pratica o talento

Pratica o talento? Quanto pesano e quanto valgono? – Metodo 58

Un articolo uscito  sulle pagine de La Repubblica sembra lanciare un messaggio netto. “Il talento non conta, solo l’esercizio ci fa primeggiare. Dalla musica allo sport: le nuove teorie della scienza, dice l’occhiello. La regola del successo, 10.000 ore di pratica e sei bravo in tutto, conferma il titolo. Nel video che promuove l’articolo online si parla addirittura di una “cifra magica del successo”.
Si sa, i titoli sono fatti per catturare l’attenzione. Però il testo (che riprende un assai meno tassativo articolo uscito sul newsmagazine della BBC) prosegue sullo stesso tono. In estrema sintesi: basterebbero 1250 giorni, su per giù tre anni e mezzo, per padroneggiare qualsiasi disciplina con assoluta maestria. Ad affermarlo sarebbero diversi autori, tra cui Malcom Gladwell nel bestseller Outliers (2008. In italiano: Fuoriclasse. Storia naturale del successo).

Tutti gli autori, dice l’articolo, fanno riferimento a uno studio pubblicato nel 1993 dallo psicologo americano Anders Ericsson, il quale mette a confronto il tempo impiegato da un gruppo di violinisti più o meno bravi per esercitarsi: i migliori si sono esercitati in media per 10000 ore, gli altri per 4000. L’articolo in conclusione accenna al fatto che “su quanto pesi il talento in sé, le opinioni divergono anche tra i teorici delle 10000 ore” e termina citando una “celebre battuta di Hemingway”: il successo è 1 per cento inspiration (ispirazione) e 99 per cento perspiration (sudore).

Le cose, per quanto mi risulta, sono “quasi” così ma non proprio così. E, si sa, il diavolo si nasconde nei dettagli. Per cominciare, a difendere il primato del sudore sull’ispirazione non è l’irrequieto, epico scrittore Ernest Hemingway ma il metodico, ostinato inventore e imprenditore Thomas Alva Edison.
Se non si trattasse di Edison questa sarebbe solo una precisazione pedante: ma la citazione ha rilievo anche perché appartiene a un signore che deposita 1084 (secondo alcuni 1093) brevetti nell’arco di un’intera vita, tra i venti  e gli ottantadue anni (tra questi, il fonografo e la lampadina) e che è il quinto inventore più prolifico di sempre. Fatta da lui, l’asserzione che “per avere risultati bisogna sudare” fa tutto un altro effetto.

E poi Edison è proprio uno che, metaforicamente, “suda”: ha uno stile di lavoro meticoloso e intensivo. È bravissimo a ingegnerizzare, a perfezionare (spesso idee di altri) e a ottimizzare. Procede per prove ed errori, tanto da essere definito un “brute force experimenter” dal brillante Nikola Tesla suo strenuo avversario scientifico nel primo scontro industriale-mediatico della storia, la “guerra delle correnti” (una vicenda incredibile di lobby contrapposte, condotta tra disinformazione sistematica, elefanti folgorati e una quantità di colpi bassi).

Ma torniamo al nostro tema. Il secondo punto da notare è che la teoria delle 10000 ore è tutt’altro che nuova. La formulano per primi nel lontano 1977 Herbert Simon (non uno qualsiasi: premio Nobel per l’economia, psicologo, informatico, padre dell’intelligenza artificiale… uno dei geni del XX secolo) e William Chase. A ricordarlo è lo stesso Gladwell sul New Yorker.
E, già che ci siamo, Gladwell precisa che achievement is talent plus preparation… dunque, quella tra pratica o talento è una falsa alternativa. Nei campi ad alta complessità cognitiva, dagli scacchi alla chirurgia, avere talento innato è una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere prestazioni eccezionali. Le quali appunto, chiedono pratica. Quanta? Dipende: perché uno scacchista diventi grande maestro possono essere necessarie anche 50000 ore. Per diventare bravissimi nel salto in alto o nel wrestling può volerci molto meno.

