Nuovo e utile

Pasta, pupe, pallone, provincia… l’Italia stereotipata degli spot

Per fortuna Giovanna Cosenza qualche giorno fa ha ampiamente scritto del nuovo spot di Fiat Panda. Così posso evitare di farlo a mia volta, se non per segnalarvi che, mentre gli spot Chrysler (Grand Cherokee e il bellissimo istituzionale con Eminem che ha spopolato al Super Bowl) da cui Fiat trae visibile ispirazione lavorano a esaltare archetipi, questo lavora a contrastare stereotipi (… l’immagine che ci vogliono dare). Insomma, Fiat Panda sceglie un sentiero più scivoloso,  su per gli impervi percorsi dell’excusatio non petita. Ma tant’è.
Invece vi propongo una rassegna di spot sul tema Italia e italiani.
Osservate il profilo che ne viene fuori, e l’immaginario che ci sta dietro.
C’è l’Italia impigliata di Unicredit. C’è l’esortazione di Enel a non parlare di debolezze e manie nazionali come fanno tutti (ehm… ci risiamo con l’excusatio). C’è il sognante fritto misto all’italiana (pallone, scolari, nonni, banda, garibaldini…) del Ministero della Difesa. E c’è (ancora football) il paese unito dal tifo calcistico di Peroni. Ci sono le trite cartoline di paesaggi, l’ovvia musica e lo sconfortante testo (triplo sigh!) di Magic Italy. C’è l’ironia bonaria e nostalgica di Proraso. E ancora: l’Italia personificata (e retoricamente un po’ zoccola, a ben ascoltare) del Giro d’Italia. Le Sorelle d’Italia patinate e modaiole di Calzedonia. C’è una modaiola Scarlett Johansson che afferma I love Italy, ma non dice perché. Sulle differenze regionali puntano sia Antonio Amato sia Rai, che giustamente rivendica il proprio ruolo nell’unificazione linguistica.
Conclusione provvisoria: questo paese spesso a disagio con la propria identità nazionale, per abitudine poco orgoglioso di sé, più propenso a perdonarsi o a crogiolarsi nella nostalgia provinciale che a valorizzarsi, fa fatica a prendersi sul serio perfino negli spot che, se ci si mettono, riescono a prendere sul serio praticamente qualsiasi cosa. Escono dal recinto stretto degli stereotipi e dei luoghi comuni altri due telecomunicati Fiat: uno intimistico, del 2010, e uno più ambizioso, del 2007.
Se, come tutti ci auguriamo, con coraggio e tenacia le imprese italiane riusciranno a uscire dalla crisi, avranno bisogno di nuove, belle, potenti storie italiane da raccontare. E, magari, di un’epica nazionale contemporanea, non patinata, autentica: un racconto consistente dell’Italia, delle sue radici al di là dei luoghi comuni (Pasta, Pupe, Pallone, Provincia e Paesaggio), della sua identità, della sua idea di futuro. È una bellissima sfida per la creatività e credo che in molti saremmo felici di coglierla.

21 risposte

  1. Non ho ancora visto, o rivisto, gli spot citati (ma ti ricordi quando si chiamavano ‘short’?). Però leggendo – piccola pausa per riprendere fiato in questa mattinataccia – m’è venuta in mente anche un’altra Italia: quella che a qualsiasi costo deve toccare il cuore (!). Il lavoro dei young gun di Cric per Poste Italiane (v. link) è più che apprezzabile, o meglio: sarebbe stato più che apprezzabile se fosse nato da un brief. Così non fu. Ma questo è un altro discorso. http://www.youtube.com/watch?v=f01z-L7LqTw

  2. Mi scrive Paola Manfroni segnalandomi due ulteriori spot sul tema. Sono due lavori interessanti e li linko molto volentieri. Il primo riguarda le celebrazioni dei 150 anni dell’unità, ed è a cura della Presidenza del Consiglio. Il secondo promuove una marca e una ricetta italiana.

