Fetta di anguria morsicata

Trend Italiani: persone, imprese, paese

Sono stata al seminario nel corso del quale Eurisko, la maggior società di ricerche sociali e di mercato del paese, come ogni anno analizza i nuovi trend italiani. La prima indicazione è che né ci stiamo orientando verso un futuro di decrescita felice, né stiamo ritornando al recente passato consumistico. Quel che succede è ancora diverso, e più complesso.
Qui di seguito trovate i miei appunti.

Nuove culture mettono radici in un cambiamento sociale non riconducibile alla crisi, dice Silvio Siliprandi. Il primo dei paradossi generati dalle società occidentali avanzate è stato intercettato già nel 1968 da da Robert Kennedy, in un notissimo discorso: il PIL misura tutto tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta. Ma se si costruisce un indice ponderato di benessere e soddisfazione personale (IBS), si vede che questo, a partire dal 1997, decresce al crescere della ricchezza. Sono tre le grandi cause del malessere:

1- Crisi economiche continue causano incertezze e paura. Negli ultimi 15 anni si registra un + 21% di consensi sull’affermazione “il futuro mi preoccupa”. Non è solo un fatto di perdita del potere d’acquisto: crollano miti, e neppure la famiglia, quella che in passato ha sopperito a tutte le carenze del welfare, viene più percepita come luogo di sicurezza.

2- C’è un’insostenibile sperequazione nella distribuzione delle ricchezze: L’Italia è un paese diseguale e polarizzato, al sesto posto per ineguaglianza dopo Messico, USA, Polonia… e la ricchezza è “poco investita”. Oggi 18 milioni di italiani sono a rischio povertà/esclusione.

3- Ad aspettative crescenti corrispondono realizzazioni calanti: l’individuo oggi è solo, assediato e sotto pressione. Da una parte aumentano le risorse personali: cultura, informazioni, relazioni, tecnologie. Dall’altra calano la presenza, la legittimità e il supporto offerto nella vita quotidiana delle istituzioni e delle imprese, che non vengono più percepite come autorevoli produttrici di senso.
Cresce la complessitá percepita. Le persone sono più autonome e protagoniste ma anche piú bisognose di riconoscimento, confronto e relazione: sono individui indipendenti, che però cercano istanze in cui identificarsi. Così nascono culture, valori e consumi nuovi. Non è, come si pensa, solo il calcolo economico a ispirare le scelte, ma sono bisogni crescenti di benessere e soddisfazione. Dal cibo alla tecnologia, c’è bisogno di simboli, esperienze, icone emotive forti.

Si vanno delineando quattro principali forme culturali di consumo: la prima è orientata alla ricerca dell’opportunità e delle migliori alternative di prezzo, anche grazie all’e-commerce. La seconda è orientata alla relazione, allo scambio e al confronto. La terza è orientata all’esperienza, anche intesa come risposta sensoriale a una società sempre più smaterializzata. La quarta è orientata alla sostenibilitá, intesa non più solo in termini ambientalisti.
Mentre decresce il consenso (da 48% a 33%) sull’affermazione “compro solo i prodotti delle marche più note”, decresce anche il consenso (da 31% a 23%) sull’affermazione “per me una marca vale l’altra”: la situazione è fluida e, proprio perché i vecchi rapporti fiduciari sono in crisi, aumentano le opportunità per le imprese che sapranno coglierle.

Oggi il 71% dei consumatori non si sente rappresentato da alcuna marca, dice Fabrizio Fornezza.
Per fiducia nelle istituzioni, l’Italia è penultima su 25 paesi, sopra Argentina e sotto Spagna e Giappone. Per fiducia nelle aziende, l’Italia è ultima sotto Russia e Argentina: siamo campioni mondiali di scetticismo e paranoia. Il basic trust (l’indice di fiducia) é circa la metá di quello degli altri paesi, secondo il global trust index di Eurisko.
In generale, la relazione con quasi tutte le aziende/istituzioni è tiepida.
Che fare? Occorre tornare a radicarsi nel territorio e nelle culture locali, rendersi utili alle persone aiutandole a crescere, proporre emozioni autentiche, valori forti, etica. E occorre essere più flessibili nell’offerta, sia semplificandola (e abbassando i prezzi), sia arricchendola di nuovi contenuti distintivi. I bisogni vanno intercettati anche quando non vengono formulati. Diceva Henry Ford: se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto “un cavallo più veloce”.

