semplicità

Perché la semplicità è così complicata? – Idee 119

“Il mondo degli affari deve combattere una persistente battaglia contro la burocrazia”, scrive l’Economist. E aggiunge che “la cianfrusaglia più debilitante è la complessità organizzativa”.
Ma, almeno, e come dice Tullio De Mauro in Capire le parole, fin dai tempi di John Locke la cultura anglosassone, inglese e americana, si è impegnata in una battaglia per la limpidezza e la chiarezza dei testi come valore supremo dell’arte dello scrivere e del parlare.

Se dalle pagine dell’Economist si leva un severo brontolio d’insofferenza per la complessità inutile dei processi aziendali, qui da noi le proteste contro ciò che è complicato sono ormai diffuse sui tutti i mezzi di comunicazione, rete compresa. Sono assai più veementi e riguardano sia i modi di fare, sia i modi di dire.
Cresce l’irritazione per le procedure inutili, insensate e spesso opache che continuano a vessare i cittadini e ad azzoppare la pubblica amministrazione (e, di conseguenza, a danneggiare anche quelle imprese che, con le procedure inutili, non si azzoppano da sole).

Ma cresce anche il fastidio nei confronti dell’insopprimibile mania nazionale di parlare astratto e complicato: burocratese, pedagoghese, medichese, giuridichese, sindacalese… a cui si associa il più recente itanglese: un vezzo linguistico che si estende a più settori (marketing, politica, tecnologia, moda e altri), e che permette di velare di echi esotici e arcani qualsiasi gesto, concetto o oggetto, compresi i più quotidiani. E se poi la traduzione è imprecisa, pazienza.
Il filosofo Massimo Baldini, in Elogio dell’oscurità e della chiarezza (qui ampi estratti del testo) tira in ballo perfino il difficilese. Cioè la scelta di parlare oscuro “per puro terrorismo linguistico”. Un comportamento da vere carogne, in un paese che (è ancora Tullio De Mauro a dirlo) ha alte, anche se per fortuna decrescenti, percentuali  di analfabetismo  primario, di ritorno e funzionale.
Aggiungo solo che il parlare e lo scrivere difficile non risparmia neppure il parlamento italiano (Ichino: il parlamento vota leggi che i suoi membri non capiscono).
Ma perché la semplicità sembra così difficile da ottenere?

ESSERE SEMPLICI È FATICOSO. Per riuscire a parlare e a scrivere semplice bisogna conoscere bene l’argomento. Bisogna saper usare bene la lingua italiana, sfruttandone tutte le risorse. C’è da investire tempo, attenzione, una dose di talento. Bisogna anche avere un’idea chiara di quello che si sta dicendo, del perché e del per chi: una faticaccia che molti scelgono di risparmiarsi.
Per mettere a punto procedure semplici bisogna aver chiari vincoli, necessità e obiettivi e maturare una visione d’insieme che metta a confronto costi (tempo compreso) e valore dei risultati.
Bisogna sperimentare ed essere disposti a fare aggiustamenti. Bisogna mettersi nei panni di chi dovrebbe poi seguirle, quelle procedure. Bisogna avere l’umiltà necessaria per andare a scovare esempi virtuosi dovunque siano, per studiarli, adattarli e poi metterli in pratica. Altra faticaccia.

ESSERE SEMPLICI È PERICOLOSO. Se un testo è semplice e tutti lo capiscono, diventa possibile per chiunque fare obiezioni. E poi: denunciare una semplice sciocchezza è più facile che intercettare un’oscura sciocchezza. E ancora: molte parole complicate tendono una bella rete mimetica sull’assenza di pensiero o di progetto.
Essere oscuri, dunque, è un fantastico modo per disincentivare critiche, per sottrarsi a ogni giudizio, per nascondere la propria incompetenza o per sancire e amplificare la propria competenza, per preservare la propria autorità inducendo in chi non riesce a capire sentimenti di frustrazione, di soggezione e di  inadeguatezza.
Risultati analoghi si ottengono, se parliamo di procedure, moltiplicando all’infinito gli adempimenti, e con questi gli oneri e le attese necessarie a compilare moduli, a collezionare timbri, ricevute e altre misteriose scartoffie (leggete questo bel post di Luisa Carrada). Con un vantaggio in più: la legittimazione e il presidio dell’esistenza stessa dell’apparato che genera la procedura, e del suo opaco potere.

