Nuovo e utile

La lingua italiana, così bella da spiccare

Giovanni Galetta mi invia un ricordo esilarante.  Ve lo ripropongo.
Corso di marketing in Bocconi. Fra i tanti partecipanti ce n’è uno, il direttore commerciale di un’azienda di rivestimenti, che trascrive avidamente (e poi ripete a bassa voce) tutti i termini anglosassoni, brand strategy, feedback, customer care… con l’ovvio intento di sfoggiarli poi coi suoi venditori.
Quando coglie il termine ambaradan, usato dal docente milanese per indicare un generico “tutto”, gli si accende chissà quale lampadina nella testa: interrompe la lezione ed esige spiegazioni dettagliate senza cogliere, poveretto, i mormorii ironici che riempirono l’aula né l’acidità del docente, che gli consiglia di non confondere ambaradan con ambarabà (quello che poi ciccì coccò, tre civette sul comò).
Lui non fa una piega: annuisce e trascrive tutto.

Per inciso: brand strategy = strategia di marca, feedback = commento, opinione, risposta, riscontro o (più tecnicamente) retroazione, customer care = assistenza clienti.
Ho sempre avuto il sospetto che i massimi tifosi dei termini inglesi sparsi a caso nel discorso, come petali di rose sulla strada della processione, fossero persone che non sanno l’inglese.
Così, la parola esotica assume una potenza misteriosa, che trascende il suo significato, e per esempio meeting appare infinitamente più moderno, tecnologico ed efficace di una qualsiasi riunione nostrana.

Giuseppe Antonelli, invece, condivide (grazie!) l’articolo di Gianni Mura, che se la piglia con il profluvio di spending review, red carpet e jobs act sui quotidiani, e poi segnala la recente richiesta dell’Accademia della Crusca di considerare l’italiano lingua costituzionale (qui quel che ne dice il Corriere della Sera. Qui Il Venerdì di Repubblica).
Chiariamoci: non ce l’ho su con l’inglese, né con alcuna altra lingua straniera. Ho anche scritto di recente un elogio sfegatato dell’essere bilingui. Non ce l’ho su nemmeno con chi non parla inglese alla perfezione: anch’io lo mastico peggio di quanto vorrei e mi porto a casa di buon grado i miei strafalcioni sia quando parlo, sia quando scrivo.
Infine, non ce l’ho su neanche coi molti termini inglesi, da toast a mouse, che usiamo correntemente: del resto anche l’inglese (guardate questo bell’articolo della Treccani) comprende molte più parole di origine italiana di quanto possiamo immaginare.
Quella che mi sembra deplorevole è la debordante marmellata di termini inglesi sparsi del tutto a capocchia e inutilmente (essendo vivi, vegeti e precisi i corrispondenti termini nella nostra lingua) all’interno di un discorso in italiano.

Tra l’altro: segnalo che la deleteria idea di tenere tutti (tutti!) i corsi di laurea specialistica in inglese potrebbe avere la conseguenza di azzerare, dopo un po’, l’impiego e la memoria di una quantità di termini specialistici in italiano. Così, potremmo avere ingegneri civili che, nei cantieri, discutono (auguri!) coi muratori bergamaschi o albanesi della posa in opera di un joist perché non sanno dire “putrella”, e non hanno idea di quale sia la differenza italiana tra joist, balk e cantilever. Se no, chirurghi che non sanno che cosa domandare in italiano allo strumentista. E magari linguisti che usano termini inglesi a proposito della lingua italiana medesima. La questione è, a oggi, ancora aperta.

Infine: sono stata poche settimane fa a New York, che letteralmente trabocca di parole italiane, E che adesso ha un sindaco con un nome italiano, il quale parla (bene) in italiano, e ha un figlio che si chiama Dante. Aggiungo che la lingua italiana è non solo (come seconda lingua) la sesta al mondo tra le più parlate, ma è anche la quarta lingua più studiata. Tutti buoni motivi per cui, se uno nasce, studia, lavora, vive e respira in Italia, è buono e giusto, oibò, che spicchi l’italiano.
Lingua la quale, di suo, ha tutti i numeri e le qualità per spiccare.

