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Impresa: il Lego, la guerra e la danza, i tipi strani e i robot

Il web è pieno di articoli e siti per l’impresa: NeU ne ha raccolti alcuni a questa pagina. E, non così paradossalmente, quanto più gli imprenditori sembrano incerti – e in tempi come questi ne hanno motivo – tanto più si moltiplicano le prospettive, le esortazioni, i suggerimenti e le ricette.
Da farsi venire il mal di mare.
Ogni tanto si trova qualcosa di buono. Per me, “qualcosa di buono” è  un discorso comprensibile, argomentato, contenente una notevole dose di buonsenso pragmatico + una proposta realistica a partire da un insight forte. Ho raccolto quattro prospettive che, mi sembra, hanno queste caratteristiche. Eccovele, in sintesi. La cosa interessante è che c’è un filo di pensiero che le collega: ricostruirlo non dovrebbe essere difficile. Il link arancione, come sempre, vi rimanda alla fonte.

TENERSI SUL SEMPLICE. Lo suggerisce l’Economist, a partire dal caso Lego. Dopo il fallimento della diversificazione (parchi a tema, abiti…) degli anni ’90, Lego torna ai mattoncini. Ma ora ci fa di tutto e di più: spedisce perfino kit “on demand” per singole costruzioni progettate online dal cliente.
Le aziende che ragionano così hanno un business distintivo, fanno di tutto per mantenerlo semplice e ne investigano di continuo nuove applicazioni. In altre parole: il loro sforzo non è estensivo, ma intensivo, e si tiene stretto all’area di massima expertise e di identità.
Ovvio: anche se la complessità è il silent killer dei mercati maturi, tenersi sul semplice non basta, perché di fronte all’innovazione radicale un intero business può andare a rotoli in breve. È quanto succede a Nokia, Xerox, Blockbuster.
In casi come questi, c’è da decidere rapidamente quali parti di business tagliare e quali sviluppare. È, mi sembra, un po’ come quando, di un albero, si taglia un vecchio ramo rinsecchito salvando il nuovo germoglio, che dal taglio viene rafforzato: ci vuole occhio, coraggio, precisione e tempestività. E, ovviamente, la voglia di non tirare a campare mentre la pianta è lì che appassisce.
CAMBIARE LE METAFORE DEL MARKETING. No, il marketing non è morto, ma il sistema simbolico su cui si fonda è inadeguato e bisogna cambiarlo. Per la Harvard Business Review, è tempo che si abbandoni la visione dei mercati come campi di battaglia (e, aggiungo io, dei target group come territori da conquistare… bombardandoli). Per ottenere una più contemporanea visione del marketing come creazione condivisa con la community dei consumatori si può cominciare cambiando la cornice linguistica di riferimento dei manager, fondata sui concetti di attacco, difesa, conquista: il marketing dovrebbe trasformarsi da guerra a danza (e da strategia a coreografia). Le domande da porsi riguardano le connessioni sociali, filosofiche, funzionali tra brand e le persone, e il cambiamento gratificante che, attraverso l’interazione con il brand, le persone possono sperimentare.
APRIRE LE IMPRESE A GENTE CON ATTITUDINI FUORI DALLA NORMA. Ancora l’Economist: in passato le aziende cercavano persone “regolari”, tanto da combattere contro la genialità. Oggi succede l’opposto. Un buon programmatore di computer ha caratteristiche analoghe a quelle di un individuo affetto da sindrome di Asperger (una disturbo della socializzazione, imparentato con l’autismo): è interessato in modo ossessivo ai dettagli, gli piacciono i numeri e i compiti ripetitivi. Caratteristiche non troppo diverse sono valide anche nel mondo della finanza. E poi: il 35% degli imprenditori è dislessico (lo è solo il 10% della popolazione e l’1% dei manager).
E ancora: chi soffre di sindrome da deficit di attenzione (ADD) può essere un pessimo impiegato ma un imprenditore innovativo: è sì disorganizzato e procrastinatore, ma è anche creativo e capace di assumersi rischi. La presenza di ADD tra gli imprenditori è sestupla a quella registrata mediamente.
Come è evidente, l’inserimento di persone “speciali” nell’impresa può creare qualche problema di relazione, ed è opportuna la presenza di qualche buon manager vecchia maniera. Del resto, aggiungo io, abbiamo anche qui detto molte volte che i gruppi creativi funzionano tanto meglio quanto più sono vari. E, oggi, sembra che nessuna organizzazione possa prosperare senza una dose di diversità.
COGLIERE LE OPPORTUNITÀ DELLA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. La prima rivoluzione industriale si verifica a fine Settecendo, con l’avvento dei telai a vapore. La seconda avviene ai primi del Novecento, con la catena di montaggio fordista. Ora la produzione cambia di nuovo: merito dei robot, dei nuovi software, dei nuovi materiali, più leggeri e performanti, e delle stampanti 3D, che nei prossimi anni permetteranno di produrre non solo oggetti piccoli, ma anche roba grossa e complessa.
Tutto questo consente di personalizzare quanto prima veniva prodotto in serie, cambia la geografia stessa della produzione accrescendo la possibilità di stabilire contatti costanti via web tra progettisti, ricercatori e impresa, accelera i tempi.
Le fabbriche robotizzate saranno silenziose, e gli esseri umani si sposteranno sempre più dai capannoni agli uffici. Una interessante conseguenza: trasferirsi nei paesi dove la manodopera costa meno potrebbe, nel medio periodo, risultare inutile. Il fenomeno per particolari settori si sta già verificando: i produttori riportano le catene di produzione nei loro paesi non perché in Oriente gli stipendi iniziano a costare di più, ma perché le società vogliono essere più vicine ai loro clienti per soddisfare le loro richieste di alta personalizzazione.
La terza rivoluzione industriale può portare molti vantaggi, ma solo se i governi riescono a coglierne le opportunità e a favorirla.