Il terzo, e forse più importante, punto da notare riguarda invece quello che intendiamo per “pratica”. Lo ribadisce lo stesso Ericsson: in termini di successo, la qualità della pratica è fondamentale. Deve trattarsi non di puro esercizio, ma di “pratica deliberata”.
La pratica deliberata è qualcosa di profondamente diverso dal semplice allenamento. La prima serve ad accrescere un’abilità, il secondo a non perderla.
Dunque, la pratica deliberata non è pura ripetizione di quanto già si sa fare: chiede una dose altissima di concentrazione e si focalizza non sul mantenere, ma sull’estendere costantemente le proprie capacità. Consiste nel continuare a forzare i propri limiti e nel lavorare in modo accanito sui punti deboli. Per riuscirci bisogna essere molto tenaci, molto esigenti e molto onesti con se stessi.

Insomma, talento e predisposizione servono e contano, però da soli non bastano: per raggiungere l’eccellenza possono essere necessarie anche meno di 10.000 ore di pratica deliberata, ma anche molte di più. E, comunque, si suda abbastanza, o tanto, o tantissimo.
È anche – aggiungo io – opportuno che ciascuno capisca qual è lo stile di lavoro che maggiormente si adatta al suo talento e che meglio sviluppa le sue capacità. Per capirci: vi sentite più dalla parte di Tesla o da quella di Edison? Stile di lavoro e tempo sono, ovviamente, correlati.
Comunque, una cifra magica e costante del successo non esiste: 10000 ore stanno per “tanto ma tanto tempo”.
Se però volete fare in fretta per raggiungere l’eccellenza assoluta lasciate perdere gli scacchi o la chirurgia, e anche la composizione musicale e l’informatica. Scegliete il wrestling.

L’immagine è di Yayoi Kusama. Una versione ridotta di questo post esce anche su internazionale.it. Se vi è piaciuto, potreste leggere anche:

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12 risposte

  1. buongiorno, la riflessione è interessante e ben referenziata, si vede frutto di sincero interesse. Ci ho riflettuto anche io e mi sono in qualche modo persuaso che pratica e talento non sono poi così slegati. La pratica, deliberata o no, posso farla anche da solo. Il talento invece non può prescindere dal confronto con altri esperti o praticanti la materia. Il talento lo sappiamo viene reputato come un attributo personale ma lo è invece solo al momento della sintesi, questa sì personale, di esperienze di confronto con altri soggetti oltre a sé. per concludere credo che il talento possa essere meglio definito come la personale sintesi della storia della propria pratica e credo inoltre che solo questa possa, a differenza della sola pratica, aprire nuove strade e nuove interpretazioni e dare nuovi sviluppo all’esercizio di una disciplina. Per padroneggiarla serve la pratica ma per svilupparla è necessario il talento

  2. Se si va per assoluti diventa una questione di lana caprina. Se invece si prende l’affermazione delle 10.000 ore come una generale indicazione di metodo, è evidente che dedicare 10.000 ore di studio consente di arrivare a risultati notevoli in qualsiasi settore, con rare eccezioni che non smentiscono la regola. Persino lo sport annovera campioni che in origine erano malaticci e hanno iniziato a praticare sport proprio per quel motivo. Fanno eccezione quelle discipline in cui alcune caratteristiche psicofisiche sono fondamentali per separare il campioncino dal fuoriclasse: difficile battere a baseball o fare tiro a segno senza avere una vista perfetta o superiore alla media. Difficile fare il pilota di Formula Uno solo con la pratica senza avere soldi, vista perfetta e riflessi eccezionali. Va anche detto che “eccellere” non va confuso con “vincere” o “essere il primo nel mondo”: un maratoneta che arriva quindicesimo, a pochi minuti dal dal vincitore, non ha vinto, ma ha comunque svolto una prestazione fisica di livello alto.

