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Donne, pubblicità, stereotipi: fatte con lo stampino

Qualche tempo fa sono stata invitata da Se non ora quando a parlare, in una piazza romana, di stereotipi femminili e pubblicità. Bella sfida: come raccontare in breve, in modo semplice e capace di arrivare a tutte in una piazza affollata, un argomento complesso, controverso e ad alta intensità emotiva com’è quello che riguarda il difficile rapporto tra donne e comunicazione pubblicitaria?

Ci ho messo quasi una settimana per mettere a punto questa presentazione che parla di donne, pubblicità, stereotipi. Volevo che facesse passare alcuni punti chiari.
Il primo punto: la pubblicità non nasce “nel vuoto”. Rispecchia e amplifica e semplifica gli usi e i costumi e i pregiudizi più diffusi. Trasmette il gusto dei suoi referenti aziendali. Si esprime all’interno del più ampio sistema dei media. Questo non vuol dire che la pubblicità sia innocente: ha responsabilità grandi proprio perché è efficace anche quando diffonde e rafforza modelli di ruolo arcaici, sistemi di disvalori, stereotipi deleteri.
Ma la pubblicità può cambiare sul serio, e diventare più rispettosa delle donne solo se, insieme alla consapevolezza degli addetti ai lavori e delle imprese committenti, cresce anche la sensibilità del pubblico.
Nessuna azienda vuole disgustare i suoi clienti proponendo una comunicazione sgradita. Un buon modo rapido – lo sto dicendo da trent’anni, e non mi stancherò di ripeterlo – per interrompere una campagna offensiva, e in generale per migliorare l’intero sistema, è protestare. Farsi sentire. Ma attenzione: bisogna farlo senza veicolare ulteriormente le campagne negative.
Alcune aziende spregiudicate usano lo scandalo e la provocazione come amplificatori dell’investimento, secondo la vecchia logica del “purché se ne parli”:  se una campagna vi offende, scrivete all’azienda. All’agenzia. All’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. Ai giornali. Al sindaco. Protestate sui social media (su Facebook, tra l’altro, sono attivi diversi  eccellenti gruppi di donne che fanno un gran lavoro di sensibilizzazione). Boicottate i prodotti. Ma non postate la campagna su Facebook. Non contribuite a farla girare.

Il secondo punto: come capita col vino e l’olio, coi romanzi, i film e le scarpe e gli articoli di giornale e mille altre cose, saper riconoscere la qualità buona o cattiva è indispensabile anche quando ci si trova a giudicare una comunicazione pubblicitaria. Dire che “la pubblicità offende le donne” è generico e, credetemi, lascia il tempo che trova. Per difendersi sul serio dalla cattiva pubblicità come cittadini, e per pretendere come clienti che le aziende non producano cattiva pubblicità, bisogna imparare a distinguere. Bisogna stanare gli esempi negativi, spiegarli, disinnescarli.
Alcune campagne sono fastidiose semplicemente perché sono sciocchine o invasive e troppo ripetute. Altre sono irritanti perché rappresentano stereotipi di genere e comportamenti arretrati: tutte quelle madri sorridenti, in piedi davanti alla famigliola seduta, tutte uguali, in cucine tutte uguali, riducono le donne a figurine ancillari, fatte con lo stampino.
Altre campagne ancora usano i corpi (e spesso parti del corpo): mercificano il corpo per vendere. Altre  usano del tutto a sproposito il richiamo sessuale. E alcune sono veramente trucide, violente e offensive.
Vorrei chiarire una cosa importante: il problema non è il corpo nudo in sé, ma il corpo nudo usato a sproposito. Il problema non è la sessualità, ma la provocazione sessuale. Più diventiamo capaci di leggere le immagini, di smontarle, di capire come funzionano, meglio ci possiamo difendere protestando e denunciando.
Un altro modo per difendersi è riconoscere e apprezzare le buone pratiche: sono meno di quanto vorremmo, ma esistono. Dobbiamo valorizzare lo humour, l’intelligenza, la visione, la capacità di raccontare storie capaci di  presentare prodotti in modo piacevole, divertente, amichevole, sorprendente, e di farlo presentando buoni modelli di ruolo e di comportamento.
L’adci, un club che non rappresenta tutta la pubblicità, ma un ampio gruppo di professionisti  sensibili alla qualità del messaggio pubblicitario, oltre un anno fa ha raccolto dettagliate linee-guida in questo Manifesto deontologico.

