De Mauro: Italia dealfabetizzata

Italia dealfabetizzata, ma l’italiano sta bene. Lo dice Tullio De Mauro

Ferrara, Festival di Internazionale. A sentire Tullio De Mauro c’è un sacco di gente. Sedersi, non se ne parla nemmeno. Circumnavigo il mucchio assiepato sul fondo del grande cortile della Biblioteca Ariostea, mi infilo tra le sedie e mi accomodo serenamente a gambe incrociate sul lastricato non esattamente tiepido, tutta contenta perché sono in mezzo a un un bel po’ di gggiovani. Riesco perfino a scarabocchiare degli appunti. Il problema vero, poi, è decifrarli. Questo che leggete è quanto sono riuscita a fare.

Un’Italia dealfabetizzata. Nel nostro paese l’uso dell’italiano si è diffuso nel secondo dopoguerra. Ormai il 90% degli italiani usa correntemente la lingua italiana: nel 1974 era il 25%. Oggi il 44% degli italiani alterna lingua nazionale e dialetto.
Il problema vero è la dealfabetizzazione: una parte molto consistente dei nostri concittadini oggi appare disorientata, incapace di muoversi in modo consapevole nel mondo moderno.

Una scuola fatta per le élite. Il nostro sistema scolastico viene  progettato nei primi anni del secolo scorso (1923-25) per le future classi dirigenti di un paese analfabeta: nella scuola gentiliana si trovano a proprio agio i ragazzi che a casa hanno libri, discussioni intelligenti, famiglie acculturate, supporto, e che arrivano in aula già dotati di un bagaglio di conoscenze. Insomma, è – come denuncia don Milani in Lettera a una professoressa – una scuola perfetta per Pierino del dottore.

Una scuola (in teoria) per tutti. A partire dal secondo dopoguerra, e già prima della riforma che nel 1962 istituisce la media unica, l’accesso all’istruzione cresce in maniera sostanziale, e non coinvolge più solo i ragazzi della buona borghesia (vi ricordate Contessa di Paolo Pietrangeli? “Anche l’operaio vuole il figlio dottore”).
La riforma che nel 1962 istituisce la scuola media unica parte a fatica: il PCI, che non gradisce l’innalzamento dell’obbligo scolastico, vota contro. Gli insegnanti non sono preparati al compito di accogliere tutti i ragazzini, e anche quelli delle classi più disagiate. Solo negli anni ’70 le cose cominciano a migliorare, ma…
…ma il problema si sposta alle medie superiori. Prima, al liceo andava il 6-7% dei ragazzi. Poi le percentuali crescono drammaticamente e la scuola non riesce ad adeguarsi. Gelmini è la prima che, peraltro con diversi decenni di ritardo e senza risultati significativi, prova a varare alcuni provvedimenti intesi a riallineare l’offerta scolastica superiore ai profili e ai bisogni degli studenti. Ma per incidere sulla struttura profonda dell’offerta formativa sono necessarie una visione del passato e del futuro della scuola e la consapevolezza di tutte le implicazioni di ogni scelta.

L’istruzione non garantita. Oggi alle superiori si iscrive il 90% degli studenti. Il 75% riesce a diplomarsi. Ma, al di là dell’ottenimento del “pezzo di carta”, l’istruzione superiore non risulta garantita e i diplomati non possiedono una attrezzatura culturale sufficiente: solo il 20-30% riesce a leggere correttamente un grafico, o l’editoriale di un quotidiano. E, a proposito di Passo dopo passo, il documento renziano sulla scuola: non si tratta tanto di scrivere nuovi manuali di storia dell’arte, quanto di portare, magari, gli studenti a vedere da vicino il Colosseo (cosa che anche molti studenti romani non hanno mai fatto). L’impianto sul quale oggi si insegna e si impara nella scuola media superiore va rifatto radicalmente: gli insegnamenti disciplinari  vanno finalizzati a una formazione complessiva.

Mal comune? Perfino Corea, Finlandia, Giappone hanno consistenti percentuali di popolazione adulta dealfabetizzata. Ma i nostri numeri sono maggiori e peggiori. In questa Italia dealfabetizzata abbiamo imprenditori e dirigenti che non leggono giornali né libri (e non si vergognano – anzi: non si mettono scuorno – a dichiararlo). Il PIAAC da una parte ci dice che, qui da noi, i lavoratori adulti non trovano, sul lavoro, sollecitazioni ad apprendere cose nuove. Dall’altra, ci dice che i (pochi) laureati che vengono assunti hanno competenze sovradimensionate rispetto ai ruoli che vanno a ricoprire.