ESSERE SEMPLICI SIGNIFICA PRENDERSI DELLE RESPONSABILITÀ.  Sto parlando di molte, pesanti responsabilità: quella di scegliere che cosa è importante e che cosa non lo è.  Quella di dar conto delle proprie scelte, motivandole. Quella di investire tempo, energia e intelligenza per tradurre e spiegare ciò che non può essere semplificato, perché non è vero che tutto è potenzialmente semplice. E poi c’è la responsabilità più gravosa di tutte: quella di elaborare pensieri chiari e distinti, ipotesi plausibili, soluzioni efficaci e strategie fondate.
Per quanto riguarda le procedure: progettare percorsi semplici chiede di passare dalla logica dell’adempimento rituale a quella dell’obiettivo reale. La qual cosa implica l’onere di definire obiettivi chiari, distinti, utili e verificabili: un’altra responsabilità che molti faticano ad accollarsi.

Eppure.
Eppure in questi tempi caotici, sovraccarichi di informazioni e scarsi di prospettive, essere semplici (occhio: “semplice” non vuol dire né sempliciotto né facilone) è, credo, un imperativo. Per questo stiamo tutti diventando così insofferenti nei confronti della complessità inutile. Solo affrontando la fatica, il pericolo, la responsabilità e la sfida di essere semplici c’è la speranza di restituire un senso forte e condiviso a quello che si dice e a quello che si fa.

Questo post esce anche su interrnazionale.it. Se vi è piaciuto, potreste leggere:
KISS: la creatività è semplice
Il pensiero tra rigidità e rigore

17 risposte

  1. La risposta è semplice: perché la semplicità costa moltissima fatica, che non viene affatto riconosciuta, anzi viene disprezzata e non pagata! Quindi se nel fare un lavoro, un lavoro qualsiasi, dal riparare un tubo al fare un’opera d’arte, si fa in modo semplice e rapido(che quindi ha comportato molto tempo e molto sforzo precedente!!!), viene ampiamente sottostimato e sottopagato! In un mondo dove il lavoro viene pagato a ore e valutato a peso essere semplici, diretti ed efficaci comporta una netta perdita economica e di prestigio.

    1. …ed è sempre stato così: il premio per Henry Ford, quando lavorava in fabbrica, aprendo e chiudendo due valvole, per aver inventato un meccanismo automatico che faceva quel lavoro noioso, fu l’immediato licenziamento…:)

  2. Ancora una volta viene proposto un problema reale, un tema con cui anch’io, come tanti, devo fare quotidianamente i conti.

    Ogni giorno rivedo, ripenso e riscrivo testi, istruzioni che altri dovranno comprendere e mettere in pratica.

    Ogni giorno devo sintetizzare, attraverso istruzioni precise ed immediate, operazioni più o meno complesse rendendole semplici .

    Ovviamente il risultato deve essere un documento comprensibile a tutti, cioè da utenti con abilità e competenze differenti tra loro (anche di parecchio).

    Taglio, semplifico, faccio scelte mirate, a volte coraggiose a volte obbligate.

    Ottenere un riscontro su quanto prodotto è però sempre un problema e, quei pochi feedback http://wp.me/pYL2M-cu che ritornano, sono spesso in contrasto tra loro.

    Utilizzo schemi e termini semplici ma, a volte, anche quelli risultano “non idonei”, può capitare infatti che quelle semplici parole risultino incomprensibili da utenti che non padroneggiano al meglio la lingua italiana, nemmeno quella standard http://wp.me/pYL2M-cH … e allora unisco ai testi anche le immagini.

    Mi ADDIFFICILITO spesso la vita alla ricerca dei termini più corretti da utilizzare, è un lavoro faticoso ma affascinante ed ogni volta scopro che avrei potuto fare meglio.

    NB: ADDIFFICILITO è il termine utilizzato da mio figlio proprio ieri sera come sinonimo del termine COMPLICO.