L’esperienza di cui stiamo parlando, dice Isabella Cecchini, si esprime nella ricerca di sensorialità e di emozioni e nel bisogno di essere coinvolti e di partecipare, entrambi tesi all’arricchimento di sé e a raggiungere una condizione di benessere.
Oggi ogni offerta significa anche qualcosa di più: i prodotti culturali si radicano nel territorio e da astratti diventano concreti (festival, incontri), le offerte per il tempo libero diventano occasioni di scambio e condivisione (terme, spa, palestre…), il cibo è memoria delle origini e occasione per stare insieme, e perfino i farmaci diventano elementi per un progetto positivo di sé. Non è solo un’attitudine autoconsolatoria: è il passaggio dal consumo di prodotti e servizi alla fruizione di esperienza sulle cui basi le imprese potrebbero costruire un nuovo, anche se non facile, rapporto di fiducia con le persone.

Remo Lucchi inquadra queste tendenze in un contesto più ampio: è il cambiamento degli individui la vera variabile causale di tutto il resto. Oggi le persone sono più istruite, critiche, curiose: vogliono etica e quindi sostenibilità ambientale, sociale, culturale, economica. Cercano progetti di vita.
L’offerta ha sempre preteso di governare la domanda, ma questa ora esige rapporti paritari, favoriti anche dallo sviluppo del web 2.0: per questo il focus si sposta dall’offerta di beni materiali alla proposta di benessere per le persone.
È stata la crescita dell’istruzione a cambiare tutto: nel 1968 il 16% degli italiani aveva un’istruzione secondaria, nel 2000 siamo arrivati al 22%, nel 2012 al 42%, e nel giro di pochi anni arriveremo al 70%.
In soli 12 anni, tra il 2000 e il 2012, l’istruzione è raddoppiata. E si tratta di un fenomeno mai avvenuto nella storia dei duemila anni precedenti.
Quando la gente è ignorante, è soggetta all’autorità. Ma quando si accultura sviluppa senso critico, partecipazione, attenzione, curiosità e un bisogno forte di etica, intesa come rispetto degli altri, e di sostenibilità, intesa nel senso più ampio e come rispetto degli altri che verranno. Il concetto di “sostenibilità” è la chiave di tutto.
Sostenibilità culturale
significa rispetto delle diversità, e cercare non un’integrazione impossibile ma un’inclusione capace di creare coesione sociale.
Sostenibilità sociale
significa garantire sicurezza, salute, istruzione.
Sostenibilità ambientale
significa preservare il pianeta nel tempo.
Sostenibilità economica significa capacità di generare valore nel tempo, mettendo a punto strategie di medio-lungo periodo e abbandonando le cieche logiche di profitto a breve che hanno dato origine a una spirale al collasso.
Ma oggi l’offerta non sa rispondere al bisogno di sostenibilità. Non c’è progetto nella politica: mentre le persone chiedono protezione, tutela, visione, partecipazione, la proposta politica appare sfuocata, priva di etica, corrotta e incapace di perseguire obiettivi forti e tali da generare coesione nazionale.
Da dove ricominciare? Per esempio, dalle magnifiche cinque A che rendono grande l’Italia, e che da sole basterebbero a posizionarla come Paese del desiderio per il resto del mondo: Alimentazione e cibo, Abbigliamento e moda, Arredamento, Arte e cultura, Ambiente e territorio.

Dopotutto, se ci pensate bene, nelle cinque A c’è già tutto quanto basta per ospitare, proteggere e nutrire il corpo e l’anima.

