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Call center: l’insensata, quotidiana guerra tra disperati

Prima di chiamare un call center, o di compiere qualsiasi altro atto burocratico, andate a vedervi Io, Daniel Blake, il nuovo film di Ken Loach che a Cannes ha vinto la Palma d’oro. Così, se non riuscite a cavare un ragno dal buco, almeno saprete di essere in una condizione condivisa.

L’inizio del film è folgorante: schermo nero, e nient’altro che due voci impegnate in un dialogo insensato. La voce maschile appartiene a Daniel Blake, anziano carpentiere che sta chiedendo di usufruire dell’indennità di malattia a causa di un recente infarto.
La voce femminile appartiene a un’addetta del servizio sanitario, che ottusamente sottopone il povero Blake a una raffica di domande intrusive e incongruenti con la sua condizione. Cose come “riesce ad alzare entrambe le braccia? Riesce a camminare per cinquanta metri? Va in bagno con regolarità?”

FRUSTRAZIONE E AGGRESSIVITÀ Domanda dopo domanda, la frustrazione di Blake cresce. E, con questa, cresce la sua aggressività: sì, ha avuto un infarto. Ha presentato la documentazione clinica e per il momento non può tornare a lavorare. Ma tutto il resto di lui, testa compresa, funziona benissimo.
Così, prima ancora che il film cominci, in meno di cinque minuti lo spettatore consegna tutta la propria empatia al carpentiere Daniel Blake, intrappolato in un inesorabile ingranaggio burocratico che lo considera non una persona ma una pratica da sbrigare. Contro tutto ciò Blake non ha alcuna difesa: neppure la possibilità di protestare, o di spiegarsi. O, almeno, di essere ascoltato.

BUROCRAZIA E DIAVOLERIE TECNOLOGICHE. Goffredo Fofi, che recensisce il film su Internazionale, segnala che la storia di Blake riguarda non solo il ritrovarsi senza lavoro, ma anche la pesantezza della burocrazia e dei suoi funzionari. A questa si aggiunge una persecuzione in più, la modernizzazione tecnologica, la digitalizzazione delle domande e dei documenti, le diavolerie dei computer. Blake non può che soccombere.

Ma Daniel Blake siamo noi.
Siamo Daniel Blake tutte le volte che ci scontriamo con un modulo illeggibile perché scritto in corpo troppo minuscolo, e magari in grigio scuro su fondo grigio chiaro. Incomprensibile perché redatto in burocratese stretto. Impossibile da compilare perché i campi non hanno spazio sufficiente.
Siamo Daniel Blake quando passiamo decine di minuti ascoltando stucchevoli musichette dopo essere stati avvertiti che la telefonata è a pagamento e verrà addebitata secondo le tariffe applicate dal gestore.
Siamo Daniel Blake quando cerchiamo di districarci tra prema uno, prema due, prema tre, prema quattro, e scopriamo che la magica opzione per parlare con un operatore prema cinque non è prevista. Siamo Daniel Blake quando tutti i nostri operatori sono occupati. La preghiamo di attendere. E parte un quarto d’ora di informazione pubblicitaria.

E, naturalmente, siamo Daniel Blake tutte le volte che finalmente riusciamo a parlarci, con un operatore, senza però ottenere una risposta comprensibile, sensata e utile. E tutte le volte che, tentando la perversa roulette del call center, ripetiamo la trafila, riaccettiamo di pagare la telefonata, riascoltiamo la musichetta e la pubblicità. E finalmente, da un diverso operatore, riceviamo una risposta del tutto differente, ma altrettanto incomprensibile, insensata o inutile.

call center 1

TELEFONATE-HORROR. L’altro giorno questo a me è successo (verifico sul registro-chiamate del telefonino) tra le 13,20 e le 14,53. Un’ora e mezza e dodici telefonate a cinque diversi numeri per non riuscire a capire quale misteriosa entità avrei dovuto avvertire del mancato funzionamento di un contatore, e come farlo.
La settimana precedente: stessa trafila, in diverse puntate di una quindicina di minuti l’una, per via di una connessione internet. Insomma, ho passato al telefono il tempo sufficiente a leggermi un bel romanzone.
Raccontando in giro questi fatterelli, ricevo la stessa accorata solidarietà che può aspettarsi di ottenere chi si dichiara stroncato da una feroce cervicale. O chi racconta di avere appena perso un amatissimo animale da compagnia. Seguono, di norma, racconti di analoghe telefonate-horror, e di epiche arrabbiature. Un amico mi ha perfino suggerito di prendere a martellate il contatore: fallo, e qualcosa succederà.

