parole inglesi lingua italiana

Parole inglesi di cui potremmo serenamente fare a meno

Scegliere parole inglesi non è proprio il massimo, anche se alcuni si ostinano a pensarla così. In questo articolo trovate tre casi dei quali potremmo serenamente fare a meno.

PRIMO CASO. C’è il cortesissimo architetto milanese che, sconfortato, mi scrive: penso che l’uso del termine “caregivers” abbia superato ogni livello dapprima immaginabile. Trovo non ci sia più ritorno. Pensiamo male e parliamo peggio. Anzi, non vogliamo più capirci. 

CAREGIVER, PERCHÉ MAI? È proprio vero che il termine caregiver, di recente molto usato perché la cura familiare è diventata oggetto di una legge, non si può né leggere né sentire. È anche vero che l’algida definizione burocratese “prestatore volontario di cura”, che appare nell’articolo 3 della legge, non è tanto meglio. Tra l’altro: macché prestatore volontario! – chiosano le associazioni dei familiari delle persone con disabilità – spesso non si tratta di scelta, ma di necessità imposta dalla carenza di servizi territoriali.

PIÙ CHIARO IN ITALIANO. In apertura del suo telegiornale, la sera del 27 novembre Enrico Mentana commenta: “…è stato varato un piano di aiuto per chi si prende cura delle persone gravemente inferme che si trova in casa. Si usa un termine terrificante, inglese, caregiver, ma cercheremo di non usarlo mai. Questa è una promessa che vi facciamo perché non è difficile dire un aiuto, un’indennità, una sovvenzione per chi cura le persone inferme. Lo possiamo dire molto più chiaramente in italiano.” Difficile non essere d’accordo.

IMPRONUNCIABILE. Un altro termine astruso e impronunciabile, whistleblower (letteralmente: chi soffia nel fischietto) è al centro della legge che salvaguarda contro le punizioni aziendali quei dipendenti che denunciano irregolarità. La legge è stata approvata poche settimane fa. Già un anno prima il gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca aveva proposto di impiegare allertatore civico.

PAROLE INGLESI E PAROLE ITALIANE. Per quanto riguarda i caregiver, tra l’altro, non è che ci manchino parole per definire la funzione. Per esempio curante, il termine che il cortesissimo architetto suggerisce al termine del suo scritto, o curante familiare, o familiare curante, già potrebbero andar bene. Il fatto è che, a furia di attivare immediatamente il curioso automatismo che ci spinge a cercare parole inglesi, ci dimentichiamo di averle già, le parole italiane giuste e necessarie.

SECONDO CASO. C’è l’infuriato signore che mi invia un messaggio con oggetto RABBIA e poi, tutto in maiuscole, inveisce contro il ristorante a cui ha ordinato una pizza napoletana, per vedersi recapitare “questo”.
Il “questo” sono le due foto che l’infuriato signore si prende la briga di scattare e di allegare, e che vedete qui sotto.

LE MIGLIORI INTENZIONI. Vabbè, lo capisco: nel progetto della confezione c’è un’intenzione ironica e la voglia di suscitare simpatia, ribadita anche dalla scelta accurata dei caratteri e dalla grazia modaiola dell’impaginazione.
Ma, come diceva Oscar Wilde, che di ironia qualcosa sapeva, le cose peggiori sono sempre fatte con le migliori intenzioni. E dai, non è che scrivere “preparata al momento” sia così antipatico, banale e fuori moda, no?
Poi ci sarebbero alcune altre cosucce di cui tener conto.

INCONGRUO, SPECIE ADESSO. In primo luogo, a una persona di madrelingua inglese un testo così non appare simpatico, ma sbagliato. E può apparire irritante agli italiani che le parole inglesi le sanno usare bene, quando serve, e giustamente ne vanno fieri (sono pochi, ma ci sono). In secondo luogo, un testo così risulta proprio incongruo adesso che la pizza napoletana è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco. In terzo luogo: che senso ha fare un’affermazione forte sulla qualità del prodotto, e contemporaneamente scherzarci sopra appiccicando un paio di parole inglesi nel testo?