Brave ragazze. Già negli anni  ’70 le laureate leggono più libri dei laureati. In seguito il dato coinvolge anche le diplomate. E, ancora prima degli anni ‘70, sono le donne a imporsi di parlare italiano e non dialetto in famiglia, e lo fanno perché i bambini non abbiano problemi a scuola. Del resto, sono sempre le donne a curare l’apprendimento linguistico dei figli, e non a caso si dice “lingua materna”.

Du iu spik inglish? L’attuale abuso dei termini inglesi deriva dal fatto che conosciamo male l’inglese e intercettiamo soltanto alcuni dei possibili significati dei vocaboli. Non sappiamo, per esempio, che “spread” viene da “spalmare”. Noi potremmo dire “distacco”.
Anche l’abuso dell’inglese è una conseguenza della dealfabetizzazione: la causa è il non possesso di corrispondenti, e adeguati, termini italiani. Sì, certo, l’uso dell’italiano si è diffuso. Ma lo parliamo come viene viene: la lingua è cambiata poco, ma sono cambiati i parlanti (per dirla in modo più rude: oggi si fanno in sommario italiano i discorsi ignoranti che una volta si potevano fare solo in dialetto). Tra le – non molte – novità registrate di recente c’è la posposizione (hai visto chi? Hai detto cosa?).

You do speak italian. Nello Shorter Oxford Dictionary ci sono più italianismi di quanti anglismi siano registrati nel più scollacciato (nel senso di linguisticamente promiscuo) dizionario italiano. Il Guardian, recensendolo, scrive che l’Inghilterra sembra aver pesantemente risentito di una duplice invasione: prima i legionari romani di Giulio Cesare, e duemila anni dopo un’ondata di cuochi italiani (per esempio: sapevate che to manage – e anche manager –  derivano con ogni probabilità dall’italiano “maneggiare”?). Altro dato incoraggiante per la nostra lingua: gli immigrati in Italia, cinesi esclusi, sembrano essere più propensi che in qualsiasi altro paese a far sì che i propri figli parlino italiano, anche a costo di far loro abbandonare la lingua materna (e questo, però, è un male: due lingue sono meglio che una).

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20 risposte

  1. Oxford Dictionary??? Ma se la Gran Bretagna non insegna alcuna lingua straniera dal 2004, risparmiando 18 miliardi di euro l’anno! Ma se al Politecnico di Milano non vogliono insegnare più in italiano facendo perdere, tra l’altro, all’editoria italiana 6 milioni e 500 mila euro l’anno! Ma se il Ministro Stefania Giannini parla apertamente di bilinguismo anglo-italiano come fossimo un Paese occupato? Ma se ormai vengono negati ai giovani i diritti umani linguistici perché DEVE studiare in inglese persino una materia curriculare alle superiori e la Giannini sostiene che deve accadere anche alla elementari! “L’italiano sta bene”???
    No l’italiano lo stanno uccidendo! E articoli del genere fiancheggiano i suoi assassini.

    1. Riguardo l’ultima frase, mi permetto di dissentire visto che gli articoli della signora Testa, a mio parere, trasudano di amore verso la nostra lingua.
      Che l’etimologia della lingua inglese sia piena di italianismi (o più largamente, di latinismi) è fuori dubbio e non va confusa con la difusa ignoranza delle lingue straniere in GranBretagna.
      La cosa deriva dal fatto che le lingue latine sono lingue scritte mentre l’inglese è una lingua orale, e lo dimostra il rapido cambiamento della scrittura delle parole, nel tempo e nello spazio (USA ed Australia).
      Sono anch’io contro l’abuso dell’inglese e contro la sua presunta “sufficienza” rispetto le altre lingue (ritenute non necessarie), ma purtroppo devo ammettere che è utile.
      Amo dire: useful not beautiful
      (tra l’altro, 3 parole di origine latina)