STRATEGIA PER I CALL CENTER.  Ormai ho messo a punto una strategia: mai chiamare un qualsiasi call center se non ho almeno un’ora a disposizione. Se, mentre ascolto l’interminabile musichetta, non ho qualcosa da fare (per esempio controllare le e-mail, e a meno che la telefonata al call center non riguardi la connessione internet).
E poi, squadernare tutta la documentazione necessaria: bollette, fatture, contratti, tessere, codice fiscale, codice-cliente. Respirare. Tenere sotto controllo lo spaesamento, la frustrazione, l’ansia e l’aggressività.

Resto convinta che se fosse possibile misurare e sommare tutta l’ansia e l’aggressività derivanti dall’impatto con le pratiche burocratiche e i call center delle istituzioni pubbliche e delle imprese private, ci renderemmo conto di aver individuato un importante fattore di infelicità individuale, di instabilità sociale e di logoramento e abuso del capitale umano.
Psychology Today elenca dieci passaggi per ottenere il meglio dagli operatori dei call center: evidentemente il problema non è solo italiano. Tra i suggerimenti: preparatevi prima, siate gentili, controllate le vostre emozioni. E poi: personalizzate lo scambio chiamando per nome la persona con cui parlate per ispirarle empatia, e ripetete più volte la vostra richiesta usando le medesime parole.

call center 2

UNA GUERRA TRA DISPERATI. Insomma: chiamare un call center sembra essersi trasformato in un’impresa a metà tra il sostenere un esame universitario e il prepararsi per un colloquio di lavoro. Psychology Today dice inoltre che, se nemmeno la preparazione basta, conviene ricorrere alle maniere forti: chiedere di parlare col supervisore, scrivere un messaggio di fuoco su Twitter.
Ma non bisogna dimenticare che questa è una guerra tra disperati: dall’altro capo della linea oppure oltre il vetro dello sportello, c’è spesso una persona malpagata, demotivata, non sufficientemente addestrata, sfruttata, esausta e soggetta a burnout, la cristallizzazione patologica dello stress che può essere misurata dalla Scala di Maslach.

NON È COLPA DELLE PROCEDURE. Non bisogna nemmeno dimenticare che istituire procedure è indispensabile per gestire qualsiasi sequenza di operazioni. Che noi stessi ogni giorno attuiamo complesse procedure. E che esistono procedure utili, benefiche e tali da salvarci, letteralmente, la vita.
I guai capitano quando le procedure sono sfuocate o fuorviate rispetto all’obiettivo di rispondere a un bisogno o di facilitare un compito. Quando vengono gestite da persone stanche, demotivate o impreparate. Quando si trasformano esse stesse in un obiettivo che si autogiustifica.

ASPETTANDO L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE. Lo ammetto: ritrovarmi periodicamente nei panni di Daniel Blake mi pesa in modo crescente, e le poche volte che sono riuscita a ottenere una risposta efficace in tempi ragionevoli mi sono sentita miracolata. Credo di non essere l’unica persona che si sente così.
IL punto vero, in definitiva, è questo: la colpa non è dei singoli individui, utenti e operatori, che domandano o rispondono, ma di un sistema che, cercando l’efficienza a prescindere dal fattore umano, ha conquistato invece l’insensatezza. Ormai comincio a temere che il sistema sia inemendabile. L’unica, paradossale speranza è che l’intelligenza artificiale riesca, tra un po’ di anni, a restituirgli senso ed empatia.

Le immagini sono di Adam Martinakis. Una versione più breve di questo articolo esce su internazionale.it

11 risposte

  1. Hai ragione, sfruttati, frustrati e, tra non molto, anche bidonati, dato che questi “parolai parcheggi per giovani disperati” cercano di lasciare l’Italia e delocalizzarsi ove’ è più conveniente per loro.

  2. Quello che mi stupisce, e non consola, è che non sia affatto un problema tipicamente italiano. Pertanto, non possiamo nemmeno sperare che qualcuno, arrivati prima di noi, possa suggerirci una soluzione. Non ci resta che fondare un movimento “Per la Riconquista della Serenità nella Burocrazia e i Call Center” . Ma suonerebbe tipo P.Ri.Se.Bu.C.C. e non so se avremmo successo.

  3. Ottimo articolo, come sempre, con in più il vantaggio di stuzzicare un punto dolente del nostro vivere quotidiano.

    Vorrei però segnalare una curiosa omologia: i call center non sono solo i numeri di telefono che utenti disperati chiamano per aumentare il proprio stress senza risolvere i problemi, ma con lo stesso nome sono indicate anche le batterie di studenti universitari e immigrati affamati che chiamano noi, gli utenti scocciati, per venderci servizi in modi più o meno truffaldini, e sempre in orari improponibili (durante il weekend, durante il colloquio con il titolare, in visita dal medico, nella pausa pranzo che vorremmo dedicare alla nostra amata).