16 risposte

  1. Grazie per questi appunti, AM: sempre sintetica e chiarissima! C’è una cosa, però, che la ricerca Eurisko non mi sembra abbia evidenziato e che credo invece sia molto importante: la distruzione del concetto di società a favore del concetto di individuo messa in atto dalle teorie e dalle pratiche del neo-liberalismo che la Thatcher ha sintetizzato nella sua celebre frase “non esiste la società ma soltanto l’individuo”. Si tratta, a me pare, di una componente essenziale del modo di pensare e di fare che si è andato diffondendo e che contribuisce oggi, in modo formidabile a bloccare qualsiasi iniziativa di protesta collettiva per lo stato di cose in cui viviamo. Chi si stupisce del perchè oggi – di fronte alla crisi economica che stiamo vivendo e alle non-risposte governative che vengono date – “non si scende in piazza”, può trovare in tutto ciò una valida risposta.

    1. Eurisko sembra affermare che questa sia una fase in via di superamento, sostituita da un nuovo bisogno di partecipazione “alla pari” e di condivisione orientata a un benessere inteso nel senso più ampio, e all’insegna della sostenibilità. Thatcher non è stata citata, ma nelle tre densissime ore di seminario, e soprattutto nella vibrante conclusione di Lucchi, che se l’è presa in modo più che esplicito con le logiche di profitto a breve, il trend è risultato chiarissimo.

      1. Il discorso Thatcher, ma in generale il discorso economico, è molto più complesso(come sapete benissimo).
        In effetti, se è vero che il PIL non misura tutto, è però vero che la crescita economica è invariabilmente connessa alla crescita individuale. Crescita intesa qui in senso lato, includendo anche il fattore chiave individuato come “crescita dell’istruzione”. E’ anche un fatto assodato che a decrescita del PIL aumentano le disuguaglianze sociali, e non viceversa. Poi, è solo grazie al neoliberismo alla Thatcher che la Gran Bretagna è una potenza economica e politica. Non solo, è sempre grazie a all’attivo del conto economico che è possibile il welfare. Come direbbe qualcuno, non esistono pasti gratis.
        Le logiche di profitto a breve non c’entrano niente con la Thatcher, e comunque muoveranno sempre (una parte) di mercato: per fare un parallelismo e tornare al tema, io brand 3.0 posso fare una bella campagna, progetti di comunicazione relazionali e valoriali, e via discorrendo. Ma le vendite alla fine le aumento se sul pop ci finisco con una promo. Possiamo parlare di persone, così smettiamo di chiamarci consumer, ma alla fine della fiera pure noi guardiamo al breve termine. Siamo tutti individui, prima che società, se non erro l’ha insegnato Rousseau.

        1. No, quel signora dice alxcune inesattezze di ordine economico e finanziario. 1-L’Inghilterra è molto povera, Londra è ricchissima.
          2-None siste più una struttura sociale al di fuori di un sistema sociale arcaico ma molto pocvo garante e rispettoso delle povertà.
          3-Le statistiche del pollo, sono perfettamente applicabili all’inghilterra-Londra che sono due entità separate, due modi di governare e accumulare ricchezze, due mondi differenti. l’Inghilterra e Londra non si possono definire paesi economicamente ricchi perchè l’economia non ha nulla a che fare con il tipo di finanza che rende ricchissima londra e poverissimo il Paese.Come è possibile scrivere quello che Gengis Khan scrive? Economia e finanza sono due differenti mondi che richiedono differenti analisi e sintesi prima ancora che comparative (non si compara un frigo con un salame) soprattutto di scenario. I Chicago Boys, origine degli attuali problemi mondiali, sono all’origine della diffusione di pensieri -no dottribe, no!-banalmente semplificatori. Studia Gengis, studia se ancora ne hai voglia.

  2. E’ così: gli italiani hanno due linee su cui lavorare. La prima è fornire accudimento alle persone qui e l’altra è utilizzare il valore contenuto nei prodotti cibo, moda, design che all’estero è percepito come qualità della vita.

    Sul fronte interno è più semplice: ci conosciamo bene e abbiamo accesso a persone disposte a lavorare per molto meno che in passato.
    Peccato per due cose però: dovrebbero imparare a fare cose relazionali e manuali, anziché intellettuali, e servirebbero regole per il lavoro molto più flessibili.

    Sul fronte estero abbiamo un vantaggio tanto enorme quanto ambiguo: noi stessi non sappiamo bene in cosa consista, quale sia il motivo per cui ci viene riconosciuto.