  3. Ripensando agli spot citati, mi è venuto in mente quello di Piazza Italia Store: “I veri miracoli li facciamo noi”. Volti tesi, affaticati, rigidi, quasi costretti a dover stare davanti all’obiettivo. Schivi, colti in un momento di pausa, nella fretta di dover fare qualcosa, di dover portare a termine un compito. Come sempre, nel migliore dei modi. Siamo noi, gli italiani di tutti i giorni, che lavorano, resistono e sorridono nonostante il “momento storico”. Siamo la gente comune che si incontra al supermercato e alla quale ci si accoda al rosso del semaforo, imbustati in un berretto di lana infeltrita dentro un’utilitaria che porta i segni di vecchie ammaccature, mai riparate. Forse una buona dose di bollita retorica rende stucchevole anche uno spot come questo, che parte dal particolare per giungere allo – stereotipo – universale. Ma a me piace pensare a una differenza sostanziale: che gli italiani, ogni tanto e a buon diritto, ci mettono la faccia. Quelli che l’Italia continuano a farla, senza troppe cerimonie, senza Marchionni che suggeriscano come si fa a costruire un’immagine di Torino simile a Detroit, cercando maldestramente di azzerare distanze abissali. E non perché ci sia un oceano di mezzo. Grazie Annamaria, sei sempre una fucina di idee e riflessioni. Arianna

  4. Io credo che le imprese, per poter accedere(come dice Annamaria) a una “nuova epica” debbano innanzitutto accedere a una “nuova etica”: senza questa NON PUO’ esserci quella. Poi sarebbe interessante anche ragionare sul fatto che Poste Italiane per piacermi usino dei bambini. Perchè anche questo, mi sembra, rimbalza non male tra etica ed epica. O no?

  5. Confrontando lo spot originale americano (Chrysler) e la localizzazione italiana (Fiat), quello americano sembra un filmato sovietico, potentissimo, pieno di slancio e orgoglio, il nostro sembra uno spot per l’ottopermille alla chiesacattolica. Il primo ha digerito Marx sputandone fuori l’osso rivoluzionario, il secondo si chiude con una frase che sa di esistenzialismo fuori tempo massimo. Un problema di epica? (E se invece la differenza la facessero non le culture dei Paesi, ma semplicemente le capacità dei pubblicitari?)

  6. @jac. Il tema dell’etica è ovviamente (mah…forse non così ovviamente, dopotutto) rilevante. Ma, parlando di spot pubblicitari e di costruzione dell’immaginario, anche le scelte estetico-narrative hanno rilievo: suggeriscono interpretazioni, evocano umori, propongono punti di vista. Per quanto riguarda questo secondo complesso di aspetti, mi sembra illuminante il commento di UMar qui sopra. Anche se continuo a essere (sarà l’ottimismo della volontà?) fiduciosa nelle capacità dei pubblicitari, a patto che non scelgano le due scorciatoie più stucchevoli: la lieta nostalgia strapaesana dei tarallucci e vino e il bello-finto-esangue-patinato, magari in rallenty, giusto per non farsi mancar niente 🙂

  7. @annamaria. Certo: le scelte estetico-narrative sono fondamentali. Pafrarasando un antico proverbio italico (tanto per restare in tema) si potrebbe però dire che “l’estetica senza l’etica è cieca” e che “l’etica senza l’estetica è muta”. Interessante, poi quello che chiede su FB Maddalena Bru: “ma bisogna per forza parlare dell’Italia per vendere o presentare un ‘prodotto’ italiano?”

  8. All’estero, l’italianità dei prodotti italiani è una componente rilevante del loro essere desiderabili. E quindi la risposta è sì, certo. Più interessante il quesito applicato all’Italia. E mi verrebbe da rispondere “ma perché no?”, oppure “ma anche sì”. Abbiamo una tradizione manifatturiera straordinaria. Siamo piuttosto bravi col design e la moda, ma non solo con quelli. C’è tutta la meccanica di precisione, per esempio. E dopotutto non sarebbe male se l’italianità venisse percepita come valore anche dagli italiani, non credi? Dopotutto l’epico spot Chrysler si rivolge al mercato americano, e lo fa vantando il made in the USA.

