In Mente e natura, Gregoy Bateson ci ricorda che dobbiamo distinguere tra i nomi e le cose nominate: quando pensiamo alle noci di cocco o ai porci, nel cervello non ci sono né noci di cocco né porci. Parla di rapporti tra nomi e cose nominate anche un’accurata pagina di Wikipedia: chi di sente di umore meditativo potrebbe darle un’occhiata.
Tuttavia, e anche se le cose esistono a prescindere dai nomi, ci accorgiamo più facilmente delle cose quando disponiamo di un nome specifico per definirle. Così, la creatività comincia a essere percepita come fenomeno complesso ma unitario quando (verso fine Ottocento) il nome che la definisce si diffonde, almeno nel mondo anglosassone. E i teenager si identificano come classe di età a metà Novecento: in precedenza (e ancora oggi nelle società tradizionali) uno smetteva di essere bambino e diventava adulto.
Ho il sospetto che qualcosa del genere sia successo con storytelling, nome etimologicamente più antico (1709) ma di nuova fortuna. Ed è, credo, proprio la recente fortuna del nome a far sembrare nuova un’attività che, in effetti, è vecchia quanto il genere umano: se vado a cercarmi la definizione di storytelling (metodo per creare racconti influenzanti in cui diversi pubblici possano riconoscersi), trovo che si adatti benissimo a un sacco di narrazioni antiche assai, dai racconti biblici al Mahābhārata, alle parabole evangeliche, alle favole di Esopo, o di Fedro.
Credo che dunque la vera novità non riguardi tanto il raccontare, quanto gli ambiti e gli strumenti della narrazione: questi sì, piuttosto nuovi.
Consideriamo gli ambiti: Luisa Carrada pubblica un emozionante articolo sullo storytelling usato per educare ragazzi svantaggiati. E un altro, illuminante, sul quello che lo storytelling può fare per le aziende. Allo storytelling politico sono dedicati, per esempio, il recente libro Spotpolitik e molti post del blog di Giovanna Cosenza. E c’è lo storytelling economico: un recente articolo del Corriere racconta di dati finanziari assemblati in resoconti di piacevole leggibilità. Ma, poiché a far questo è un software intelligente, la notizia ci porta già verso i nuovi strumenti del narrare.
Consideriamo gli strumenti, dunque: di storie che migrano, amplificandosi, da un medium all’altro parla Jeff Gomez, ospite alla manifestazione milanese Meet the Media Guru. Com’è arrivato a interessarsi di questo argomento? Semplice: è stato un bambino timido, ossessivo e amante delle storie. Anche questa è una bella storia.
E sotto l’etichetta “storytelling” si trovano raccolti diversi Ted Talks che può valer la pena di andare ad ascoltare.
Infine (posso dirlo?): sono convinta che, se qui da noi in Italia, ricominciassimo a usare con maggior frequenza i termini “raccontare, narrare”, pur accogliendo tutto quanto c’è di nuovo nell’ambito delle narrazioni, forse potremmo più facilmente intercettare storie autentiche, importanti, piene di emozione. Cancellando il sospetto che tutto ciò non sia nient’altro che una moda passeggera e ritrovandone le radici più vere.