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Bel guaio, giudicare la qualità creativa – Metodo 23

giudicare la qualità

Prima notizia recente: quest’anno la giuria del Pulitzer per la narrativa  non assegna nessun premio. Dopo 35 anni la commissione, in disaccordo con la qualità dei titoli dei candidati, torna a ripetere la formula No award, niente da premiare, già usata in un passato più lontano. “Succedesse così anche da noi…” commenta il critico Ermanno Paccagnini. Il web, invece, fa un figurone. Ma questo è un altro discorso.

Seconda notizia recente: la milanese, amatissima Torre Velasca, simbolo degli anni della ricostruzione e del boom, finisce in pessima compagnia in una gallery intitolata Are these the ugliest buildings in the world? E parte una polemica fra addetti al lavori.

Sta di fatto che giudicare la qualità di un prodotto creativo è oggettivamente difficile.
Per dire: la prima rappresentazione de La Traviata di Verdi è un fiasco colossale. Le déjeuner sur l’herbe, il capolavoro di Manet, crea scandalo e viene escluso dal Salon del 1863. È noto che ai tempi di Mozart e Salieri c’è una certa indecisione su chi sia più bravo (però, visto che ora lo sapete, regalatevi quattro minuti di pausa e delizia con questo video).
E vogliamo parlare dei Nobel mancati? Nel 2010 Scientific American pubblica una lista riguardante la scienza. Il Post si cimenta coi Nobel mancati per la pace. E La Stampa ricorda che tra i Nobel mancati per la letteratura ci sono Emile Zola, Lev Tolstoj, Henrik Ibsen, Virginia Woolf, James Joyce, Jorge Luis Borges, Graham Greene, Anton Cechov, Henry James, Joseph Conrad, Bertolt Brecht, Marguerite Yourcenar, Vladimir Nabokov…

Per decidere se un lavoro scientifico ha qualità si usa lo strumento della peer review, la revisione dei pari: colleghi di riconosciuta esperienza verificano la fondatezza, la riproducibilità degli esperimenti, l’assenza di plagio…. ma perfino in questi casi c’è una componente soggettiva e spesso vengono sopravvalutati autori noti, o appartenenti a scuole di pensiero che già godono di consenso.
Ma pensate a tutte le altre opere dell’ingegno creativo  che, per la loro natura, non possono essere oggetto di una valutazione così puntuale: un romanzo, un quadro, un edificio, un film, una poesia, una foto, una ricetta… in casi come questi il giudizio dei pari, e della critica, è più ondivago e influenzabile dalle mode e dallo spirito del tempo, dalle attese e dai pregiudizi, dal fatto che l’opera sia più o meno in sintonia con le regole accettate in quel momento dalla comunità, e con modelli di stile interiorizzati.
E sì, l’opera dev’essere “nuova”, ma non così nuova da risultare indecifrabile alla luce dei parametri condivisi. Nei momenti di crisi i parametri, invecchiati, diventano più flebili e, in attesa che le regole vengano rifondate, il giudizio si fa più incerto: di questo fenomeno parla ampiamente Colin Martindale.

D’altra parte è necessario che una comunità creativa, qualsiasi sia il tipo di creatività che le appartiene, si prenda la responsabilità di esprimere pareri e orientamenti sullo stato dell’arte nel suo campo. Riconoscere i migliori aiuta tutti a crescere. Discutere di ciò che è meglio aiuta a essere consapevoli.
Inoltre, per chiunque fa un lavoro creativo l’essere riconosciuto dalla comunità di riferimento ha un’importanza enorme. Ce l’ha perché tutti i lavori creativi richiedono un pesante investimento personale di emozione, dedizione, passione. E perché il senso di sé passa per il riconoscimento del senso e del valore di ciò che si fa, prima ancora che per un compenso economico. Su questo hanno scritto in molti, a cominciare da Teresa Amabile della Harvard University.
Dunque bisogna provare a riconoscere i migliori anche se, e perfino con le intenzioni più oneste, il processo ha esiti incerti e qualsiasi giuria può sbagliare o addirittura trovarsi nell’imbarazzante condizione di dire “no award”. Tanto poi a mettere a posto le cose ci pensano il passare del tempo e il favore del pubblico che, per esempio, si è dimenticato di  Henrik Pontoppidan o di Sigrid Unset, ma continua a leggere Borges e Tolstoj. E a ricordare Gandhi con gratitudine.

6 risposte

  1. meglio un no award che tutti premiati, senza merito e capacità. in certi ambienti non serve la peer review. basterebbe il giudizio dell’uomo della strada.

  2. Perchè poi, oltre ai Nobel non dati, ci sono anche quelli dati “per sbaglio”, come quello per la pace assegnato a Obama, ad esempio… Che però ha dimostrato (se ce ne fosse mai stato bisogno) che il “riconoscimento” di certuni è frequentissimamente una semplice forma di pubblicità. C’era Borges che ai giornalisti che ogni anno lo intervistavano sul fatto che il Nobel fosse stato assegnato ad altri, una volta disse (più o meno): “No, io sono contento che non l’abbiano dato a me. In fin dei conti X Y (non ricordo chi Borges citasse) era un perfetto sconosciuto e il Nobel è servito a farlo conoscere”. Grande: in una frase, disse tutto!! :-)))

  3. Proprio oggi si discuteva di valutazioni qualitative e quantitative in azienda, e di come spesso in ambito lavorativo si cerchi di ricondurre le prime alle seconde. Quantificare tutto, infatti, è l’ossessione dell’homo oeconomicus. Tutto ciò che è quantificabile sembra sfuggire al dubbio dell’opinabilità e consente un confronto fra elementi altrimenti difficili da comparare. Pare infatti che una volta stabiliti i parametri e gli attributi da misurare ci si sia riusciti a sottrarre alla soggettività per affidarsi alla legge infallibile del numero. Anche se così facendo ci si dimentica in realtà, che la cifra descrive certi aspetti e non altri, così come ci si scorda che la scelta di quali aspetti misurare sia qualcosa di fortemente opinabile e soggettivo. Così si torna al punto di partenza, in un circolo che non riesce a prescindere dalla valutazione qualitativa. Dunque l’unica rassicurazione per il quantificomane aziendale resta quella di non avere l’onere di dover valutare la qualità della comunicazione (impresa per la quale avrebbe a disposizione solo strumenti limitati), quanto piuttosto solo e semplicemente la sua efficacia. Si, ma in Quali termini? Punto. E a capo.

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