    Riporto il link ad un “esperimento” di visual design con cui ho tentato di spiegare come utilizzare e completare le mie STORIETESTACODA anche a chi non sa leggere o non conosce la lingua inglese/italiana: http://www.storietestacoda.it/wp-content/uploads/2012/03/MAXI3.pdf

    Concludo scusandomi, riprendendo una nota frase attribuita a vari personaggi: «Se avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve».

  3. sono stato per anni il responsabile di una multinazionale in Italia e ricordo ancora con fastidio la montagna di carta e di procedure per ottenere la certificazione della qualità, così come il labirinto da percorrere per inserire le procedure sulla sicurezza in azienda.
    Una volta appuntate sul petto aziendale le due coccarde, tutto finiva nella pura ripetizione cartacea di insignificanti operazioni di controllo che quasi mai avevano a che fare con la realtà dell’azienda.
    Ma le multinazionali stesse ci mettevano del proprio con le assillanti procedure di auditing e il ringhio del dipartimento di controlling. Mah!

  4. Concordo –e come potrei non concordare?– sulle risposte date all’interrogativo.
    Eppure.
    Eppure in questi tempi infausti, la riduzione della complessità a slogan, a parole d’ordine, a sintesi stralunate per cui un “non rompere le scatole, hai fatto il tuo tempo, ora ci sono io” si semplifica cinguettando in un “stai sereno”, o il tema del lavoro viene ridotto a un articolo di una vecchia legge e in due termini inglesi sbagliati (job e act).
    La semplificazione addotta per mascherare la complessità è l’altra faccia del tema. Giornali e tv, dibattiti e propagande più o meno mascherate da informazione semplificano e banalizzano costantemente, senza mai arrivare al nocciolo della questione e a scomporre la complessità. Morin o Bateson avrebbero dovuto insegnarci qualcosa.
    La banalizzazione e la semplificazione generano mostri e allontanano dalla verità. Se la complicazione inutile e incapace ammanta coi fumogeni la realtà, lo stesso fa il riduzionismo della propaganda. Con la conseguenza di tenere lontani dal dibattito, in una posizione d’attesa inconcludente, anche chi ha la capacità della semplicità responsabile.
    In questi giorni ci stanno passando sulla testa semplificazioni becere.
    C’è chi si dice giovane e moderno ma, parafrasando Bruno Latour, moderno non lo è mai stato, essendo un borghese conservatore piccolo piccolo che rientra a pieno titolo nella nota definizione dei capi scout (un gruppo di bambini ecc.). Dato che proprio essere “vestito” da bambino (Twitter e altri social, il piscio del futuro…) costituisce quella banalizzazione per menti semplici e circonvenzionabili.
    Lo stesso vale per le guerre in atto, dove la semplificazione è pura menzogna. Ma mi accorgo di essere in larga misura fuori tema, oppure sto pretendendo dalla gentilissima ospite e dagli amici di tastiera una presa di posizione più netta e che in qualche misura trovo attendista.

  5. Da un lato :

    Banalizzare concetti importanti è ormai diventata un’arte consolidata e, molto spesso, si banalizza per farci “bere” falsi ideali e slogan ingannevoli.

    Il termine “semplificazione”, ad esempio, viene utilizzato da tempo in dosi massicce quando si parla della riforma del sistema scolastico, della pubblica amministrazione, del lavoro, ecc …

    Sarò banale: sono anni che assistiamo a continue e ripetute semplificazioni ma, in realtà, sono anni che assistiamo a ben altro.

    Dall’altro lato :
    Troppo spesso molti associano al termine semplificare il termina banalizzare.

    Sarò banale: un termine semplice è molto più comprensibile e “digeribile” di un gergo tecnico, a meno che quel documento sia rivolto a tecnici specializzati o ad esperti del settore.

    Al contrario di quanto molti pensino, rendere più semplice NON significa rendere banale !!

    Calvino, nelle sue lezioni Americane, lo dimostra ampiamente.

    Per quanto riguarda le certificazioni citate da Marco Weiss:

    Dichiarazioni, moduli, procedure, vere e proprie montagne di carta che invadono da sempre scaffali e scrivanie per essere poi gettati al macero solo qualche tempo dopo.

    Qualcosa sta lentamente cambiando, le norme UNI ad esempio possono essere acquistate anche in formato elettronico .