43 risposte

  1. E’ un’atteggiamento che fa parte della superficialità che ha ormai preso i connotati di un positivo e irrinunciabile pragmatismo. Va osteggiato ma bisogna fare due importanti distinzioni. Anzitutto l’atteggiamento museale e amante della citazione del latinetto, diffuso tra burocrati, insegnanti e simili è una delle palle al piede della cultura nazionale italiana. Inoltre il prof. Azzone, che propone l’insegnamento in inglese al Politecnico non si può certo dire superficiale, spero abbia chiesto 100 per ottenere 50.

  2. All’esame di composizione architettonica c’è uno studente che continua a parlare di absaid. Solo alla quarta citazione e dal contesto la docente capisce che si sta parlando di abside. La giornalista del tiggitrè che legge ad alta voce i quotidiani del mattino si trova davanti un sine die ed ecco che lo fa diventare saindàin. (Però è più divertente il giornalista del tg regione che, in collegamento da Aosta, dice che “allora il poliziotto ha estratto la pistola dalla fontina”). Ora ci sono questi giovani che sono senza giobb che però a minuti si fa l’accht, che mi ricorda l’emigrato siciliano che a Chicago guidava i trachi e che in seguito -almeno lui ha combinato qualcosa- ha fondato la Traco.

    1. Sennonché Traco è l’acronimo di Tra(sporto) Co(lli): «Nel 1964 viene fondata a Torino la Trasporto Colli – Tra.Co. S.p.A. da Luigi Giribaldi.» (fonte: Wikipedia). Del resto, l’adattamento fono-morfologico di «truck», secondo la pronuncia di un italiano del Sud, dovrebbe essere «tracco» non «traco».

    1. Concordo: ci si lamenta sempre degli anglicismi, che comunque sono subito riconoscibili, e si presta invece poca attenzione a calchi e falsi amici che invece distorcono la comunicazione e la rendono ambigua in modo molto più subdolo. Un “visionario”, ad esempio, è un paranoico vittima di allucinazioni visive o chi ha una comprensione distorta della realtà e propone soluzioni irrealizzabili (accezioni italiane) oppure chi ha le idee chiare sul futuro e propone soluzioni creative (accezioni dell’inglese “visionary”)?

      In ogni caso anch’io sono perplessa dall’uso alquanto disinvolto di anglicismi nel lessico comune per descrivere concetti generici perché penso penalizzino la comunicazione. Credo che entrino in gioco una certa pigrizia da parte di chi comunica, uno sfoggio della propria presunta conoscenza dell’inglese (spesso invece non del tutto adeguata) e, in generale, anche una scarsa sensibilità per le capacità espressive della propria lingua.

      Sono invece convinta che in molti linguaggi speciali (linguaggi tecnico-scientifici e settoriali) ci siano casi in cui i prestiti siano la scelta più efficace, grazie al valore monosemico, alla concisione e alla riconoscibilità “globale” del termine (la cosiddetta mutua intelligibilità: in questo senso l’inglese ha il ruolo che aveva una volta il latino).

  3. Condivido in tutto. Ancorché l’inglese sia la lingua da conoscere e da parlare non significa che dobbiamo rinunciare alla nostra bella lingua. Dire “spending review” pare faccia meno male che dire “revisione della spesa” o peggio ancora “taglio della spesa”. Come accade spesso nel nostro Paese, le parole pesano – nel comune sentire – più dei fatti. Bisogna far attenzione non tanto a quello che si fa, ma a quello che si dice e, soprattutto, a come lo si dice.

