta con sufficiente convinzione e sufficientemente rilanciata (pensate, lo ripeto, a certi commenti politici) sembra diventare comunque degna di attenzione: insomma, se tutti ne parlano può voler dire che c’è qualcosa di cui val la pena di parlare. Consentendo, dissentendo, chiosando. E invece no. La cosa più igienica sarebbe fare spallucce. Mi sto interrogando sul modo migliore di tradurre il gesto per iscritto.

  11. @Annamaria Che ne dice di usare la sempreverde locuzione “un bel silenzio non fu mai scritto”? Hqr

  12. Penso la migliore traduzione sarebbe quella dataci da Dante, « Fama di loro il mondo esser non lassa;misericordia e giustizia li sdegna:non ragioniam di lor, ma guarda e passa. ». Très Chic. Dopotutto è più che chiaro che quando una persona si accanisce senza sentir ragione è perchè infondo è persa nelle sue convinzioni, tanto da risultare ceca anche alle cose più ovvie. O magari ha altri scopi,di natura personale. Ma non siamo qua per questo, ma se la necessità fà virtù consiglierei @Hqr di sottoporre la questione alla De Filippi o programmi affini.

  13. Vi segnalo un interessante post di Nicola Di Francesco che sottolinea in maniera lucida un problema chiave dell’iniziativa unhate. Da una parte c’è la solita provocazione “benettoniana” un po’ anni ’80, ma dall’altro, e forse più grave “comunicativamente parlando”, c’è una profonda discrepanza fra il tono altamente provocatorio della comunicazione e lo stile della linea di abbigliamento di Benetton “non propriamente disruptive”. http://www.headforbrand.com/2011/11/i-baci-senza-sentimento-di-benetton/ Chissà, poi forse il target tradizionalista di Benetton viene colpito da un tipo di provocazione gratuita e un po’ retrò. Ma se così non fosse mi chiedo: perchè Benetton, che si occupa di abbigliamento, non prova a provocare con l’abbigliamento?

  14. @Annamaria suggerisco che forse tutto questo rumore potrebbe anche passare sotto silenzio. Sarebbe Utile e Nuovo considerare ed incentivare, anche solo con il riservare la nostra attenzione critica, le forme comunicative che più ci convincono, tralasciando, anche nei commenti, quelle che, si spera, sono in fase di definitivo “passo in dietro”?

  15. Grazie a Brando per la segnalazione. E’ un post interessante: ve lo linko direttamente, così ci andate in un clic. @ Maurizio: buon punto. Quel che sto cercando di fare, però, a partire da queste due campagne, è segnalare come la provocazione fine a se stessa, e priva di legame con la marca (ma anche con il discorso politico) che vuole promuovere, non sia un gesto creativo e non produca nuovo senso condiviso né valore, ma solo baccano. Dico questo perché credo sia proprio necessario dirlo, e ben chiaro. Se non si diffonde una cornice interpretativa diversa, la tentazione di cercare scorciatoie rumorose continuerà a manifestarsi nell’ennesima campagna a capocchia, nell’ennesima dichiarazione il cui unico obiettivo è scandalizzare a prescindere. E, insomma, magari se ne può fare a meno.