LA LINGUA DEL CIBO. Va detto che i signori della pizza super italian non sono soli. Nel modernissimo Food district (è proprio scritto così) di Porta Nuova, a Milano, a sancire il trionfo delle parole inglesi c’è perfino un’Italian Bakery, che in inglese rivendica la propria italianità.
Peccato che in tutto il resto del globo (tranne che in Italia, evidentemente) la lingua del cibo sia ormai da anni l’italiano. E che, grazie a questo fatto, l’italiano sia la seconda lingua più usata nelle insegne commerciali del mondo.

ALTO DI GAMMA. Giusto per fare un altro esempio tra mille: mentre da noi fioriscono i Wine Bar, in oltre 30 aeroporti americani prospera la californiana catena Vino Volo. La quale nell’insegna, proprio per trasmettere qualità e posizionamento alto di gamma, parla italiano anche se è born in the U.S.A.

TERZO CASO. C’è il giovane e brillante professionista che mi tira in ballo su Facebook scrivendo: ogni volta che sento in radio la pubblicità del CityLife di Milano, il moderno “shopping district che unisce food, fashion ed entertainment” mi chiedo: prenderemo mai coscienza del fatto che non sappiamo l’inglese e che continuare ad usarlo a sproposito è controproducente, oltre che estremamente triste?
E sorvoliamo sul fatto che il luogo stesso si chiami CityLife. E che “city life”, per gli anglofoni, non abbia sempre e solo connotazioni positive.

ACCESSORIO SONORO. E poi: sorvoliamo sulle pronunce radiofoniche sommarie. Sul fatto che spesso l’inglese maschera affermazioni generiche e insulse, che in italiano apparirebbero per quel che sono. E che in inglese suonano così attraenti solo perché non vengono comprese e funzionano da puro accessorio sonoro.

ERRORI. Dovremmo però almeno renderci conto che, a parlare inglese un po’ a capocchia, si fanno anche dei begli erroroni. Succede con il recente slogan every day, every pay (letteralmente: ogni giorno, ogni paga, invece che ogni giorno, ogni pagamento (payment) puntualmente commentato da Licia Corbolante.

FASTIDIO DIFFUSO. I tre diversi messaggi che ho riunito in questo articolo mi sono arrivati a distanza di pochissimi giorni l’uno dall’altro. Testimoniano un fastidio diffuso per un impiego tanto decorativo quanto superficiale, incongruo e stucchevole dell’inglese. Che invece, povera lingua anche lei, meriterebbe di essere usato quando serve e possibilmente con perizia: scelta assai più faticosa, però.

BACCHETTA MAGICA: NON CE l’HO. Infine: anche se da qualche anno ragiono su questi temi (l’articolo intitolato 300 parole da dire in italiano è del 2014) e se periodicamente ci torno, non ho una bacchetta magica per cambiare le cose. Dunque,  scrivere a me serve a poco (e no, anche se gli esempi possibili sono tanti, nelle prossime settimane non pubblicherò un nuovo articolo su questo tema).

NECESSARIA CORTESIA. Potrebbe servire di più, invece, manifestare il proprio disappunto scrivendo all’azienda o all’istituzione che sta usando l’inglese a sproposito e senza necessità. Chi decide di usare l’inglese in quel modo lì lo fa anche perché immagina che questa scelta venga apprezzata. Se scopre che non è vero, magari ne tiene conto.
Bisogna però sempre scrivere, se si decide di farlo, con tutta l’indispensabile cortesia: altrimenti, in qualsiasi lingua si scriva e di qualsiasi lingua di tratti, si passa automaticamente e immediatamente dalla parte del torto.