  4. Coltiviamola con amore questa nostra risorsa che, insieme al cibo e al paesaggio, fa impazzire il mondo.

    A Tokio i giapponesi mangiano italiano, giuro, ho visto i ristoranti italiani pieni.
    In nostro onore hanno diffuso musica italiana degli anni sessanta.

    Che dire?

    Onore alla bellezza, oggi, dopo l’oscar, ancora di più (*_))

    1. Mah, a me “media sociali” non dispiacerebbe.
      Ricordando, già che ci siamo, che “media” è plurale, e che al singolare farebbe “medium”.
      Sarò antiquata, ma tutte le volte che sento parlare di “un bel mìdia”, “un mìdia efficace” eccetera mi prende un vago mal di mare.

  5. Due note:
    1) Merlo, giornalista di Repubblica, definisce quelli utilizzano termini inglesi pur potendo impiegare parole italiane come “cretini cognitivi”. Mai stato più d’accordo!
    2) Mi dicono che al Politecnico di Milano i docenti in informatica usano il termine “calcolatore” per definire qualsiasi strumento, portatile o meno, che svolga le funzioni di un “computer”. Eccessivo? In Francia, come si sa, il “computer” è l’Ordinateur, termine francese. Mi sembra sia proprio il caso di dire “Evviva la Francia”.

  6. Sono convintissima, come anche tu scrivi, che a chi piace condire il proprio linguaggio con termini inglesi non conosca l’inglese, e nemmeno l’italiano, e che sia abbindolato e contagiato da questa “moda” chi ugualmente è carente in entrambe le lingue. Riflettiamo…

    Ottimo articolo!

  7. Non condivido del tutto. Da professionista del settore posso dire che l’uso dei prestiti da un’altra lingua, per fastidiosi che possano suonare, non sono in realtà pericolosi per la salute di una lingua. Sono anzi un segno che la lingua è vitale, e che fa le sue prove di adattamento a nuove realtà. La maggioranza dei prestiti segnalati scompaiono nel giro di poco, mentre altri vanno a ingrandire il vocabolario italiano. Giustamente l’articolo menziona come la lingua che oggi è egemone è colma di prestiti da tutte le lingue e le culture con cui è entrata in contatto. Su due cose sono d’accordo: una, che è parimenti necessario coltivare un’attitudine alla ricchezza lessicale, e alla conoscenza approfondita del nostro meraviglioso vocabolario. In secondo luogo, voglio unirmi al monito di stare attenti ai tentativi – quelli sì veramente pericolosi – di introdurre la lingua inglese come lingua dell’insegnamento, sia pure superiore. Mossa pericolosissima, perché apre la strada ad un’erosione di contesti d’uso che prima o poi conduce all’abbandono di una lingua in favore di un’altra, ritenuta “più adatta” ad esprimere certi concetti. In Africa è successo proprio questo.

    1. La seconda parte del tuo intervento mi terrorizza. Tra i tanti primati negativi che ci contraddistinguono nelle graduatorie internazionali, purtroppo, c’è anche quello per il quale noi italiani risultiamo essere tra i cittadini europei meno scolarizzati (e dunque più provinciali). Sulla lingua sono dell’idea che l’italiano debba voracemente “cannibalizzare”, fare propri tutti i termini “innovativi” delle altre lingue. E per innovativo intendo i termini scientifici e/o tecnologici, fino a quel momento inesistenti nella nostra lingua. Diversamente si rischia un isolamento culturale. Qualcosa di simile è avvenuto (avviene) nella musica leggera: a forza di vantare il “melodico italiano” ci siamo “ghettizzati” musicalmente e marchiamo un notevole ritardo rispetto al “sound” del momento. Spero che l’Italia sia percepita all’estero come il Paese che “conserva” le antichità e non come quello che vive nell’antichità.