  16. Intanto si è sviluppata una discussione parallela su questo post anche in Facebook. E un collega che stimo molto, Hans Suter, scrive: “campagna ineccepibile, in sintonia col profilo di marca. Campagne di questo tipo sono rischiose perché parte inerente del profile di marca: se va storta la campagna la marca ne risente in modo sproporzionato. Il resto sono preferenze personali.” Carlo Simonetti si chiede “fino a che punto spingersi per raggiungere visibilità/memorizzazione/etc.?” Qualche linea d’orientamento e di confine già si trova, secondo me, nel Manifesto Deontologico varato da adci. Alla luce del quale sarebbe interessante rileggere questi, e altri messaggi. Ma, nello specifico. Diciamo che voglio farmi pubblicità. E decido di photoshoppare, senza neanche domandarglielo, il signor Benetton che bacia sulla bocca il signor Giorgio Armani o la signora Miuccia Prada. Il claim è United Ads of Annamaria Testa. E’ perfettamente in linea con la mia immagine di marca: sono bravina a lavorare sia su prodotti di nicchia e d’élite, sia sul mass market. I signori photoshoppati sono contenti e non dicono niente? E questo è un primo quesito. E poi: non mi si dica che, se uno ha un’immagine pubblica, deve rassegnarsi a vederla usata, deformata, travisata da chiunque ritenga che questo può essere utile alla sua marca. Avete presenti le possibili derive? La Merkel per una crema anticellulite? Un’autorità religiosa islamica per un nuovo panino alla salsiccia di McDonald? (perfino lui non saprebbe resistere?). Ahah, lo troviamo divertente? E’ cooosì trasgressivo? Ci piace? Crozza mostra un Napolitano in camicia da notte e babbucce. E’ un programma di satira, e la satira, grazie alla ruvida delicatezza di Crozza, riesce ad essere rispettosa e affettuosa. Ma mettiamo un Napolitano in babbucce dentro la campagna di un’azienda farmaceutica che offre prodotti per la terza età? Ci piace? Il secondo quesito è connesso col primo: perché mai per promuovere gonnelle e maglioni bisogna tirare in ballo ‘sta roba, e farlo oltretutto con la grazia di un rinoceronte in un negozio di cristalli? Certo, il rinoceronte ha un’etichetta col brand attaccata alla coda. E allora?

  17. Io trovo ci sia un’aggravante squisitamente italiana. La campagna Unhate da noi esce meno di una settimana dopo la dipartita di Berlusconi dal governo. Un Presidente che per anni ha fatto della delegittimazione delle istituzioni e delle loro regole una delle sue retoriche più potenti: dai giudici “bugiarde metastasi della democrazia”, alla Costituzione, una “legge vecchia che va cambiata”. Possiamo anche pensare che un bacio tra Merkel e Sarkosy sia un gioco innocuo, e che i personaggi pubblici debbano rinunciare a parte della propria riservatezza proprio per le cariche che ricoprono. Ma il contesto, quello italiano nello specifico, contribuisce ad amplificare e cristallizzare una visione della classe politica un po’ “tarallucci e vino” e “vulemmose bbene”. Che tratta i rappresentanti delle istituzioni a pacche sulle spalle, arrivando a fare commenti da osteria sul fondoschiena dell’una o sul colore della pella dell’altro. A me, sinceramente, questo andazzo un po’ preoccupa. Un caro saluto a tutti, Ilaria

  18. Concordo con le critiche sul contenuto della campagna Benetton e, sopratutto, con l’ormai vecchio gioco delle scomuniche pubblicitarie. Voglio però spezzare una lancia in testa a tutti i grandi brand che continuano a spendere centinaia di migliaia di euro in mezzi tradizionali quando, con cinque in manifesti in cinque location ben studiate, si può fare il giro del mondo in un’ora. D’accordo, se al posto di questo buonismo photoshoppato ci fosse stato un messaggio veramente “nuovo e utile”, oggi sarei molto più felice. Ma lo sarei ancor di più se i grandi marchi, invece di gettare le proprie somme nel “canale” (spazi pubblicitari in media tradizionali diventati ormai dei veri e propri stagni), investissero di più nei cervelli che originano il contenuto creativo e cercano strategie innovative per farlo vivere e crescere.

  19. Annamaria, io riprendo il commento che ho fatto su Facebook. Sono in profondo disaccordo con quello che scrive Hans Suter. Credo che gran parte della deriva che la comunicazione ha subito in tutti questi anni sia dovuta al fatto che, progressivamente, il rendere un brand “emotivamente coinvolgente” e’ stato interpretato come un “libera tutti”. Che la campagna Unhate sia coerente con cio’ che Benetton ha fatto in comunicazione fino ad oggi e’ vero. Che sia coerente con cio’ che la marca e’ nei punti vendita e anche nei prodotti non lo e’ affatto. Benetton e’ una marca per nulla trasgressiva, se non nella comunicazione (che lo sia o no davvero poi e’ un’altra discussione). La comunicazione non puo’ guardarsi l’ombelico e creare un universo magari bello, magari trasgressivo, ma totalmente disgiunto, che non riflette nessun altro aspetto della marca. Se cosi’ succede vuol dire che c’e’ qualcosa che non funziona. Quando Apple ha fatto Mac vs. PC ha reso creativi e provocatori e semplici contenuti tecnici, quasi da nerd. In questo modo ha tradotto in comunicazione (e quindi in comportamento) quello che e’ il brand belief della compagnia (technology must be simple and empower imagination): un brand belief che guida prima di tutto la creazione dei prodotti e poi tutto quanto fino alla comunicazione. Tutto strettamente connesso. Connessione che manca completamente nel caso Benetton. Luca Vergano

