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Lingua italiana: le parole sono perle

Parlare bene una lingua, usando tutte le parole che servono – nette e pertinenti – vuol dire possedere e poter usare bene il proprio pensiero. E, naturalmente, saperlo esprimere e trasmettere.
Quando pensiamo, le nostre parole risuonano dentro di noi, dicono oggi gli scienziati. Parlare bene più lingue vuol dire moltiplicare le potenzialità ed essere in grado di seguire fili di pensiero diversi: una meraviglia. Peraltro, avere un vocabolario ricco e appropriato significa anche garantirsi un invecchiamento migliore (se non l’avete ancora fatto, leggetevi la sorprendente storia del Nun Study: qui la sintesi su Wikipedia. Qui un articolo sul New York Times).
Se solo riuscissimo a ricordarci di tutto questo abbastanza spesso, staremmo più attenti alle parole che adoperiamo: cercheremmo di usarle meglio e di impiegare tutte quelle che possiamo, e che servono.
Le parole sono perle.
E, lo dicevano le mamme e le nonne, le perle sono vive e vanno indossate, altrimenti invecchiano e diventano opache, ingialliscono, si spaccano.
Alle parole succede la stessa cosa. Così, ogni volta che usiamo una parola, la lucidiamo. La manteniamo viva confermando il fatto che ha un significato e che produce un senso. È questo a renderla, appunto, preziosa.

Così, per esempio, la parola schermo, che ha origini longobarde e che Dante e Petrarca usano nel senso di riparo, difesa, protezione, da una parte mantiene il suo significato (anche oggi, gli occhiali da sole fanno da schermo ai nostri occhi – e, proteggendoli, li nascondono) ma dall’altra subisce una curiosa metamorfosi e indica nuovi attrezzi che invece servono per mostrare: prima lo schermo del cinema. Poi quello della televisione, e poi quello del computer. Insomma, una parola antica e pudica, o almeno una delle sue due anime, finisce nel bel mezzo della società dello spettacolo, e poi si infila nella rivoluzione tecnologica di fine millennio, e poi si gonfia trasformandosi in multischermo o in maxischermo. Se le parole sono perle, questa è una perla bella grossa, e iridescente di significati.

…ma allora come mai diciamo slide invece di schermata? Slide in inglese vuol dire, oltre che diapositiva, anche scivolo per bambini o vetrino da microscopio: tutta roba, che, in qualche modo, c’entra con lo slittare qua e là. Perché accidenti slide ci sembra più precisa? Eppure è una delle dieci parole più usate in azienda. E l’ho sentita pronunciare “slàish” (in università, e da un prof, mica al mercato).
Per fortuna, invece, l’umile chiocciola è riuscita a dare il proprio nome al segno @ (che, lo sapevate?, ha origine italiana). Il topo, invece, non ce l’ha fatta ed è stato divorato da un più esotico mouse.

Ma il problema, forse, non sta neanche tanto nei termini inglese che si sostituiscono ai potenziali corrispondenti italiani, quanto nei termini inglesi che vengono preferiti, non so se per pigrizia o per un malinteso snobismo fintamente modernista, a termini italiani esistenti e ampiamente in uso. Ho sentito dire in tv che Renzi ha scelto “il Nazareno” (è il soprannome della direzione del PD) come location per il noto incontro con Berlusconi. Bene: qual è il problema con sede, luogo, posto, ambiente, località, indirizzo…?
E qual è il problema con revisione della spesa, o con legge sul lavoro? O con giorno delle elezioni? Perché, alla mutua, le vecchiette devono arrabattarsi coi ticket? E perché mai la Marina Italiana sente il bisogno di usare il termine cool in un manifesto per il reclutamento, si presume, di ragazzi italiani, temo non tutti anglofoni? Perché mai, invece di straparlare in itanglese sempre e comunque, non ci preoccupiamo invece di farlo in decente inglese quando serve?

E perché, oltretutto, dicendo che dovremmo continuare a parlare un buon italiano mentre impariamo decentemente l’inglese, devo anche preoccuparmi del fatto che la mia posizione possa apparire nostalgica, conservatrice e di retroguardia?
La lingua italiana è un bene comune. È un patrimonio da condividere. È la quarta più studiata al mondo. Ha un valore.
Certo che cambia e che si modifica e si modernizza. Ma, lo ripeto, come tutte le cose vive va trattata con rispetto e delicatezza e misura. Le parole sono perle: tocca a tutti noi averne cura.

Una versione più breve di questo articolo esce su internazionale.it
Sullo stesso tema potete leggere, in NeU:
Itanglese: una questione di buonsenso
300 parole da dire in italiano

Parole italiane e inglesi: una conclusione (provvisoria) in 12 punti 

21 risposte

  1. Fine anni ’80. Ho cominciato le superiori parlando di elaboratore, puntatore, disco fisso, terminale e così via. Ho finito le superiori dovendo usare le parole computer, mouse, hard disk per farmi capire e per non farmi ridere alle spalle. Eppure in aula i mitici Olivetti M24 non erano cambiati.
    Ora un termine che mi inorridisce è “scannerizzazione”, è bruttissima. E pensare che deriva da una parola musicale come “scansione”, con 2 lievi esse (emiliane nel mio caso) al posto di 3 brutali zeta.