    Sarei curioso di leggere qualcosa al riguardo, visto che la mia autoosservazione mi sta identificando sempre di più come sadico aguzzino di quei poveri lavoratori che sembrano pagati (poco e male) per rovinarmi le giornate

    Magari

    1. Ciao Magari.
      Quella di cui parli è l’altra faccia (quella non frustrante e ansiogena, ma fastidiosa e intrusiva) dello stesso fenomeno insensato.
      Nell’articolo parlo di una notevole quantità di tempo speso di recente per ottenere una connessione internet. Bene: sono stata anche tempestata da telefonate che, da parte della stessa azienda, mi proponevano occasioni imperdibili e strepitosi miglioramenti del servizio senza che la connessione fosse mai stata effettivamente attivata. Anche questo fatterello non depone a favore dell’intelligenza del sistema, eh.

  4. Questo post capita a pennello. Ho appena chiamato il customer service di un’azienda internazionale (vivo a Berlino). Ho atteso quasi un’ora al telefono e non ho risolto nulla (mi prendo una parte di colpa, perché non parlo tedesco e ho chiesto di poter parlare in inglese).
    Avendo lavorato in un call center so cosa vuol dire stare dall’altra parte della cornetta: lo stress, i target da raggiungere, le procedure da seguire, la laurea in psicologia ad honorem alla fine del primo anno e un master in comunicazione avanzata alla fine del secondo. Esperienza conclusa e che non ripeterei, ma che considero molto utile e sono felice di aver fatto. Ho capito che empatia e call center non vanno d’accordo. Le persone veramente empatiche passano più tempo al telefono con ogni singolo utente, quindi non raggiungono i target quantitativi. E anche se raggiungono quelli qualitativi, rischiano comunque il posto.
    Da ex agente e utente concordo pienamente con quello che dici tu: la colpa non è dei singoli individui, ma di un sistema che non ha senso.

    1. Ciao Caterina.
      Grazie per il contributo esperto. 🙂 E un caro saluto, da Milano a Berlino

  5. Se io fossi Chlarlie Brooker (ahaha) e mi cimentassi a scrivere un episodio creativo di Black Mirror incentrato su un servizio assistenza finirei forse con il rappresentare il paradosso di uno specchio che si fa più luminoso scoprendo che la distopia è quella del qui e ora, perchè un call center del futuro non potrà che smettere di essere quel regno del surreale che impone alle anime più nobili di deporre l’ira riflettendo sulla condizione umiliata e offesa di chi per quattrro soldi sembra volerci umiliare e offendere dall’altro capo del filo. Chissà, negli…interstizi fra la distopia e l’utopia potrebbe celarsi l’era dell’efficienza solidale e della ricerca della procedura più semplice.

  6. Poichè in molti casi l’inefficienza dei call center è voluta, nella speranza che i problemi degli utenti si risolvano da soli ovvero che si tengano il problema, suggerisco di scrivere tramite pec.
    Non è un caso che sui siti delle utilities tra i contatti non sia mai indicata….

  7. Telefonate – horror in entrata, ovvero l’altra faccia della medaglia.

    Soprattutto all’ora di pranzo, così sono certi di trovarti e la persecuzione va a buon fine, arrivano le chiamate promozionali principalmente in outsourcing e dall’estero.

    Non so dire quante telefonate ricevo ogni giorno, sul telefono fisso e sul cellulare.
    La mia anima democratica non mi permette di mandare al diavolo l’operatore o l’operatrice e quindi, con una puntina di risentimento, dico che mi spiace, ma non sono interessata e auguro buon appetito.

    Una curiosità: dobbiamo ringraziare la Ford che nel 1968, per far fronte ai reclami, istituì i call center *_*

  8. Forse la colpa non è tanto dei numeri da pigiare o della musichetta d’attesa, ma delle aziende che sono dietro agli operatori. In Italia il servizio clienti non funziona affatto. Non si offre un servizio mirante a risolvere i loro problemi, ma a creare frustrazione e antipatia verso qualsiasi operatore telefonico. Vi assicuro che stare dall’altra parte del filo è altrettanto avvilente.

  9. Ho lavorato all’estero come servizio booking sempre per Italiani ed e’ stato diverso…sono rientrato in Italia,mi occupo del servizio qualita per una nota marca di auto…ma la gente che risponde…sta male proprio…persone che danno il consenso dei propri dati…persone che quando li chiami..sembran cerchin la risposta della vita…cioe’ la frustrazione di questa gente e’ esagerata…posson anche ricevere 100 chiamate..non ti fanno dire nemmeno per cosa sia…in quanto…potrebbe fare veramente l loro interesse….e subito si incazzano…ma sapete che se non volete essere contattati basta bloccar eil numero che vi chiama sul cellulare o telefono?…Ed io invece che mi occupo di servizio qualita’…che serve a sti deficienti…per di piu’ devo anche incappare in coglioni maleducatie ..e frustrati…IL COVID NON HA INSEGNATO NIENTE A STA GENTE BECERA

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