Nuovo e utile

Comunicare senza discriminare: che bella cosa

È appena uscito un libro che mi sembra necessario presentarvi: si chiama Parlare civile, comunicare senza discriminare.
È ben scritto e realistico: dice in modo documentato, prendendo le giuste distanze dalle derive eufemistiche e dagli eccessi del politically correct a tutti i costi, quali parole usare e quali conviene evitare parlando di disabilità, genere e orientamento sessuale, immigrazione, povertà ed emarginazione, prostituzione e tratta, Rom e Sinti, salute mentale… (qui l’indice dei termini), aggiunge dati e dà conto di buone e cattive pratiche, offre un’idea della diffusione dei fenomeni, smonta pregiudizi. Qui trovate i video di tutti gli interventi al seminario di presentazione. Vi  trascrivo qualche numero e qualche considerazione dai primi capitoli, così potete farvi un’idea.

Disabilità. Al mondo c’è oltre un miliardo di persone con disabilità: il 15% della popolazione. Dire ”diversamente abile” è paternalistico, così come dire “non vedente, non udente”…
Handicap è un termine generico e significa “svantaggio”. Attenzione: non sono le persone ad essere handicappate. È il contesto ad essere più o meno handicappante (cioè svantaggioso) per le persone che hanno qualche forma di disabilità.

Genere e orientamento sessuale. Ricapitoliamo: in Italia solo nel 1981 sono state abolite le attenuanti contenute nel Codice Rocco per il delitto d’onore. Solo nel 1996 la violenza sessuale è stata riconosciuta come reato contro la persona. Lo stalking è definito come atto persecutorio solo dal 2009. Nel nostro paese l’uccisione  con movente di genere è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i  44 anni. La violenza di genere è violenza di genere, e può culminare nel femminicidio (neologismo ormai adottato dalle Nazioni Unite e dalla UE): evitiamo di scrivere “delitto passionale”, “follia d’amore”, “dramma della gelosia”, “raptus”.
Occhio agli stereotipi di genere: “gentil sesso”, “parcheggi rosa”, “treni rosa”, “farmaci rosa”… dobbiamo anche imparare a sgarbugliarci sulla declinazione al femminile di ruoli e cariche, evitando inciampi di questo tipo: Il sindaco di Cosenza in un’intervista: aspetto un figlio. Il segretario DS ai giornali: il padre sono io.
Il termine lgbt tiene insieme le parole lesbica, gay, bisessuale e transessuale. È molto usato nel mondo anglosassone. Non bisogna confondere coming out (dichiarare la propria omosessualità) con outing (rivelazione da parte di terzi dell’omosessualità di qualcuno, senza il suo consenso).

Immigrazione. La parola clandestino non ha corrispondenza a livello di giurisprudenza internazionale. Negli Usa si dice undocumented person, in Francia Sans papier. Da noi il termine esatto è migrante irregolare. In Italia i migranti regolari (5 milioni e 11mila secondo Caritas/Migrantes 2012) sono dieci volte più degli irregolari (500.000) e contribuiscono per 12,1% del Pil italiano. Il 64% degli irregolari è costituito da overstayers: hanno visto o permesso di soggiorno, ma scaduto. I profughi che riparano in Italia da paesi in cui sono perseguitati hanno diritto d’asilo secondo la Convenzione di Ginevra, ottengono lo status di rifugiato (che dunque non è sinonimo di profugo) e sono equiparati ai cittadini italiani. I rifugiati sono 43 milioni nel mondo, oltre 60.000 in Italia: pochi rispetto ai 580.000 in Germania o ai 290.000 in UK.

Povertà ed emarginazione. Bisogna distinguere tra senza tetto (roofless) senza dimora (homeless) o senza casa (houseless): chi è senza tetto dorme in strada, gli altri sono persone ospitate in strutture come dormitori, centri di accoglienza… termini da evitare: barbone e clochard.
Altra distinzione da fare: child work (minori che in situazioni di disagio partecipano al lavoro familiare) e child labor (gravi forme si sfruttamento minorile, con superlavoro e sottosalario).

Segnalo infine che, però, anche a detta delle autrici questo libro è è solo il primo passo di un gran lavoro di sistematizzazione che dovrebbe coinvolgerci tutti: per farlo, già ora c’è un blog.
Su alcuni termini ancora si dibatte, altri si evolvono rapidamente con il cambiare della sensibilità sociale, e altri ancora mancano proprio. Ad inventarli, si dice, non dovrebbe essere un ente burocratico ma, forse, un poeta.

 

7 risposte

  1. In una serie d’incontri sul tema del Design for All avuti con il Coordinamento paratetraplegici del Piemonte, l’amico PierGiuseppe ci ha detto: non chiamateci “diversamente abili”, mettendo così l’accento sulla diversità. Noi siamo innanzi tutto Persone, poi persone con disabilità, e del nostro stato abbiamo piena coscienza, non occorre ricordarcelo ogni volta. Abbiamo bisogno di comprensione, partecipazione attiva, non di pietà ipocrita o commiserazione. Credo che “persone con disabilità” sia il modo più corretto di dire, se proprio è necessario evidenziarne lo stato.

    Per quanti possono essere interessati, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal 2001 ha attivato la “Classificazione Internazionale delle menomazioni, disabilità e handicap” (ICF, International Classification of Functioning, Disability and Health).
    Secondo l’ICF, per menomazione si intende il danno biologico che una persona riporta a seguito di una malattia o di un incidente, a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica.
    La disabilità, invece, è l’incapacità di svolgere le normali attività della vita quotidiana a seguito della menomazione, nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano.
    L’handicap, infine, è lo svantaggio sociale che deriva dall’avere una disabilità, cioè una condizione di svantaggio conseguente a una menomazione o a una disabilità che limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale, in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali.
    Ad esempio, una persona con una menomazione alla struttura uditiva ha disabilità nella comunicazione, che le comporta handicap nella socialità e nella comunicazione.
    Pertanto anche da una singola menomazione possono insorgere diverse disabilità e molteplici handicap.
    Mentre la menomazione ha carattere permanente, la disabilità dipende dall’attività che il soggetto deve esercitare e l’handicap esprime lo svantaggio che ha nei riguardi di altri individui.

  2. Le parole sono fluide, la mera sostituzione di una parola con un’altra non cambia da sola la percezione della realtà. Le parole si adattano così facilmente, sono camaleonti. Quante parole e anatemi si sono succeduti nella descrizione della disabilità? Quante hanno funzionato?
    Non è definire la parola giusta che cambia la realtà, ma esattamente il contrario.
    Essere creativi, ironici, scorretti invece funziona, a mio avviso. Costringe le persone a confrontarsi con la diversità. Gli omosessuali ad esempio hanno vinto una battaglia importante (soprattutto di visibilità) chiamandosi gay e mostrando la loro diversità nell’eccesso delle parate. Ciò non toglie che gay potrà essere usato in futuro (e forse già adesso) come un insulto.

  3. A proposito dei poeti: tra le popolazioni Aborigene canadesi si usa l’espressione “Two-Spirits” per indicare quelle persone che hanno un’identita’ di genere non univoca. Lo trovo bellissimo.

  4. Senza scomodare l’Accademia della Crusca, basterebbe un rapido ripasso del vocabolario alle centinaia di mezzobusti televisivi et similia per evitare di diffondere interpretazioni errate dei termini ricorrenti.
    Quando un termine estraneo entra di prepotenza nel tritacarne (altro termine orribile) mediatico, il danno è fatto.
    Preveniamolo.
    Chi cazzeggia con le parole può permettersi il lusso di sbagliarle, chi ci lavora no.

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