    Se qualcuno mi sa segnalare analisi interessanti su questo tema mi sarebbe molto utile. Per lo più ciò che si ascolta dà per scontata una specie di grazia divina alla quale faccio fatica a credere.

    Intuisco che questo vantaggio non è robusto e che i consumatori dei paesi che accedono ora alla cultura della qualità faranno in fretta a individuare le caratteristiche che gli interessano e a cercarle senza affidarsi al made in XXX. Prima di allora faremmo bene ad averlo capito anche noi.

    Altro problema dei mercati esteri è che le reti di vendita sono totalmente inadeguate a trasmettere i messaggi appropriati. Ciò significa che il successo passa per un uso efficace della comunicazione capillare al cliente e per punti vendita sotto controllo, monomarca o in partnership. Tutte cose che richiedono competenze importanti e elevati investimenti. Nelle nostre aziendine non ci sono.

  3. Credo che le cinque A dovrebbero essere supportate dalle cinque+una S:
    Sicurezza
    Salute
    Sviluppo
    Servizi
    Società e
    … Serietà (Sempre)
    Gli ingredienti, ovvero le A, ci sono.
    Questi ingredienti però (A) sono sempre più spesso preda di acquisitori e marchi stranieri o abbandonate a loro stesse, mentre le seconde (S) subiscono tagli costanti e ripetuti.
    Per non parlare della Scuola, dove imperversano contributi … “volontari” …!
    A + S = dovrebbe dare come risultato: Sogno = Speranza
    Sicurezza, non solo della Salute ma anche Sviluppo dei Servizi (Sanità, Scuola) per la Società.
    A + S, una semplice operazione dal risultato non scontato

  4. Ho idea che alcune delle A costituiscano solo un’idea nostalgica di una realtà da tempo svanita. Parlare di A come Arredamento e della sua iperonima D come design italiano o di italian style è analogo a indicare la Olivetti come esempio d’impresa oggi all’apice, dimenticando che da tempo non c’è più e cosa l’ha fatta sparire.
    Il design italiano è morto e sepolto, vive nel ricordo di pochi nostalgici. Il design globalizzato e gestito da un marketing sempre più affannato e incompetente ha preferito orientare la realizzazione di prodotti fondati sul solo valore di scambio a scapito del valore d’uso. Negli ultimi decenni abbiamo prodotto banali gadget, oggetti effimeri senza storia e senza futuro, e questo lo abbiamo insegnato a fare anche alle nuove generazioni.

    Trascrivo un estratto della dichiarazione elaborata dal gruppo di lavoro ICSID e dal comitato direttivo dell’ADI Associazione per il Disegno Industriale nel 1987, come pro memoria, poiché di questo ben poco è rimasto.
    “Ricordiamo che il design ha dato all’industria il lessico. Ricordiamo che quel lessico nacque come sintesi culturale della rappresentazione morale di una società nuova, basata sui valori di libertà, di giustizia, di solidarietà fra gli uomini. Affermiamo che la sola cultura planetaria è oggi quella della produzione industriale. La critica dell’esistente è parte integrante del progetto moderno. Vogliamo che il design sia la coscienza critica della produzione industriale. Vogliamo che il design eserciti la propria critica sulla incompletezza dei risultati ottenuti dalla razionalità pratica adottata dalla società contemporanea. L’intervento delle capacità tecnologiche ha prodotto effetti non controllati sempre più ampi al mondo naturale e sociale. Denunciamo che gran parte degli insuccessi del progetto moderno sono dovuti a decisioni prese da specialisti monodisciplinari. Affermiamo la necessità di un’audace estensione e di un approfondimento della ragione progettuale, che deve fare riferimento ad un progetto generale superiore a quello delle specifiche discipline o categorie o gruppi sociali. (…) Contro gli insuccessi del progetto moderno dovuti alla separatezza delle specializzazioni affermiamo la necessità di una figura che riunisca in sé la dimensione strutturale, la dimensione funzionale, la dimensione comunicazionale, la dimensione del desiderio”.

    Il design italiano è stato grande poiché grandi erano gli uomini che lo hanno creato. Pensare di continuare a vivere di rendita e raccontare balle è perlomeno illusorio. Ma in questo siamo proprio bravi: non sono passati molti anni da una mostra strombazzata rivelatasi fallimentare che indicava una città italiana (pensatene una a caso) quale culla del nuovo Rinascimento. Addirittura.