      1. ” intendo i termini scientifici e/o tecnologici, fino a quel momento inesistenti nella nostra lingua”.
        Molti di questi termini esistono già – solo che sono dimenticati dalla maggioranza degli addetti ai lavori che (oltre a non brillare spesso per sensibilità linguistica) sono assuefatti alla letteratura inglese e ne scimmiottano il lessico – altri si possono creare ex-novo come fanno i francesi. Per esempio, nel XIX secolo non ci furono problemi ad inventare “ferrovia”, calco del tedesco Eisenbahn, per dare un nome alle nuove creazioni tecniche. Non siamo certo rimasti indietro perché abbiamo cambiato nome!
        Lo stesso si può fare oggi. Tuttavia per creare un nome nuovo per un concetto nuovo bisogna essere in grado di averlo compreso ed assimilato, operazione al si sopra della capacità di gran parte dei tecnici (e di tutti i dirigenti cui devono rendere conto).
        PS: l’esempio della musica – in particolar ela musica leggera – non è calzante, perché nella musica non esiste un vero “progresso” né un vero “rimanere indietro”. Tutto dipende dal gusto degli acquirenti e dalle mode del momento. Non può dire infatti che una canzone del 2018 sia migliore di una canzone del 1950, mentre qualunque parametro consideri un calcolatore o una nave o un aereo del 2018 sono indubbiamente migliori (per prestazioni ecc..) di un calcolatore, nave o aereo del 1950.

  8. @claudia, non sono d’accordo, secondo me dimostra esattamente il contrario, ossia la difficoltà della lingua ad affrontare le novità, e la sudditanza di alcune lingue – e paesi o aree geopolitiche – rispetto ad altre. Esattamente come la presenza di parole italiane nella lingua inglese (immagino si faccia riferimento ad es alla musica: piano, forte, allegro, coda…) indica la predominanza della cultura italiana nel momento in cui il linguaggio e la terminologia musicali si stavano sviluppando e consolidando.

    In Francia e in Spagna non si vergognano di tradurre “mouse”, perché dovremmo vergognarci noi? Topo fa ridere? Un po’ sì, è vero, ma non dimentichiamoci che il sistema operativo di maggior diffusione si chiama Finestre! Se non si vergognano loro… 😉

    Per altro verso invece capisco che usare termini in altra lingua li renda “più tecnici” ossia li contestualizzi in un ambito ben preciso, e si riesca a capirsi più velocemente. Ad esempio “ricevere un feedback”, in alcuni contesti, è meno ambiguo di “ricevere commenti, opinioni, risposte, riscontri o (più tecnicamente) retroazioni”.
    Non è così per tutti: assistenza clienti, ad esempio, è chiarissimo anche in italiano, credo.

  9. Non dimentichiamo poi che le parole italiane in inglese, fatto salvo per il cibo, rappresentano tutte cose del passato: il linguaggio della musica classica sarà pure italiano, ma la musica classica è la musica del passato, oggi c’è il rock, il rap, il pop il punk, la house, dov’è l’italiano nella lingua corrente della musica?
    Quindi smettiamola di consolarci con questi panegirici. L’inglese non si può sentire assediato dall’italiano, perché le parole italiane denominano tutte cose del passato (una lingua morta, insomma!), mentre da noi le parole inglesi, dominano le cose che rappresentano il presente: il business, il computer, lo sport, il premier, la supercar. Chiedetevi: quante parole italiane sente (e usa) un americano quotidianamente e quante invece ne sentiamo e usiamo noi di inglesi quotidianamente? Non c’è paragone; se vogliamo salvare la nostra lingua e la nostra identità, dobbiamo ri-iniziare ad usare parole italiane per denominare le cose di tutti i giorni (le cose del presente), a inventarne delle nuove e riprendere ad adattarle come si faceva una volta. Molti dicono che suonerebbe ridicolo, ma una parola suona ridicola solo quando non ci sei abituato: cosa c’è di meno ridicolo nell’entrare in un negozio di informatica chiedendo un ‘topo’ in inglese anziché in italiano, perché è quello che in fondo fai quando dici mouse? e se non si sente ridicolo l’inglese che entra chiedendo nella propria lingua un topo in un negozio di informatica, perché mai dovremmo sentirci tali noi?