  9. Diciamoci la verità o, almeno, tentiamo di dircela. Il livello culturale dell’attuale pubblicità italiana e dei suoi autori (creativi, manager e via elencando) è molto basso. Come basso è il livello medio della cultura di questo vecchio, sputtanato e frastornato paese, che stenta a trovare una nuova identità comune, per ridisegnare un futuro che, probabilmente, non riacciufferemo come sistema ma, forse, solo come singoli o piccoli gruppi agguerriti. Siamo attardati su vecchi stereotipi perché è la Cultura italiana che è in ginocchio, asservita al potere e precarizzata come tutto il nuovo lavoro. La nostra storia recente è lì a dimostrarlo. La politica ha fallito, e senza visione politica alta, moderna, non ci sarà scampo. Qualcuno di noi intravede la nuova politica? Un nuovo progetto di paese, di convivenza, di cultura sociale ed economica? Siamo alla plastica supplenza dei tecnici, o dei tecnocrati, e per molti (anche per me) questo è addirittura un sollievo. Le aziende, le agenzie, gli imprenditori, i creativi, negli attuali posti di comando, sono tutti figli dello stesso sistema: pochi rischi, poche idee, poco pensiero e poco, pochissimo mercato, meglio se protetto. A ben guardare, anche nella più dinamica community italiana della rete sta rischiando di affermarsi un neoconformismo periferico e provinciale, più preoccupato di celebrare la vuota liturgia del nuovo che di praticarlo realmente fino in fondo. Si certo, sparute tracce, qualche lampo qua e là si scorgono, ma non ancora sufficienti a produrre un’aggregazione contagiosa e fertile di nuovi “sentimenti e visioni condivise”, magari minoritarie, ma robuste. E se questa nuova visione comune non esiste, non è visibile neanche in sottofondo, come può materializzarsi nel linguaggio pubblicitario, per sua natura iconografico e stereotipico e mai anticipatore di nulla?

  10. Non so se il nostro paese faccia fatica a prendersi sul serio negli spot. Quello che so è che ciò che vedo nei commercial spesso stride con l’immagine che io come consumatore ho dell’azienda. Ho il sospetto di non essere l’unico. Certo, vi è la necessità di evidenziare gli aspetti positivi del prodotto/servizio/azienda, ma il consumatore, nonostante ciò che dicono alcuni nostri clienti, non è bove. Inoltre noto che persino io, in un qualche modo addetto ai lavori, ho grandi difficoltà a ricordare il prodotto. Ma non credo sia colpa dei pubblicitari. Quello che a me manca sono le storie. Compresse in 30″, ma storie. Mi sembra (lo ripeto: mi sembra) che non ce le lascino più raccontare, o forse non ne siamo più capaci. È una cosa di cui ho letto anche a proposito del nostro cinema. È probabilmente una coincidenza che io stia leggendo “Story: style, structure, substance and the principle of screenwriting” di Roberto Mckee e che ieri sera abbia evidenziato quanto segue: “A culture cannot evolve without honest, powerful storytelling. When society repeatedly experiences glossy, hollowed-out, pseudo-stories, it degenerates.” Pseudo-stories.

  11. Credo che abbiamo accettato di stare al gioco di una conversazione finta, in cui tutti dicono cose in cui non credono, e infatti non vengono creduti. Abbiamo rinunciato tutti a seguire quello che ci entusiasma, per procedere per piccoli calcoli e conservare l\\\’esistente. Se dici no alle cose che non ti stanno bene, devi mettere in conto di perdere qualcosa, e questo nessuno vuole più farlo, come se fosse un comportamento autolesionista. Invece è un comportamento che a volte costa, ma a volte paga. Mi piace fare la pubblicità, perchè consente di mettere dentro un messaggio piccolo e potente un pezzetto di senso, cultura,bellezza, un pezzetto dell\\\’immaginario che mi appartiene e che ha l\\\’opportunità di diffondersi. Quando ti chiedono di lavorare su uno stereotipo – che sia l\\\’italianità o altro – c\\\’è sempre il modo di trovare un punto di vista nuovo e onesto. Invece di rincorrere i leoni, meglio concentrarsi sulla produzione di messaggi nuovi e onesti: così i leoni ci seguiranno. Paola Manfroni

  12. Ciao a tutti, ciao Annamaria, ero rimasta un po’ indietro con i post. Per dirvi che la riflessione nata da questo è molto interessante: chi crede ai contenuti più che al prodotto, chi ha nostalgia della qualità di uno spot o di un prodotto, chi prosegue magari nel suo piccolo controcorrente. Chi è esterofilo, chi è storico, chi realista. Solo leggendo i commenti si potrebbe creare un nuovo spot dell’Italia, che stavolta tenesse almeno in conto la nostra biodiversità;) Chiara

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