Si diceva una volta “certi spot sono migliori del film”. Ed eccoci al terzo punto: la qualità creativa media della pubblicità italiana è modesta. In un passato recente  (per esempio quando, qualche anno fa, tutte le maggiori compagnie telefoniche si sono concentrate su cloni di ragazzotte scollate e scosciate, investendo nella diffusione di queste immagini una quantità di soldi) ha toccato livelli davvero bassi.
Ancora oggi non è così frequente vedere spot migliori del film (all’inizio degli anni Ottanta è successo: ma è stata una fioritura creativa brevissima) o pagine pubblicitarie che si fanno guardare con piacere. L’attuale, profonda crisi creativa del mondo della pubblicità rispecchia la crisi di visione delle aziende, e la più ampia crisi di progetto del paese.
Ma raccontando le donne contemporanee, valorizzandone il ruolo, la pubblicità può efficacemente contribuire allo sviluppo di un nuovo immaginario e di una nuova visione, più fertile.
Le aziende devono sentire questa richiesta, forte e chiara.
Le agenzie e i professionisti della pubblicità devono sapere che la vigilanza collettiva su quanto producono è diventata più stretta, puntuale ed esperta. Ci sono diversi segnali incoraggianti in questo senso. Ma il cammino è ancora lungo e dobbiamo percorrerlo tutte (e tutti) insieme.

Questo post è stato pubblicato anche su La Ventisettesima Ora

13 risposte

  1. Condivido molto, sul tema della cosiddetta comunicazione di genere, però vanno rieducati oltre ai creativi i committenti. La tua presentazione con i casi della telefonia è inequivocabile.
    P.S.: i feed con chrome non funzionano

      1. Poi come intende pacificare il piacere biologico maschile a vedere donne discinte?
        apensarci bene tutto il discorso sui danni dell’uso del corpo della donna in pubblicità si basa sull’assunto che vi sia un nesso causale e statisticamente assodato tra ripetizione di un’immagine di un ruolo e sensibilità generale verso il genere che lo interpreta.
        Le è passato per la testa che tutto ciònon abbia senso? Anche perché se si guarda alla nostra società e alla condizione femminile si può osservare una marcia inarrestabili di parità in ogni ambito. E poiché la parità del presente nei ruoli di vertice nasce dalla parità del passato nella linea di partenza, occorre constatare che la parità di genere ha cominciato ad accelerare con la nudità della donna riproposta ossessivamente ad ogni angolo di strada mediatica.
        Ops

  2. Bellissimo il “manifesto”! Peccato che non sia un’etica generalizzata!
    Una considerazione sul termine “stereotipi”. A mio avviso lo stereotipo sta alla comunicazione come la parola sta al concetto. Non è un male usarlo, anzi, non ne possiamo fare a meno. Però è importante che la “parola” sia inserita in un discorso articolato e sia corretta ed illuminata con “aggettivi” che ne declinino la specificità in quel dato contesto.
    Così lo stereotipo: usarlo per far riferimento al sentire comune ma caratterizzarlo per differenziarsene nello specifico, proprio per “scongelarlo” ed “ampliarne il senso” al punto tale che non sia più uno stereotipo in senso stretto.