    Vivendo all’estero, inoltre, vedo che qua le parole italiane vengono stra-usate soprattutto nei campi alimentari e moda. E qualcuno si sorprende che le stesse cose, in Italia, vengono chiamate in inglese. Un esempio: tutti i posti dove si beve vino si chiamano “vinoteca” e non wine-bar.

    1. Se fa inorridire “scannerizzazione” cose ne pensi di “scannare”? “Scannami questa dia” si diceva dal fotolitografo alle prese coi primi scanner a tamburo. Con quelli piani, da scrivania, ogni studio grafico è diventato un mattatoio dove, se qualcuno prova a dire “scansionare” viene guardato con sospetto: si capisce che è un avventizio preinformatico, poveretto!

  2. Ovviamente i nostri politici di primo piano hanno le loro responsabilità, quello che ha dato il via all’uso delle parole inglesi anche là dove non è necessario è stato Monti, gli altri (purtroppo) si adeguano e i media ripetono a pappagallo nei TG, nei programmi Tv e la gente (la maggioranza si intende) senza dargli troppo peso fa lo stesso. Abbiamo un’enorme cultura, storia e arte da salvaguardare e ne dovremmo essere fieri ma non lo facciamo. Vien fuori anche da questo un insopportabile complesso di inferiorità sel quale neanche ci rendiamo conto, che rabbia!

    1. Prima di Monti c’è stato un signore che ha introdotto in Italia il premierato. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è divenuto improvvisamente Premier.
      Non perché fosse uno dall’inglese fluente (ricordate quando avvicinò Obama per dirgli che in Italia i magistrati erano tutti comunisti?), anzi, conosce l’inglese meno di Renzi. Premier contiene, per chi conosce a malapena un po’ d’italiano e circa duemila parole del suo dialetto (sono mica tutti Meneghello di Pomo-pero) il senso di premio e di primo, per cui chi è premier primeggia e ti premia. I giornalisti tutti si sono buttati a capofitto sul termine e hanno dimenticato che in Italia il premierato non esiste. Almeno sin quando Superbone non l’introdurrà con la riforma della Costituzione.

      1. Sì, lo sapevo ma con rassegnazione vedo che anche quotidiani nazionali come la Repubblica utilizzano la parola “premier” riferendosi al presidente del consiglio. A loro chi glielo dice che il premier in Italia non esiste? Boh!

  3. Pur concordando con l’idea che dovremmo usare più parole nostre, non concordo con la proposta di usare schermata per slide. Schermata si usa già in ambito informatico con altra accezione. Slide sta per la versione elettronica del vecchio lucido (ricordate l’ets dei protettori di lucidi? ). Quindi dovremmo usare lucido, non schermata

    1. infatti schermata non c’entra, al massimo diapositiva…

      E per quanto riguarda la @, per favore … chiocciola fa ridere. L’inglese “at” è più preciso in quando fa proprio riferimento alla sua funzione (traducendo “at” con “presso” si capisce cosa vuol dire: nome (presso) dominio.suffisso).

      Insomma… d’accordo sul principio, ma ho qualche dubbio sulle singole applicazioni.

  4. Il termine “lucido” deriva da “carta da lucido”, che in realtà non è lucida ma è semitrasparente. Lucido era il cilindro metallico che serviva a spianare la carta durante la fabbricazione, per renderla liscia. La carta da lucido, utilizzata per i disegni tecnici a china eseguiti a tecnigrafo, ha la superficie liscia, al contrario di quella da “spolvero” utilizzata per le prime bozze e per gli studi iniziali.
    Credo che più che di “lucido”, che contiene l’equivoco di fondo fra trasparenza e lucentezza, si dovrebbe parlare, in caso di proiezione, di diapositiva, con il prefisso “dia” nel significato di “attraverso”.
    Se gli informatici hanno già impegnato il termine “schermata” per loro oscuri fini, noi comuni mortali potremmo parlare di videata (nel senso di “attraverso”)?

    1. Nel termine videata manca a mio avviso completamente l’idea di dinamicità. La videata è infatti per sua natura statica, la slide inveve può – il più delle volte purtroppo e inutilmente – essere animata.

      1. [quote]…ma allora come mai diciamo slide invece di schermata? Slide in inglese vuol dire, oltre che diapositiva, anche scivolo per bambini o vetrino da microscopio: tutta roba, che, in qualche modo, c’entra con lo slittare qua e là. Perché accidenti slide ci sembra più precisa?[/quote]

        ci sembra più precisa perché è la versione evoluta delle diapositive e dei famosi lucidi che si usavano prima e che venivano le prime fatte scivolare nel proiettore e i secondi messi e tolti dal piano di proiezione con appunto un effetto di “slide”. Gli stessi effetti li vediamo negli “slideshow” di immagini in cui viene applicato – aggiornato e rimodernato – l’effetto, quello che viene indicato generalmente come effetto di transizione.