Una versione più breve di questo articolo esce su internazionale.it
Qui alcuni altri articoli di NeU su questo tema:
La lingua italiana: così bella da spiccare
300 parole da dire in italiano
Le parole sono perle
Dillo in italiano

Lo straordinario soft power (potere morbido) della lingua italiana

21 risposte

  1. Un po’ come *jobs act*, che secondo me lo chiamano così anche per metterci dentro un riferimento a Steve Jobs, che fa tanto *trendy*.

  2. L’italiano batte l’inglese 3 – 0.

    Sono in molti all’estero a dire che l’italiano è la più bella lingua al mondo. Dobbiamo usarla più spesso e con accortezza.

    Ne ricaveremmo un gran ritorno in termini di credibilità e di denaro.

  3. Tra gli anglicismi inutili del 2017, quello che mi pare più eclatante è “fake news” che ha registrato un’esplosione impressionante, benché non registrato dai dizionari, sino al 2017. Negli archivi del Corriere della Sera, dalle 13 occorrenze del 2016 si è passati a 410 del 2017 (a oggi, ma l’anno non è ancora finito). Oltretutto è una locuzione più lunga rispetto a “bufale”, per esempio, e non gode nemmeno della pretesa sinteticità dell’inglese che si dice sia la causa della preferenza degli anglicismi nei titoli dei giornali (ma i motivi del ricorso agli anglicismi, veri o maccheronici che siano, è un altro).

  4. Enzo Iannacci cantava “ci vuole orecchio…”, appunto. Il fastidio, per quanto mi riguarda è proprio questo: abbiamo una lingua che è un canto, perché dobbiamo prendere a prestito anglicismi?

    Ho seguito dall’inizio questa iniziativa e il dibattito che ne è seguito.

    Prendo a prestito da Luisa Carrada questa segnalazione

    https://video.repubblica.it/rubriche/racconti-di-corrado-augias/racconti-augias-viva-l-italia-e-anche-l-italiano/291734/292344

  5. Io insegno italiano in Brasile, a San Paolo, dove è grande la comunità italiana e dove tutto quello che sa d’Italia è “venerato”. Poi ascoltando Radio Rai 3, mannaggia, so che non c’entra in questo, però… e sento una pubblicità “Io ci vado, campagna Happy Ageing….”. Mortale!! Ma in quanti ci andranno davvero?
    Mauro

  6. Gentile signora Testa,
    la seguo da circa un anno e credo ormai di poter fare il mio primo intervento.
    Ebbene anche per me l’uso eccessivo di formule straniere, in una qualsiasi lingua, snatura la cultura locale, ma sono anche sufficientemente aperto ad accogliere neologismi che danno meglio il senso di quello che descrivono.
    Caregiver (Oxforddictionaries: A family member or paid helper who regularly looks after a child or a sick, elderly, or disabled person)
    Badante (DeMauro:Burocr. in strutture pubbliche, sorvegliante di minori, anziani e inabili)
    Dama di compagnia (Corriere: Signora che per mestiere tiene compagnia a persone anziane)
    Curante familiare o familiare curante (dov’è il sostantivo?) sembrerrebbe eliminare, lessicalmente e quindi culturalmente chi si dedica ai nostri cari con uno stipendio.
    Sarà il tempo a stabilire se prevarrà il concetto anglofono o viceversa quello locale.
    Cordiali saluti.

    1. Gentile Lorenzo,
      grazie per il suo commento, prima di tutto.
      La legge varata, al contrario del termine inglese impiegato, non riguarda chi (badanti: abbiamo già il termine, registrato nei vocabolari) si dedica agli infermi per uno stipendio:
      “Lo Stato riconosce l’attività di cura non professionale e gratuita prestata nei confronti di persone che necessitano di assistenza a lungo termine a causa di malattia, infermità o disabilità gravi, svolta nel contesto di relazioni affettive e familiari” e riguarda esclusivamente i parenti.