  5. Bell’articolo Annamaria, come sempre..

    C’è bisogno di pensare alle cose belle, perchè istigano a far accadere cose belle, e credere nel futuro in modo leggermente più positivo..

    Le 5 A che rendono grande l’Italia e di cui dobbiamo andare fieri 😀

  6. Ho debito di commenti con NeU che assolvo ora dopo aver letto con attenzione le ultime cinque note.

    Parto dalla città barocca in cui ho trascorso 15 giorni e di cui vi offro uno spaccato scritto per un blog di viaggi.

    http://blogdiviaggi.com/2010/07/visitare-la-puglia-martina-franca/

    Perché partire da Martina Franca direte. Perché, credo, riassume in gran parte le 5 A di cui sopra e narro, quasi un diario.

    Cerco da tempo un nuovo divano rigorosamente in pelle, di design italiano (che altro sennò?) e approfitto della vacanza per dedicarmi all’uopo. Entro in un grande negozio di arredamento e comincio, con gentilezza e con petulanza che dà sempre buoni frutti, a provare i divani con il titolare cortese e disponibile. Soddisfatta della prova acquisterò.

    Dove trovi arredamento di tale fatta se non in Italia segnatamente di produzione brianzola. Artigiani del mobile divenuti nel tempo industriali del settore, in affanno in questo momento per le note ragioni nostrane.
    Se ci si accontenta c’è sempre IKEA, boh!

    Se passiamo all’altra A, alimentazione e cibo, c’è solo l’imbarazzo della scelta e credo di averne scritto abbastanza sul blog di viaggi. Vale per tutta l’Italia con la ricchezza delle differenze. Chi ne ha così tante in un territorio così piccolo?

    Arte e cultura. Che dire. Le nostre città parlano da sole. Martina Franca ha una pregevole collegiata barocca dedicata a San Martino, patrono della città e quindi festeggiamenti ogni giorno con concerti all’aperto, appunto nella piazza della collegiata. Le orecchie e gli occhi fanno a gara, sul far della sera, per appropriarsi dello scenario superbo, beati anche dal prossimo festival.

    Città più grandi e famose condividono una analoga commistione di bellezza ed eventi.
    Pine e Gilmore, autori de “L’economia delle esperienze” (Etas 1999) parlano di “effetto Florian”, cioè dell’esperienza memorabile che vive chi consuma, a caro prezzo, una tazzina di caffè al famoso Caffè Florian. Costui non paga un caffè solamente, ma l’esperienza della visione di piazza San Marco a Venezia. Scusate se è poco!

    Mi sposto di qualche chilometro: Taranto.
    La città dei Due Mari, del Museo Archeologi con gli ORI che… non ce li ha nessuno. Non si parla della sua storia, della sua ricchezza e si lascia morire tra fumi e malattie una città di questo calibro da decenni.

    http://it.wikipedia.org/wiki/Taranto

    Abbigliameno e moda: tutti nomi italiani, magari acquistati, ma la radice è qui.
    Le ragazze giapponesi muoiono per GUCCI.

    Ambiente e territorio. La Cooperativa Ittica Nora di cui parla NeU è un esempio di questo tipo. Quanti altri? Un delirio.
    Poi i personaggi eccellenti. Uno per tuttii: Rossano Ercolini

    http://www.internazionale.it/news/ambiente/2013/04/15/rossano-ercolini-vince-il-nobel-dellecologia/

    Ma “manca la parola” un marchio Italia che sia in lingua italiana. Giusta provocazione quella di trovarlo, ma tu sei maestra Annamaria in questo.

    Per finire una questione che ci attende e su cui per tempo bisogna pensare proprio a partire dalle tante suggestioni di NeU e di chi commenta: I FONDI PER LA CREATIVITÀ prossimi venturi.
    Io ci provo e voi? (*_))

  7. Nei giorni scorsi un noto quotidiano ha riportato un lungo elenco di “importanti nomi e marchi italiani” che hanno fatto la storia nell’alimentazione, nell’arredamento, negli elettrodomestici, ecc e che sono in svendita, in forte crisi o in fase di delocalizzazione.
    Azienda che fanno o facevano parte di quelle “magnifiche A” .