      1. Mi sembra di tutta evidenza che il riferimento è a ciò che sostiene nell’articolo Tullio De Mauro. Cosa c’entra la Signora Testa?
        Per il resto lasci stare i “perché” e i “per come”. Le motivazioni per cui siamo colonizzati dall’inglese non hanno nulla a che vedere con essa. L’inglese si afferma per le “legioni di Cesare” ossia per la Volontà di Potenza statunitense subentrata a quella del Regno Unito. Il piano di dominio linguistico è stato presentato ad Harvard da stesso Churchill addirittura il 6 settembre 1943, spiegando agli studenti che gli Imperi, per come li avevano conosciuti in passato erano finiti e che ora si dovevano affermare gli Imperi della Mente; in questo nuovo contesto “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente.”

    2. La notizia che in Gran Bretagna non si insegna alcuna lingua straniera è falsa.
      Notizia del mese scorso: “From this week schools across England will teach the new, more challenging languages curriculum – including a new requirement for languages to be compulsory for children aged 7 to 11 years. This will ensure that children in England learn the languages they need to succeed in the modern world£. Fonte:
      https://www.gov.uk/government/news/18-million-training-boost-for-language-teaching

  2. Gentile Giorgio Pagano,
    sulla questione dell’inglese all’università NeU si è già ampiamente schierato, e l’ha fatto nel momento in cui la questione è sorta, cioè nel 2012:
    https://nuovoeutile.it/inglese-alluniversita-tra-sogno-e-nightmare/
    I testi usciti su NeU in quell’occasione sono stati addirittura ripresi in un libro pubblicato dall’Accademia della Crusca.
    https://nuovoeutile.it/le-voci-di-luca-fiamma-marco-walter-sandra-da-neu-alla-carta-stampata/

    Alla questione dell’itanglese NeU ha dedicato numerosi articoli, e anche una proposta concreta: una lista di termini alternativi che ha fatto il giro del web.
    https://nuovoeutile.it/lingua-italiana/
    https://nuovoeutile.it/dire_in_italiano/
    https://nuovoeutile.it/300-parole-da-dire-in-italiano/
    https://nuovoeutile.it/parole-italiane-e-inglesi/
    https://nuovoeutile.it/scivolare-sull-inglese/

    Anche alla condizione della scuola italiana NeU ha dedicato molti articoli. Sono troppi da elencare in un commento. Li trova qui:
    https://nuovoeutile.it/tag/scuola/

    Il bilinguismo, in tutto questo, c’entra poco: chi sa bene l’italiano e bene l’inglese NON parla in itanglese e anzi considera il farlo una vera cafonata. Una scelta, appunto, da dealfabetizzati.
    Il reale bilinguismo, invece, arricchisce la mente.
    https://nuovoeutile.it/bilinguismo/
    Dovremmo, invece, essere orgogliosi del fatto che l’italiano sia oggi la quarta (in precedenza la quinta) tra le seconde lingue studiate al mondo.

    Detto questo: l’idea che Tullio De Mauro (e, con tutta l’umiltà indispensabile, perfino la sottoscritta) fiancheggino gli assassini (?) dell’italiano è, forse, un po’ bizzarra. L’idea che l’italiano, in quanto lingua “assassinata”, sia “morente” è invece infondata, e tale da nuocere alla buona causa della difesa, della diffusione e della promozione della nostra ricca, affascinante, magnifica lingua nazionale.

  3. Cara Annamaria, l’italiano ha il cancro e questo cancro si si chiama “inglese” le sue metastasi lo stanno avvolgendo e soffocando a morte, così come l’inglese ha già fatto in altre nazioni dove, come in Svezia, gli studenti non sono più capaci di parlare in svedese di scienze naturali.
    Che De Mauro sostenga il falso è negli ordinamenti scolastici di Gran Bretagna e Stati Uniti paragonati a quelli italiani (oltre che implicitamente nel suo stesso articolo). Lì non solo non s’insegna obbligatoriamente nessuna lingua straniera ma i risparmi si reinvestono nella ricerca. Gli USA con 16 miliardi di dollari risparmiati nel non insegnamento della lingua straniera ci ha finanziato 1/3 della ricerca pubblica.
    Ergo, di fatto, se non c’è reciprocità, non ci sono pari opportunità, c’è asservimento, c’è illibertà.