    Al contrario, diverse Direttive prevedono ancora Fascicoli Tecnici o manuali istruzione cartacei da depositare presso enti certificatori o presso il cliente. Ma anche qui si spera di risolvere a breve in modo chiaro e … semplice.

    Molte Direttive sono state accorpate, molte sono state riscritte, altre specificano termini ben precisi da utilizzare e procedure da seguire, ma ancora non basta.

    Chi come il sottoscritto ha a che fare d anni con Direttive prodotto (Macchine, Atex, altro) o simili è al corrente di quanto lavoro sia stato fatto ma di quanto lavoro ci sia ancora da fare.

    Domanda: siamo sicuri che aumentando il
    numero di Direttive, Norme , Regolamenti da seguire tutto risulti più semplice … ?

  6. Vorrei aggiungere che a volte la complicazione nasconde una certa vanità. Si mette in mostra la propria capacità oratoria, si fa sfoggio di termini che pochi usano o conoscono, si cerca di rendersi necessari per una successiva comprensione di ciò che si è scritto o detto (se un messaggio è chiaro vive di vita propria nelle teste dei riceventi).
    Si cerca di ritagliarsi un proprio livello, come nell’800 i signori vestivano abiti che erano inadeguati a fare qualsiasi attività, vestiti non pratici ma che distinguevano.

  7. Aggiungerei due cose: la semplicità presuppone fiducia. Se non mi fido di te non voglio farti sapere cosa penso, cosa sto facendo e cosa voglio fare. E avere tante regole assurde e opache non serve a far funzionare meglio un meccanismo o una relazione, ma a poter accampare scuse, sollevare obiezioni, impedire agli altri di agire. Secondo: la semplicità è etica. Perché esplicitare le proprie intenzioni è più onesto che dissimularle, creare un contesto di regole chiare porta a relazioni oneste. Complicare serve a imbrogliare le carte, a rovesciare responsabilità, ad accampare scuse e lanciare accuse su basi capziose, opportunistiche. La semplicità è strategia, è sapere dove si vuole andare e farlo sapere agli altri. La complicazione è tattica, trappole, sgambetti, cortine fumogene che non portano di un centimetro più vicini alla meta ma ostacolano anche gli avversari. Chiunque essi siano.

  8. @ Giovanni:

    Text Analisys è il titolo di un esame che ho sostenuto recentmente.

    Lo studio di questa materia mi ha permesso di comprendere come, molto spesso, quei testi che spesso ci ritroviamo tra le mani e quella complicazione è sì tattica e voluta, ma non per erigere ostacoli, bensì per tutelare coloro che hanno scritto quei testi.

    Solitamente il tutto inizia con tono amichevole (es. gentile cliente … oppure ti ringraziamo …) ma poi si prosegue variando toni e atteggiamenti (es. l’utente dovrà … colui che …).

    Si utilizza in pratica quello che viene chiama LEGALESE, che tutela colui che scrive a scapito di coloi che legge e magari ha già firmato un contratto.

    Un esempio?
    Rileggete i vostri contratti telefonici, sottoscritti e firmati spesso in buona fede o qualche altro contratto e ve ne rendere immediatamente conto.

  9. Vero, articolo interessante e da condividere. Unica cosa si tratta di una critica un pò troppo generalista… parliamo di semplicità di scrittura o burocrazia? entrambe legittime ma assai differenti. Nella scrittura (ad esempio, nelle email) si notano entrambi i comportamenti: quello formale-burocratico (che spesso come dice l’articolo nasconde insicurezza e incompetenze) e quello fin troppo informale, che talvolta ti fa chiedere con chi hai a che fare. Io sono sempre nell’idea che la soluzione giusta sia nel mezzo. Per quanto riguarda la burocrazia.. pratico-amministrativa-legislativa… su quella in Italia c’è effettivamente da fare de effettuare cambiamenti drastici

  10. Aggiungo: “Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite: proprio per questo, diceva un filosofo, gli dei ci hanno dato una lingua e due orecchie. Chi non si fa capire vìola la libertà di parola dei suoi ascoltatori. È un maleducato, se parla in privato e da privato. È qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo. Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire” (Tullio De Mauro).

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