    A fianco di questo interessante articolo, erano riportati alcuni dati sulle srl semplificate, ovvero le srl a un euro che avrebbero dovuto contribuire in parte alla “ripresa italiana”.

    Ho letto con stupore e rammarico che, ad un anno dalla loro attivazione, il 60% delle stesse è inattiva !!!

    Premesso che non ho mai “capito” il limite di 35 anni max tra i requisiti fondamentali per poter avviare una srl semplificata (le idee non hanno limiti di età … !), ho constatato con piacere che questo limite è stato eliminato.

    In merito alle start-up: tra i requisiti principali per avviare una “start-up”, si richiede la predominanza (66%) di personale con laurea magistrale.
    Ma come, oltre ad un limite di età le idee hanno anche un limite legato al livello di istruzione istruzione? Forse in alcuni settori(es chimico), ma se non ho la laurea magistrale non posso avere buone idee?

    Riporto due banali esempi:
    1. tre amici laureati (oppure due laureati ed uno no), magari senza esperienza ma con qualche idea, hanno la possibilità di avviare una start-up con tutte le agevolazioni del caso.

    2. tre amici NON laureati ma con diversi anni di esperienza (magari licenziati da una azienda in fuga dall’Italia) e qualche idea NON possono avviare una start-up in quanto non hanno i requisiti.

    Un paese che vuole ripartire credo commetta un grande errore nel pensare che:
    • le idee possano fiorire solamente fino ad una certa età
    • le idee possano fiorire solamente nella testa di coloro che hanno avuto la possibilità di studiare di più.

    Sicuramente i più giovani possono avere idee più innovative; sicuramente chi ha avuto la possibilità di studiare di più può avere una maggiore apertura mentale.
    Ma queste non sono leggi assolute e non ha senso porre limiti …
    … a meno che questi limiti siano imposti da esigenze economiche: limitando il numero di persone che possono accedere a queste agevolazioni io Stato spendo di meno.
    Spero non sia così …!

    Recentemente sono state apportate alcune modifiche e questo fa ben sperare, anche se la strada è ancora lunga.
    Investire sulle “start-up” è il primo passo, quello che manca pare siano i passi successivi per “far camminare e correre” queste nuove nate.

    Riassumendo quanto sopra, sembrerebbe che (almeno in Italia) una laurea magistrale possa offrire perlomeno qualche opportunità in più.
    Ma è davvero così?
    Io credo di no, ma il mio parere non conta.

    Annamaria chiede: da dove ricominciare?
    Beh, considerando il destino delle NOSTRE MAGNIFICHE A, direi dalla Sostenibilità che proprio Annamaria ha citato e dalla forza delle idee (senza limiti di età, colore, forma o altro) … ma non necessariamente dalla laurea.

    Qualcuno la pensa proprio così (ma non in Italia) e ci sta investendo parecchio:
    “Per avere successo, curiosità e determinazione sono più importanti del titolo di studio”.”perché il college non vale l’investimento. Si tratta di una bolla educativa”.
    Così la pensa Peter Thiel che, tramite la Thiel Foundation, ha selezionato 20 giovani.
    Thiel Foundation fornisce ai ragazzi gli strumenti: oltre ai 100mila dollari, due anni di formazione sul campo e la consulenza di alcuni dei maggiori esperti della Silicon Valley, scienziati, imprenditori, futurologi.
    Le start up passate dalla sua fondazione sono già 30 e hanno incassato 34 milioni di dollari.
    Testo tratto da: http://www.repubblica.it/economia/2013/05/11/news/universit_facebook-58553458/

  8. le cause del declino, si, della nostra crisi. D’accordo su quanto scritto. manca un’incisiva sottolineatura e ciè il bassissimo livello culturale sia letterario sia tecnico sia esperienziale.. impossibile chiedere -e avere- ad un ragazzo delle medie un riassunto di un evento. farà copia e incolla ,a sintetizzare no, le sinapsi sono ridotte a livelli elementarissimi. Non c’ elevazione, complessità. Ciao

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