8 risposte

  1. Leggendo di persone con attitudini fuori dalla norma mi ha spinto a ri-leggere questo articolo di Giovanni Fava il cui riferimento avevo trovato anni fa su Italians di Beppe Severgnini: The Cult Of Mediocrity. L’articolo è del 2005. Cito: “Why is talent so threatening? Because it is frequently associated with independent thinking, which undermines the power structure. And even when a talented researcher has apparently accepted to sell his or her independence, some uncertainties remain, while mediocrity assures life- long commitment.” Ecco i link: Lettera su Italians http://tinyurl.com/bunknx3 Articolo di Giovanni Fava http://tinyurl.com/18r

  2. Nell’elenco dei siti per l’impresa ne manca almeno uno: http://www.overquaranta.it Contro la crisi mettiamo insieme manager e PMI italiane. Si esce da una crisi strutturale con risposte di medio e lungo termine. Dobbiamo aggiungere allo spirito e al coraggio imprenditoriale, il metodo e la visione dei manager. Divulgativo, in italiano. 🙂

  3. Grazie a Paolo Nobile. L’articolo sulla mediocrità è illuminante. Grazie per averlo segnalato. Mi vien voglia di aggiungere che il discorso può essere facilmente esteso ad altri ambiti: l’impresa, la politica… :(( Laura Grazioli ci segnala un grazioso video che prova a dar conto, in modo lieve, delle intersezioni emiliano-romagnole tra impresa, cultura e ricerca. Lo linko volentieri qui.

  4. Testo e commenti mi hanno fatto riflettere sul concetto di “norma” e “fuori dalla norma”. Mi viene in mente una frase che amo particolarmente e che destabilizza tutte le “norme” e tutti i “normali”: La verità è in fondo al dubbio. Cosa c’è di più trasgressivo, di più ribelle, di più democratico, di più stimolante, di più creativo del dubbio? Esploratori, inventori, filosofi, creativi, non germogliano forse proprio dai loro stessi dubbi? Il suo opposto “la certezza” porta dritto a tutti gli autoritarismi, a tutte le miopie, a tutte le sopraffazioni, a tutti i disastri. Evviva il dubbio, madre (padre) di tutte le certezze-incerte, grazie al quale possiamo evolvere, cambiare, correggere gli errori, superare il noi stesso che eravamo ieri…!

  5. Sul terzo punto mi è venuto in mente Mc Luhan, che nel 1962 (“Understanding media”)scriveva quanto l’automazione avrebbe cambiato il ruolo dell’apprendimento: “gli schemi sociali e didattici insiti nell’automazione sono quelli del lavoro indipendente e dell’autonomia artistica. La paura dell’automazione come minaccia di uniformità su scala mondiale non è che la proiezione nel futuro di standardizzazioni e specializzazioni meccaniche che appartengono ormai al passato”… Sul primo punto, mi chiedo: in che senso “la complessità è silent killer dei mercati maturi”? che valore si dà quindi alla parola complessità?

  6. Proposta come al solito assai ricca, positivamente difficile scegliere una parte delle “annotazioni e riflessioni” che ha “istigato”…Auspicare una rivoluzione copernicana del linguaggio manageriale in direzione “coreografica” con l’abbandono del plumbeo approccio cognitivo di stampo bellico klausewitziano è sfida coraggiosa, e forse proprio per questo realizzabile, soprattutto se a raccogliere l’appello saranno le donne, le tante, anche se ancora poche in proporzione, che, occupando posizioni aziendali di rilievo, possano guidare la transizione a un nuovo paradigma dell’autorevolezza e della persuasione, relegando definitamente in cantina il modello dell’uomo che non deve chiedere mai sia in veste di dirigente che in quella di consumatore. E speriamo che a dare una mano nella giusta direzione siano davvero pure i nostri amici robot, a loro volta e fortunatamente un po’ diversi e più promettenti rispetto a quelli “genetici e golemiani” immaginati dal buon Karel Čapek, che per coniare la parola Robot come nome proprio attinse al lessico connesso all’idea di un lavoro faticoso e forse anche della servitù della gleba radicata nella cultura slava. Se l’ingegno umano saprà imprimere alla terza rivoluzione industriale una ulteriore svolta concettuale per allontanare definitivamente la lingua del lavoro da quella della schiavitù o della delocalizzazione e accostarla sempre più a quella della creatività, allora converrà deporre ogni tentazione luddista e attendere le gesta eroiche dei nostri robot con impaziente curiosità.

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