  3. @Ettore: grazie per la segnalazione. Abbiamo verificato con il nostro webmaster. Ti riportiamo quello che ci ha scritto:

    “I feed ci sono. Non sono impaginati perché il browser non associa uno stile alla pagina.
    I feed, però, non devono essere letti dal browser ma interpretati dai vari software/tool che li importano.
    Per vederli bene hai bisogno di un’estensione aggiuntiva di Chrome, tipo questa:
    https://chrome.google.com/webstore/detail/rss-subscription-extensio/nlbjncdgjeocebhnmkbbbdekmmmcbfjd/related

    Quindi… prova a istallarla e facci sapere.
    Un caro saluto dalla redazione

  4. Come CREATIVA, (lavoro nel settore pubblicitario) concordo con Lei, noi addetti alla creazione di pubblicità dobbiamo dettarci delle regole deontologiche, e soprattutto noi donne designer dobbiamo tutelare il mondo femminile rifiutandoci di esasperare l’uso del corpo, come veicolo per il lancio di un prodotto e/o servizio. Ritorniamo alle pubblicità dei caroselli, pulite, simpatiche, familiari.
    Il percorso di ritorno ad una giusta moralità è tortuoso, ma ce la faremo. Barbara

  5. Gentile Barbara, non credo sia un fatto di genere o di mestiere e ritengo che se non si hanno principi etici come persone, ben difficilmente questi principi saltano fuori in ambito lavorativo. Anch’io ho lavorato in agenzia come art director, (poi, facendo fede all’idea di Seguelà –non dite a mia madre ecc.– ho cambiato mestiere) e non ho mai pensato di utilizzare l’immagine femminile come un oggetto, anche le volte in cui il cliente suggeriva di metterci una bella donna nuda che fa vendere sempre e che sbavava alla sola idea di venire sul set fotografico a vedere le modelle.
    A maggior ragione se si è davvero creativi, anche se in tal caso la donna nuda ci può anche stare ma bisogna proprio essere bravi, ma proprio, proprio bravi!!
    Non ho capito il commento dell’uomocheride, ma sono io che sono tonto.
    E poi, qui non stiamo parlando di donne nude o discinte al di fuori di un contesto di comunicazione orientato alla vendita.
    Per non dilungarmi oltremisura rimando, per chi ne avesse voglia o lo avesse saltato, il mio ultimo commento al recente https://nuovoeutile.it/pubblicita-sessista-piccola-storia-molto-istruttiva/.

  6. Vedo il modello pubblicitario (anzi mediatico) applicato con risultati disastrosi alla vita privata. Il border-line è la maternità: per essere attuali e considerate le mamme si mostrano più in forma e alla moda di prima, anche se devastate da notti insonni. E dicono più sì di prima: alle riunioni, alle trasferte, alle maestre. Pure la casa è ancora più splendente, ma poche ce la fanno perché in certi contesti i neuroni faticano ad essere brillanti. Confido molto in quel circa 24% di donne in arrivo entro nei CdA affinché cambi non solo le strategie mktg, bensì qualcosa di più profondo nella organizzazione delle loro imprese.

  7. Cara Annamaria, (io di principi etici ne ho una montagna),e se si valorizzasse maggiormente il concetto di sensualità a scapito di quello sessuale, non si avrebbe un’inversione di tendenza?. Sarà che non abbiamo creativi all’altezza della situazione? Sembra che il mondo femminile gli sia completamente estraneo: solo agghiacciante pornografia! La donna va colta nel suo aspetto più intimo, magari , anche dalla toppa di una serratura. Non mi stancherei mai di ammirare una Venere greca, cosi prepotentemente sensuale, a cui basta aggiungere un qualsiasi

    1. orpello(parrucca bionda, reggiseno, borsetta,scarpe a spillo,labbra rosse,macchina fotografica,ecc..), che si perpetua nel tempo,
      con la sua enigmatica bellezza,nell’immaginario collettivo.

  8. Annamaria sei grande! Le tue parole per sintetizzare il problema sono esemplari, i tuoi suggerimenti perfetti. Le condanne dello IAP, seppur numericamente impotenti di fronte a tanto scempio, sono uno dei pochi riscatti
    me una grande soddisfazione! Condivido tutto e diffondo il tuo pensiero, perchè si sappia.

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