      Infatti, negli articoli, proprio per distinguere i caregiver all’italiana dai caregiver in inglese, spesso trovo specificato “caregiver familiari”.
      Forse, la scelta di un termine diverso da caregiver avrebbe anche aiutato a capire meglio di che (anzi, di chi) si tratta.

  7. Tweet di ieri di Maria Elena Boschi: “Con il Sottosegretario @LuigiBobba per presentare nuove misure del Governo a favore dei care leavers e per accompagnare i giovani verso l’autonomia”. Ennesimo anglicismo governativo (con tanto di S al plurale!) ma qui care ha un significato diverso: fa riferimento ai minori in affido che diventano maggiorenni. Per chi non sa l’inglese si crea solo grande confusione perché caregiver e care leaver appaiono molto simili.

    La parola inglese care infatti è estremamente generica e indica qualsiasi tipo di attenzione, cura o altro che si presta a persona o cosa per assicurare il suo benessere fisico, materiale, psicologico, la sua protezione o la sua preservazione.

    Ecco perché caregiver (inglese americano, in Europa si dice carer) può indicare chiunque si occupi di persone che richiedono attenzione o assistenza, sia come volontario che a pagamento: in inglese anche una maestra d’asilo è una caregiver.

    In italiano sarebbe più logica una soluzione congruente con assistere e assistito, che sono le parole che usa chi ha familiari che hanno bisogno di assistenza, ad esempio familiare-assistente con il trattino che sottolinea il doppio ruolo.

  8. Sono perfettamente d’accordo su tutto.
    Vorrei sollevare solo un appunto: perchè ha scritto, riferendosi all’inglese, “povera lingua anche lei” anziché “povera lingua anch’essa”? Ho notato recentemente questa preferenza diffusa di scrivere “lui” e “lei” al posto di “esso” o “essa”, dove invece questi ultimi sarebbero auspicabili. Per quel che possa valere la mia opinione, non gradisco questo uso. A costo di sembrare antica, e sono solo una ragazza!, preferisco sempre adoperare tutte le sfumature della nostra lingua meravigliosa.

    1. Cara Alessandra,
      grazie per l’attenzione con cui hai letto il testo qui sopra.

      Sul tema che proponi ti segnalo volentieri questo articolo della Crusca,
      http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/soggetto
      e in particolare:
      “Le forme lui, lei, loro funzionano normalmente e correttamente da soggetto tutte le volte che:
      a. il soggetto è anche “tema”: ossia quando sentiamo che in realtà vogliamo dire “per quanto riguarda lui (o lei o loro)” e simili, il che certamente accade, tra l’altro, quando il soggetto è accompagnato da anche, ancora, proprio, perfino, nemmeno, neanche, neppure, stesso, medesimo”.

      Detto questo: il registro linguistico scelto da NeU è amichevole e colloquiale, e tende a ricalcare le modalità informali del parlato. Se cerchi tra gli articoli, te ne accorgi. Ma, appunto, di scelta autoriale trattasi.

  9. Vorrei segnalarle un altro anglicismo (di pronuncia) decisamente superfluo che mi hanno riferito degli studenti d’ingegneria qualche mese fa: il noto rettore di un notissimo politecnico italiano durante una cerimonia pare abbia utilizzato, in un discorso ovviamente interamente in italiano, la parola “alumni” pronunciandola però all’inglese, “alumnai”. Ciò rientra in una crescente lista di cantonate linguistiche che denunciano non solo una tutto sommato veniale ignoranza del latino, bensì una vera e propria incapacità di riconoscerlo che per di più sarebbe stata (credo) impensabile o inammissibile fino a qualche tempo fa.