  10. Giusto rimanere al passo ed integrare nuovi termini attraverso prestiti, calchi o neologismi, ma senza esagerare e tenendo conto del contesto e a chi ci rivolgiamo.
    L’impressione e’ che, specialmente in alcuni ambiti, si faccia ricorso a termini “esteri” nel tentativo di mascherare il contesto vero … E allora i tagli diventano “spending review”, le industrie che scorporano rami d’azienda fanno “spin off”, il problema della occupazione diventa “jobs act”, ecc… Ma gli esodati sono sempre esodati …. i cassa integrati sono sempre cassa integrati … i senza lavoro sono comunque disoccupati e magari anche bamboccioni o svogliati … e coloro che ancora una volta dovranno pagare il conto saranno sempre e soltanto “i soliti noti” … Perche’ non chiamarci VIP allora???

    1. l’inglese oggi viene usato come il “latinorum” dell’azzeccagarbugli manzoniano per gettare fumo negli occhi a chi ascolta, impedendogli una chiara ed immediata comprensione e nello stesso tempo rimarcando la differenza tra la classe dirigente “che sa” dagli altri.

  11. Giusto rimanere al passo ed integrare nuovi termini attraverso prestiti, calchi o neologismi, ma senza esagerare e tenendo conto del contesto e a chi ci rivolgiamo.
    L’impressione e’ che, specialmente in alcuni ambiti, si faccia ricorso a termini “esteri” nel tentativo di mascherare il contesto vero … E allora i tagli diventano “spending review”, le industrie che scorporano rami d’azienda fanno “spin off”, il problema della occupazione diventa “jobs act”, ecc… Ma gli esodati sono sempre esodati …. i cassa integrati sono sempre cassa integrati … i senza lavoro sono comunque disoccupati e magari anche bamboccioni o svogliati … e coloro che ancora una volta dovranno pagare il conto saranno sempre e soltanto “i soliti noti” … Perche’ non chiamarli VIP ??

  12. “Sorry” per i due “post” (ora tre)… le mie “skills” con il iPad sono “base level”, ma credo di avere un “bug” nel “software” infatti, navigando “online”, iPad spesso “crasha” e mi ritrovo “offline”…
    Dovrò eseguire il “download” della nuova “release” del “sotware” e fare l’“update”.

    … cioè:

    Chiedo scusa per i due commenti (ora tre) … le mie competenze con iPad sono minime, ma credo di avere un baco nel programma infatti, navigando in rete, iPad spesso si blocca e mi ritrovo scollegato.
    Dovrò scaricare la nuova versione del programma e fare l’aggiornamento.

  13. Son d´accordo quasi su tutto, tranne sul fatto dell´insegnamento in inglese alla laurea specialistica.
    Risiedo all´estero da 11 ani oramai e vedo che i neolaureati italiani hanno una buona preparazione, in media, ma una pessima conoscenza della lingua inglese.
    Obbligarli a studiare in inglese li aiuterebbe a sprovincializzarsi. E poi diciamocelo: se si han superato gli esami del triennio si suppone che i nomi degli strumenti in italiano giá li sappiano.

    1. Secondo me invece è proprio quello il primo rischio: sradicare l’italiano dall’insegnamento e quindi dall’uso tecnico, con il rischio di accrescere un utilizzo dei termini tecnici straneire solo per sembrare più professionali, più moderni, più performanti.
      Le lauree in inglese andrebbero bene in una realtà che appunto non ha il problema dell’assedio dei forestierismo come ha oggi l’italiano, il problema semmai è migliare la conoscenza delle lingue nelle scuole inferiori, non all’università dove non serve a niente se uno non sa già le lingue.