  5. Scusa ma non seguo il tuo discorso. Premetto che sono traduttore qualificato che traduce solo dal francese e dall’italiano all’inglese (sono cresciuto in Canada) quindi forse mi esprimerò male in italiano, ma non capisco perché slide dovrebbe essere più precisa perché applicata a una versione più evoluta di proiettore a diapositive. Non ha senso perché in inglese si usava slide anche per il vecchio proiettore a diapositive. Nel mondo anglofono hanno semplicemente ripescato quel vecchio termine perché una presentazione Power Point ricorda moltissimo quella di una presentazione con le diapositive. Un termine viene scelto per indicare un concetto, non per essere o sembrare più moderni. Non vedo perché in italiano non si possa applicare la stessa logica e adottare la parola ‘diapositiva’. Riguardo alla tua critica che chiocciola è ridicolo, allore immagino che pensi che mouse sia altrettanto ridicolo. Tutte e due i termini evocano la loro forma. Anche in questo caso, i francesi, gli spagnoli e i tedeschi hanno tradotto mouse con topo, perché non siamo stati in grado di farlo anche noi? Nel mio lavoro troppo spesso dovendo fare ricerche terminologica a partire da termini lasciati in inglese in italiano e non fidandomi, scopro che il 90% delle volte esiste l’equivalente in italiano. Ma purtroppo il cliente risponde quasi sempre, è un termine tecnico e va lasciato in inglese!

    1. @alberto
      forse non mi sono espresso bene, diapositiva va benone, schermata è completamente fuori luogo.

      Per la “chiocciola” invece non sono d’accordo, ma non perché sia un termine tecnico, ma perché ha molto più senso ed è più esplicativo (si capisce a cosa serve). ciao

      1. @Davide,

        va bene, capito. Però riguardo alla chiocciola, a rigor di logica hai ragione. Però anche nel caso del topo 🙂 bisognerebbe seguire la stessa logica. Il vecchio termine, puntatore, che Roberto Iunco nel suo primo commento mi ha insegnato, è molto più logico perché esplicativo appunto. Ma siccome sono piccoli dettagli che hanno colorito un po’ il linguaggio informatico senza travolgerne la comprensione non credo sia gravissimo mantenere il termine chiocciola. Anche se trovo davvero ridicolo che siamo l’unico Paese ad avere mantenuto il termine mouse che a suo tempo è stato scelto perché la sua forma ricordava appunto quel simpatico roditore e non la sua funziona quando si abrebbe potuto benissimo usare il suo equivalente italiano in una delle sue tante declinazioni possibili (diminutivi etc.). Meglio ancora sarebbe stato se avessimo mantenuto il termine già esistente e più opportuno di puntatore. Cheers 🙂

        1. @alberto guarda, per le altre lingue (francese e tedesco che hai citato) non saprei dirti, forse hai ragione, ma per l’inglese mi viene questa riflessione:

          c’è un diverso senso o gusto delle parole; termini che a noi suonerebbero un po’ goffi, fanno la loro figura in inglese. Chiameresti mai un insieme integrato di programmi (la famosa “suite”) per ufficio “Ufficio”? O un sistema di gesione del delle finestre (in senso informatico) “Finestre”? O un programma di videoscrittura “Parola”? Difficile, credo.
          Ecco penso che la stessa cosa valga per “mouse” che forse agli inglesi non suscita nessuna perplessità, mentre sono convinto che non sia la stessa cosa per “topo”.
          Magari sbaglio, ovviamente, ma ho sempre avuto questa sensazione.
          Detto questo, continuo a ritenere che l’uso di equivalenti italiani sia preferibile, come si diceva sopra! 🙂

  6. Condivido pienamente il contenuto dell’articolo. Mai come negli ultimi tempi ho dovuto, ahimè, constatare l’inutile quanto dannoso incremento di termini inglesi nel vocabolario italiano. Sono interprete e proprio dal mio amore per le lingue origina e cresce ogni giorno il gusto per la lingua italiana. Personalmente, combatto questa sorta di scriteriata “subordinazione” linguistica che, troppo spesso e troppo volentieri, porta i miei interlocutori a infarcire di inglesismi superflui ogni loro discorso. E’ triste, irritante, frustrante, assistere al progressivo impoverimento della lingua italiana costretta ad un assurdo appiattimento in nome di opinabili entusiasmi generazionali. Combatto, sì, opponendo termini italiani a vocaboli inglesi ogniqualvolta mi sia, nel contesto, possibile.
    Sono, peraltro, sbigottita dal fatto che, proprio in ambito politico, i maggiori fautori dell’”inglesismo-ad-ogni-costo” siano quegli stessi politici che, apparentemente, meno di altri “masticano” la lingua inglese.

  7. «La parola straniera fa impressione, tanto più quanto meno viene compresa; proprio perché non viene compresa fuorvia, stordisce, soverchia il pensiero».

    VIKTOR KLEMPERER, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Roma 2008; p. 303

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