    1. Come ho scritto sopra, l’insegnamento delle lingue straniere in Gran Bretagna è obbligatorio a partire dai 7 anni di età ed è stato potenziato.

  4. Grazie per queste riflessioni, Annamaria.
    È grazie ai tuoi spunti che sto inaugurando in classe un lavoro linguistico sulla storia dell’arte: provare a spiegare un’opera con termini sempre diversi ma esprimendo lo stesso concetto.
    Per recuperare le sfumature, la sonorità e la bellezza delle parole.

  5. Io insegno italiano, spagnolo e francese in una scuola secondaria inglese e le lingue sono ormai obbligatorie in tutte le secondarie e lo stanno diventando nelle primarie, per cui non vedo da dove vengano prese notizie secondo cui dal 2004 questo insegnamento sarebbe assente.

  6. C’è una qualche ragione non MinCulPop che costringe il Presidente del Consigolio -scusate: il Premier– a parlare di Jobs Act o di Voluntary Disclosure per Leggi italiane e per un popolo dealfabetizzato? Può essere che questo connoti “ggiovane” ma non è che denoti anche asshole?

  7. La Crusca boccia il CLIL, ma per De Mauro l’italiano gode ottima salute…

    Il CLIL (Content and Language Integrated Learning), cioè l’insegnamento in una lingua straniera – di fatto l’inglese – di una materia non linguistica (due nei licei linguistici), fa il suo debutto quest’anno nelle quinte classi dei licei e degli istituti tecnici secondo quanto previsto dai DPR n. 88 e 89 del 2010, attuativi della riforma Gelmini della scuola secondaria di secondo grado.
    La normativa non è stata modificata dai tre governi e ministri della PI (Profumo, Carrozza, Giannini) che si sono succeduti dopo l’uscita da viale Trastevere di Mariastella Gelmini, e dovrebbe essere pienamente operativa dall’anno scolastico corrente. Dovrebbe, perché le difficoltà pratiche sono note, e nel frattempo si sono levate molte voci critiche non solo sulla fattibilità del CLIL ma anche sulla sua utilità nella scuola secondaria. Voci non ascoltate dai tre ministri-rettori (di cui due di formazione tecnico-scientifica, con vasta esperienza internazionale in ambienti anglofoni e uno, la Giannini, linguista e rettore dell’università per stranieri…), ma che ora tornano con forza a farsi sentire.
    Per esempio quella dell’Accademia della Crusca, massima autorità linguistica del nostro Paese, il cui presidente Claudio Marazzini, ampiamente ripreso da Paolo Di Stefano nel supplemento domenicale ‘La lettura’ del Corriere della Sera (5 ottobre) sostiene che “Indebolire l’insegnamento disciplinare, lasciando credere che così si impara l’inglese ‘passaporto per il mondo’ è un errore grave che rischia di compromettere la competenza solida nei contenuti, quella che ha permesso tutto sommato in questi anni la cosiddetta ‘fuga o esportazione dei cervelli’. Se quei cervelli hanno trovato ospitalità altrove, non è per i loro meriti nella conoscenza dell’inglese, ma semmai per la capacità dimostrata nelle varie discipline che professavano”.
    Ci sembra che lo studioso abbia qualche ragione: quali vantaggi ci sarebbero nell’insegnare e apprendere materie come storia dell’arte o filosofia o per assurdo lo stesso italiano in inglese? Caso mai andrebbe rafforzata la lingua nazionale, anzi ‘ufficiale’ del nostro Paese, l’italiano. Numerosi studi dimostrano che il saldo possesso della lingua materna condiziona anche la qualità dell’apprendimento delle altre discipline, comprese quelle scientifiche e le stesse lingue straniere.

  8. Ecco chi ha ragione: la Gran Bretagna reintroduce la lingua straniera obbligatoriamente per tutte le scuole a partire dal settembre 2014.
    Ma lo fa dai 7 ai 14 anni soltanto. Dopo la lingua straniera non è più obbligatoria. Mentre per i nostri ragazzi invece, sempre peggio con, addirittura una materia curriculare da portare in inglese all’esame del quinquennio liceale. Questa si chiama colonizzazione e trovo assurdo che nessun intellettuale, o quasi, insorga contro questo genocidio linguistico del popolo italiano.
    https://www.gov.uk/government/publications/national-curriculum-in-england-languages-progammes-of-study

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