  3. Le 10.000 ore di allenamento col violino possono servire per sviluppare le capacità procedurali (il saper fare) ma, se nel frattempo non si ci interroga sullo spartito, sulla storia della musica, sulle intenzioni dell’autore, sul significato più ampio e più intimo di ciò che si esegue (e il termine la dice lunga sul ruolo procedurale dell’eseguire), le capacità dichiarative (il sapere) restano al palo e, dunque, niente talento.
    La crescita quantitativa ha poco da spartire col progresso, col superamento. Sapere e saper fare possono essere espressi in profondità anziché in ampiezza, così accade che Alessandro Cruto inventa la lampadina ma è T. A. Edison che la brevetta (e, secondo altri ancora, i brevetti sarebbero 1097), è Meucci che inventa il telefono -l’ing. Catania dello cselt lo ha dimostrato inequivocabilmente al Congresso americano, che ha riconosciuto la paternità dell’italiano- e le casse Pupin, ma è Bell che li brevetta. Evidentemente il talento affaristico e brevettuale non risiede dalle nostre parti. Senza nulla voler togliere al genio di Edison, non fosse altro che per il suo divertente cancello-pompa, avere successo non vuol dire necessariamente avere talento, diversamente dovremmo riconoscerlo anche in Totò Riina o Matteo Renzi 🙂 …

  4. Come al solito, l’articolo di Annamaria Testa mi convince e mi aiuta a capire un po’ di più della vita. Dico “un po’”, solo perché penso a ciò che mi manca.
    Vorrei fare una domanda. Spero di riuscire spiegarmi efficacemente.
    Due premesse.
    o Se devo fare progressi, nell’ambito di una sola disciplina, la parte quantitativa della pratica – specie se “deliberata” – conta tanto, da essere per lo più sufficiente.
    o Se sono molto attivo, in numerose discipline e contesti con continuità, miglioro le mie capacità di avere una buona “visione d’insieme”.

    In quale misura la mia eventuale buona “visione d’insieme”, può influire sui risultati, quando pratico una specifica disciplina?

    1. Gentile amico di tastiera, mi è accaduto in più occasioni di scoprire che, grazie alla “frequentazione del contiguo”, al desiderio di conoscere, seppure in modo superficiale, discipline coaudiuvanti la mia, ne sapevo in qualche misura più degli stessi specialisti.
      Sto parlando di competenze e di cultura aziendale operativa, niente di che, solo pane quotidiano per i miei dentini gracilenti. Sta di fatto che una visione d’insieme più ampia non solo ci mostra un più ampio panorama ma migliora l’acuità visiva e ci fa vedere meglio anche il dettaglio. Che poi, di questi tempi, la pratica deliberata si concretizzi in qualche riscontro pratico è in parte da dimostrare. Resta il piacere personale e un po’ di presunzione, come vedi. La nostra gentile ospite saprà risponderti meglio.

    2. Ciao Ugo.
      Credo che quella che tu chiami “visione d’insieme” sia importante. E, per esempio, è fondamentale per sviluppare un’attitudine creativa (dopotutto creatività è stabilire connessioni nuove ed efficaci tra elementi in apparenza lontani tra loro…).

      Inoltre, spesso, saper fare bene una cosa aiuta a imparare prima a farne un’altra, simile. Mi diceva un amico poliglotta che, dopo la terza lingua, impararne una quarta o una quinta è più facile. Una cosa analoga succede con gli strumenti musicali.

      Però saper fare una cosa, e anche saperla fare bene, non significa aver raggiunto l’eccellenza assoluta: per avviarsi su quella strada, credo, ci vuole una dedizione quasi ossessiva e la focalizzazione è necessaria. Ma ho anche la sensazione che, a un certo punto e quando già si sta arrivando a sfiorare l’eccellenza, la visione d’insieme torni a essere importante.