  20. si può, siamo liberi come l’aria si può, siamo noi che facciam la storia Si può, io mi vesto come mi pare si può, sono libero di creare si può, son padrone del mio destino si può, posso mettermi un orecchino. Si può, fare critiche dall’esterno si può, sputtanare tutto il governo si può, non far uso dei congiuntivi si può, siamo liberi e trasgressivi. Basta uno spunto qualunque e la nostra fantasia non ha confini basta un pennello, un colore e noi siamo pronti a perpetuare la creatività dei popoli latini. Si può, fare i giovani a sessant’anni si può, regalare i blue-jeans ai nonni si può, in ignobili trasmissioni si può, schiaffeggiarsi come coglioni. Si può, far politica coi fumetti si può, divertirsi con Andreotti si può, con la satira che straripa si può, fare il verso persino al papa. Con quella vena di razza italiana che è vivace e battagliera è naturale che poi siamo noi che possiam cambiar tutto a patto che si lasci tutto come era. Si può, siamo liberi come l’aria, si può si può, siamo noi che facciam la storia, si può libertà, libertà, libertà, libertà obbligatoria. Sono assai cambiato, sono così spregiudicato sono infedele, sono matto, posso far tutto. Viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale utopia, utopia, utopia-pia-pia. Si può, ignorare gli intellettuali si può, fare il tifo per gli animali si può, far la guerra per scopi giusti si può, siamo autentici pacifisti. Per ogni assillo, rovello sociale, sembra che la gente goda tutti che dicono la loro, facciamo un bel coro di opinioni fino a quando il fatto non è più di moda. Si può, rovesciare la notte e il giorno si può, eccitarsi con un film porno si può, patteggiare sulla galera si può, ricantare “Faccetta nera”. Si può, trasgredire qualsiasi mito si può, invaghirsi di un travestito si può, consultarsi con una strega si può, farsi ognuno una bella lega. In questa tua libertà illimitata di espressione e di parola l’unica rivoluzione che noi abbiamo fatto ha un difetto: è la rivoluzione della Coca-Cola. [parlato] Ma come? Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare? G. Gaber Forse non c’entra ma secondo me, in fondo, sì

  21. L’idea per la campagna abbigliamento è buona. L’associazione di questa idea agli abiti mi sembra davvero pretestuosa. Mi meraviglia il fatto che i media facciano pubblicità alla pubblicità. Immagini di questa campagna si sono viste ovunque, sul web e altrove. La campagna per l’automobile è davvero sgarrata. Saluti.

  22. Potere alle parole Brava Annamaria, complimenti alla tua bella testa funzionante che in punta di matita ha definitivamente chiuso con grazie ed eleganza un rumore di fondo che provocava, almeno al sottoscritto, solamente un’irragionevole irritazione fine a se stessa. abbracci walter

  23. Sempre in ritardo e anche fuori tema, ma forse non troppo. Ma della pubblicità del kinder bueno ne possiamo parlare? C’è una signorina in bottega che chiede ESPRESSAMENTE cosa vuole e la bottegaia fa finta di non capire proponendo alternative meno dietetiche. POI entra il bonazzo e, col consenso ammiccante della bottegaia, si pappa l’ultimo kinder bueno che aveva chiesto già la signorina all’inizio. Vabbè, poi fanno a metà… Ma il messaggio qual’è? Che per ottenere quello che si vuole bisogna essere tra gli amici degli amici? Forse sono troppo esagerato, ma a me questo spot sembra proprio “polically scorrect”. Ma la tenerezza dello spot Kinder cereali ve la ricordate? http://www.youtube.com/watch?v=TICNTUp6Tpg E.

  24. Ci si affida alla volgarità quando non c’è consistenza in un discorso ed è certo che ha effetto solo su chi è superficiale e si lascia impressionare, magari per immaturità, dallo stimolo banale ma eclatante. Ringraziando Dio, oggi le informazioni e la cultura veicolano freneticamente e anche certi messaggi fuorvianti sono soppiantati (o possono esserlo) da altri, magari più formativi ed interessanti.

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