  14. Un ricordo commosso al convegno milanese “How To Be A Copywriter Today”… sì, tutti alti/bassi.
    L

  15. Sono osservazioni un po’ consolatorie di chi usa una lingua in declino di un paese in declino. L’italiano è destinato a diventare un pidgin italo-inglese. E d’altra parte tutte le lingue continuano ad evolvere e modificarsi, anche l’onnipotente inglese. Solo le lingue morte restano immutabili e perfette (o quasi perfette). Tornando all’italiano per esempio io trovo orrenda la moderna abitudine di cristallizzare gli articoli dei titoli dei film e dei libri, in una specie di spagnolo maccheronico (“de La Grande Bellezza”… un tempo nessuno avrebbe mai scritto il teatro “de La Scala”, oggi invece c’è persino chi scrive “de La Smorfia”, “a La trattoria di Beppe” :-), però la tendenza è probabilmente inarrestabile.

  16. Non credo che la lingua italiana sia in declino o rischi di scomparire a breve.

    Credo che la lingua italiana sia viva a vivace e si evolverà come ha sempre fatto, assorbendo e facendo propri foresterismi vari (inglesi, ma non solo) attraverso i tanti processi che le hanno consentito di arrivare fino ai giorni nostri.

    Certo, entreranno nuovi termini, ma questi termini diventeranno parte integrante della lingua italiana.

    Del resto l’italiano che parliamo oggi non è lo stesso che parlavano i nostri nonni e non è lo stesso che parleranno i nostri nipoti.

    Vero che molti termini inglesi la condizionano (ma anche francesi e spagnoli) e, se oggi “click” diventa “cliccare” o “out-law” diventa “fuori-legge”, molti anni fa “eisen-bahn” diventò “ferrovia”, ma ancora prima “qahve” diventò “caffè” e … “albicocca” …

  17. Riporto un dato, appreso nei giorni scorsi, che in principio mi ha un po’ sorpreso: dalle ultime stime pare che, delle diecimila lingue parlate negli anni ’50, ne siano rimaste circa cinquemila oggi …

    Qui invece si parla di circa seimila: http://host.uniroma3.it/docenti/svolacchia/5.pdf, da cui un estratto:
    “Per contrastare la tendenza alla scomparsa delle lingue, che va avanti dal neolitico, invece, non sembrano efficaci le politiche di conservazionismo linguistico: l’unica strategia realistica sembra il plurilinguismo, che non rifiuta, ma nemmeno accetta passivamente, le asimmetrie sociali tra lingue.”

    Però, se come sembra a scomparire sono stati soprattutto dialetti, il dato assume un significato reale e con un processo a senso unico (pensiamo a quanto utilizzavano il dialetto i nostri nonni e quanto lo utilizzano i nostri figli/nipoti).

    Anche il linguaggio giovanile assume un aspetto interessante, specialmente se, come in Francia, diventa una lingua a sé come il Verlan: http://it.wikipedia.org/wiki/Verlan

    Purtroppo (o per fortuna) NON esiste una LINGUA ITALIANA “unica”, parlata allo stesso modo da tutti, ma esistono differenti “livelli” con variazioni anche notevoli; si va infatti da un italiano colto ad un italiano informale (o gergale), passando per un italiano … STANDARD.

    Ne ho accennato brevemente qui http://wp.me/pYL2M-cH

  18. Credo che si debba distinguere tra l’uso gratuito di parole inglesi (penso al giornalismo, soprattutto in campi come la moda e il design) e un uso, purtroppo, “necessario”. Recentemente ho lavorato per un’azienda che si occupa di digital marketing (appunto), settore in cui i termini specifici fanno ormai parte di un linguaggio specialistico che, se tradotto, viene percepito come poco professionale o addirittura non viene compreso. Insomma, per imporre “topo” invece di “mouse” ci vorrebbe non solo molto coraggio, ma anche un’altissima capacità di impatto.