      Se dovessi disegnare la mia idea, traccerei una specie di curva catenaria. Insomma, una grossa U. Mi spiego: credo che l’importanza della visione d’insieme (mettiamola sull’asse x) sia alta quando ci si avvicina a una nuova disciplina, decresca man mano che la si approfondisce, e poi, raggiunto un più che buon livello di prestazioni (ah: le prestazioni progrediscono sull’asse y) cresca nuovamente.

  5. Mi piace che la “visione d’insieme” possa migliorare la “acuità visiva”. Possiamo usare la metafora del falco, che dall’alto vede l’insieme, ma grazie alla sua vista perfetta coglie anche i particolari.
    Grazie Rodolfo.
    Che la visione d’insieme possa influire positivamente, sia all’inizio che alla fine di ogni percorso, mi affascina.
    Le volte che sono riuscito ad essere persistente e resiliente con la pratica – cioè con la pratica deliberata – ho fatto progressi importanti.
    La U mi sembra un potente strumento, al quale non avevo pensato.
    Grazie Annamaria

  6. Nel mio piccolo la vedo un po’ così:

    fase 1- dal generale al particolare: è la fase di sgrossatura.
    In questa fase si produce molto “truciolo”, da non considerare MAI scarto … !

    fase 2- dal particolare al generale: l’idea ha preso forma, l’abbiamo fissata.
    In questa fase occorre “rialzare lo sguardo” per verificare dove siamo e il collegamento con il contesto.

    10.000 ore? Mmmm … non saprei. Come sempre molto dipende dalle abilità (mentali e pratiche) degli individui.

    Il perfezionamento tramite la ripetizione porta indubbi miglioramenti ma, spesso, le soluzioni a livello mentale arrivano all’improvviso tramite “insight”.

    Se 10.000 ore di prove portano indubbi miglioramenti a livello pratico (es. strumento musicale), credo che a livello mentale le cose siano un po’ diverse: correggere un movimento (qualcosa che puoi osservare) è molto più semplice che correggere un modo di pensare.

    Mi spiego meglio: ribaltare un movimento della mano o delle dita sullo strumento costa tempo e fatica, ma è fattibile tramite l’allenamento; ribaltare un modo di pensare o un punto di vista è estremamente più complesso.

    L’eccellenza si può raggiungere, certo, in-formandosi, sudando le 7 camicie, provando e riprovando, sbagliando (… anche in modo grossolano a volte …), confrontandosi con i migliori.

    La visione d’insieme per me è molto importante, si acquisisce con gli anni e con l’esperienza, in alcuni casi offre vantaggi non indifferenti ma non deve mai essere vincolante: possiamo sempre uscire dagli schemi.

    Però il MIGLIORAMENTO, quello vero, quello che ci porta verso l’eccellenza, arriva quando abbiamo la forza di cambiare il nostro punto di vista, scardinando i lucchetti che ci tengono vincolati alle nostre convinzioni per avventurarci su nuovi percorsi.

    Ecco, in quel caso, la visione d’insieme si tramuta in un panorama meraviglioso e pieno di opportunità.

  7. Grazie per questo bell articolo interessante e stimolante per riflessioni varie e variegate! Sono assai daccordo con la enorme quantità di “allenamento” necessario per “padroneggiare” una disciplina. Ammettioamo che mi accingo a cominciare un cammino di 10000 ore di pratica di una disciplina: cosa mi spinge? La mamma mi obbliga ( musicisti a 4 anni)? in generale la “passione” mi spinge a cio’, e questa passione deriva da due cose. 1. ho provato questa disciplina e mi é riuscita cosi’ bene che l’idea di successo é nata in me. 2. comincio perché l’intuizione del successo mi spinge e sostiene nello sforzo.
    Ho conosciuto molte persone “dotate” che non hanno deciso di “sudare” e i risultati non sono arrivati al loro livello immaginato.
    Il talento é la base , ma senza impegno “endurance” non si puo’ riuscire, e les “paillettes” della passione nutrono lo sforzo delle 10000 ore

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