  10. Gentile signora Testa
    La ringrazio molto per aver affrontato questo argomento. Mi riferisco in particolare al termine caregiver. Non sono un’esperta linguista ma faccio il medico e mi occupo di malattie neurodegenerative. Caregiver e badante sono termini che devo usare molto di frequente, e soffro! Sono riuscita a trovare una alternativa a “badante”: collaboratore/trice famigliare. È più lungo ma decisame meno fastidioso, per me, anche da un punto di vista estetico sonoro. Ma per caregiver, non sono riuscita a trovare una alternativa accettabile. Oltretutto caregiver suona bene. Ma spesso, i pazienti stessi, e i loro caregiver, non ne comprendono il significato.
    Che fare? Possibile che la lingua italiana non offra una soluzione??? Piuttosto il latino!
    Mi aiuti!
    Grazie, Francesca

    1. Ha ragione: “badante”, anche se ormai è entrato nel linguaggio corrente, resta un termine brutale, che evoca più la sorveglianza che l’accudimento.
      Sono certa che, combinando i termini “familiare”, “assistente”, “curante”, che già sono a disposizione, la sua sensibilità le farà trovare la perifrasi più opportuna.

  11. Grazie per questo articolo e per i tanti spunti di riflessione.
    Dal mio punto di vista, usare un termine inglese, impronunciabile per molti e non di immediata comprensione (caregiver, careleaver, whistleblowers…), soprattutto in ambito legislativo, ha anche l’effetto secondario di allontanare il soggetto, di renderci la questione più aliena, altra, come se non si parlasse di noi, delle nostre famiglie, del nostro mondo. Cos’è, in fondo, il caregiver, se non una sorella, un figlio, un compagno, alle prese con una quotidianità difficile insieme ad un proprio caro malato o in difficoltà? E whistleblower, un collega o un dipendente che abbia denunciato un comportamento scorretto nell’ambiente di lavoro?
    Usare una locazione è forse più lungo ma renderebbe tutto più semplice e comprensibile, e soprattutto vicino a noi.

  12. Percorro un breve tratto d’autostrada. Un cartello luminoso segnala: “Temperature altamente negative, prestare attenzione”. Guardo in alto. Qualche centinaio di metri dopo: “Controllo elettronico della velocità effettuato con sistema Tutor”. Come se fosse possibile farlo in altro modo. Non ne posso più, decido di uscire al “Casello ad avanzato livello di automazione”. Che vuol dire che infili il biglietto in una fessura, nell’altra il denaro e la sbarra si solleva. Chissà cosa volevano dire? Saranno gli stessi autori che coadiuvano i relativi legislatori a redarre i testi delle normative vigenti?

  13. In questi giorni di endorsement e di altre nefandezze mi provocano ancor più travaso di bile gli emmeelle. Non c’è trasmissione tv che non ospiti un cuoco che propina l’ennesima ricetta con le dosi degli ingredienti misurate in emme-elle. L’unità di misura sarebbe ml, in minuscolo e senza punto, secondo le convenzioni internazionali ormai centenarie, e la sua lettura è millilitri. La millesima parte di un litro. Per una ricetta culinaria è una precisione ridicola come indicare la distanza fra Roma e Milano in metri.
    Dire emmeelle invece che millilitri (parola in esteso formata da un numero inferiore di lettere) dimostra la totale ignoranza circa ciò che si sta nominando.
    Sono alto un emme e settantacinque ciemme, il mio cervello occupa trevirgoladue emmeemme con tre piccolo un po’ in alto, mentre il mio peso è di oltre centotrentacinque cappagì. I cuochi e i loro anfitrioni parlano così.
    (E per essere cuochi basta saper dire: andiamo a tagliare, andiamo a mescolare, andiamo a…, provate ad ascoltarli, vanno sempre senza andare mai.) Gli emmeelle non sarebbero un gran danno se non fosse che, ripetuto per tutte le rubriche tv e per il numero di spettatori, viene detto e ascoltato milioni di volte ogni giorno. E gli emmeelle sono sullo stesso piano degli jobsact, degli endorsement e delle migliaia di termini non italiani –non li definirei neppure in inglese– che i media e i giornalisti-cuochi ci propinano quotidianamente. Non è modernità: è ignoranza.

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