  19. Apprezzo incondizionatamente la strenua difesa di esprimerci nella nostra splendida e ricca lingua, aggiungo che negli ultimi tempi mi irrita anche il continuo uso dell’”assolutamente sì, assolutamente no” sostituibile con locuzioni appropriate e meno superlative.

  20. L’articolo è molto bello ed interessante, devo ancora leggere tutto quello che è stato citato (linkato?) ma lo farò presto.
    Solo una domanda, senza alcuna polemica: scrivere per tre volte “non ce l’ho su con” era una scelta stilistica voluta?
    Lo chiedo perché a me sembra un’espressione molto colloquiale, oltre che territoriale, in qualche modo accettabile in un discorso a voce ma terribile se scritta.
    Un po’ come il nostro (sono barese) improprio uso del termine “ancora”… Qualche volta lo dico anch’io un: ma di sicuro non lo scriverei mai. 🙂

    1. Avevo scritto “qualche volta lo dico anch’io un “… ma dopo aver inviato il commento ho visto che non c’era più, censurata dalla mia stessa tastiera? 😉

  21. Credo di aver capito, per non virgolettare troppo avevo inserito la frase mancante tra due segni grafici che l’hanno resa invisibile (ne ignoro il perché)
    La riscrivo, promettendo solennemente di non intervenire più:
    “portati l’ombrello, ancora cadi”.
    Mi scuso per aver invaso questo spazio con commenti inutili.

    1. Ciao Paola. Su Neu mescolo registri diversi, e questo è chiaramente colloquiale – temo che sia anche piuttosto milanese. Ma, dopotutto, perché no?

      Per quanto riguarda la ripetizione a inizio frase: è una struttura retorica molto collaudata (anafora, direi).

  22. a me che sono ignorante non avendo studiato(non per colpa mia) mi fa incazzare chi essendo ignorante come me si riempie la bocca di parole straniere al solo scopo di dimostrare la sua superiorità culturale, quando poi non sa nemmeno lui il significato di quelle parole. naturalmente comprendo che si sono delle parole straniera che non hanno una parola corrispondente in italiano

  23. A me, italiana che vive negli States da più di 20 anni, scoprire siti italiani dove usano parole inglesi invece di parole italiane, perfettamente valide, ha dato un fastidio incredibile, anzi mi e’ sembrato ridicolo quanto (e peggio) sentire gli americani dire “bruscetta” invece di bruschetta, o “mussarell”, invece di mozzarella.
    Eppure alcune persone mi hanno detto che il mio disagio e’ dovuto al fatto che vivo lontana da tanto e non ho partecipato al cambiamento graduale… cosa possibilissima. Ma questo post, e alcuni commenti, mi hanno confermato che non sono la sola ad almeno ridacchiare a questa “debordante marmellata”.
    Grazie !
    http://www.mokysblog.com/2014/03/carosone-ce-lo-aveva-detto-nel-1956.html

  24. Ho ritrovato questa pagina di NeU nella quale avevo già inserito un mio commento.

    Ora, avendo impostato il Laboratorio di Scrittura sulle parole, mi piace aggiungere questa nota.

    Nella scuola media, come di consueto, stiamo, realizzando una pubblicazione (cartacea e digitale) che quest’anno ha questo profilo: COLLEZIONISTI DI PAROLE E SCRITTORI IN ERBA. Il lavoro è più complesso di quello che appare e comunque intende individuare un centinaio di parole (parole-cose. parole-idee, parole-baule, etc.) che nascano dall’emozione delle ragazze e dei ragazzi di prima media, che siano INCONSUETE e SONORE. Queste parole sono la “banca” a cui si attingerà per costruire giochi di parole, racconti, fumetti e quant’altro nascerà dalla loro creatività.

    Sono inciampata per caso in una pubblicazione dell’antropologa francese Francoise Héritier.
    La PARLURA mi ha aperto scenari di lavoro suggestivi per me e per gli studenti.

    Volevo condividere questo “inciampo” *_))

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