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Robot che scrivono: 7 punti per preservare il lato umano – Metodo 67

Il 17 marzo scorso, all’alba e tre soli minuti dopo il verificarsi di un terremoto nell’area di Los Angeles, il sito del Los Angeles Times ne dà notizia con un breve testo. A recuperare tutti i dati, a selezionali e metterli in ordine e a dar loro una forma scritta comprensibile è un algoritmo. Si tratta di una prestazione che nessun giornalista, in quel tempo ristretto e ammesso che fosse sveglio, sarebbe stato in grado di effettuare.
Il Guardian, che racconta questa storia, sottolinea che negli ultimi anni seri problemi finanziari hanno costretto il Los Angeles Times a ridurre la propria redazione. Urca, vuol dire che, in un futuro prossimo, robot che scrivono sostituiranno gradualmente gli esseri umani nelle redazioni e negli uffici stampa?

In realtà anch’io, dopo aver deciso l’argomento di questo articolo e prima di cominciare a metterlo insieme, ho affidato la parte più faticosa e incerta – la raccolta dei dati e delle fonti – a un algoritmo: lo facciamo tutti, ogni volta che deleghiamo una ricerca a Google.
Mi sono riservata, però, il compito di selezionare, valutare, costruire un’argomentazione e tradurla in parole che si compongano in una prospettiva sensata e che siano, possibilmente, interessanti e piacevoli da leggere. Però, mentre mi arrampico da una riga all’altra, sto cominciando a sentirmi un po’ troppo antiquata (senza contare il tempo che ci metto, accidenti).

Già oggi c’è in giro molta più roba messa assieme da robot che scrivono di quanto riusciamo a immaginare. Per esempio, il Wall Street Journal racconta che poco meno di un decimo delle voci dell’edizione svedese e un buon numero delle voci dell’edizione filippina di Wikipedia sono scritte da un algoritmo capace di produrre fino a diecimila articoli ogni giorno. Parlano di insetti e altri temi poco frequentati.
Del resto, come segnala Newsweek, ormai metà del lavoro editoriale su Wikipedia – la metà più noiosa, ovviamente – è affidata ai bot: programmi informatici che correggono errori di ortografia, verificano i link, tengono sotto controllo vandali e troll. E dai, anche questi sono in fin dei conti robot che scrivono, anche se come editor e non come autori.
Forbes si affida ai robot per convertire dati nei brevi articoli della sezione Narrative Science, e infatti, al termine di ogni articolo appare la scritta Narrative Science, through its proprietary artificial intelligence platform, transforms data into stories and insights.  L’Associated Press, la prima agenzia di stampa statunitense, sta automatizzando la produzione di articoli sui bilanci delle aziende: affidarsi a robot che scrivono “permette di produrre 4400 articoli invece degli attuali 300 al trimestre”, e dovrebbe – dice l’AP  – consentire ai giornalisti di focalizzarsi sulle tendenze, sulle interviste e sulle storie esclusive.
Esiste perfino un programma che legge testi di narrativa, ne estrae le emozioni e le traduce in brani musicali. Potete ascoltare il risultato a questa pagina: beh, non è Mozart, ma se gli diamo una ventina d’anni per fare pratica e se lo mandiamo a scuola da tutti i migliori compositori umani del passato e del presente, è probabile che il risultato migliori. Del resto, anche Deep Blue ci ha messo trent’anni per imparare a giocare a scacchi, ma alla fine ce l’ha fatta.

Uno studio recente mette a confronto scrittura umana e automatizzata: i testi prodotti  risultano meno chiari e coerenti ma più descrittivi e informativi, meno piacevoli da leggere ma più affidabili e oggettivi. Insomma, i robot che scrivono non sono tanto svegli ma, in compenso, sono meticolosi e secchioni.
Ma come fanno a scrivere (quasi) come noi? Un gran numero di testi d’informazione (economia, sport, eventi climatici, rassegne di ristoranti…) ha, proprio come le voci di Wikipedia, una struttura ricorrente. Basta identificarle, metterci dentro riferimenti e dati specifici, stabilire quali informazioni-chiave il testo deve fornire, arricchire e colorire attingendo dal pentolone dei cliché giornalistici (qui un elenco di cliché americani stilato dal Washington Post. Qui un elenco di cliché italiani uscito su Il Post).
Così, specie se la notizia non è controversa, è breve e si commenta da sola, ecco cucinato il testo: se siete curiosi di come tutto ciò funziona nel dettaglio ve lo racconta Wired, aggiungendo che entro una quindicina d’anni il 90 per cento delle notizie sarà scritto da robot, che non si tratterà più solo di testi corti e che già ora è possibile personalizzare il tono della scrittura: secco e referenziale,  suadente, epico.

Tutto questo potrebbe risultare deprimente. Ma potrebbe anche incoraggiarci a valorizzare il lato umano della scrittura, producendo testi che nessun algoritmo, almeno per un po’, sia in grado di emulare. Ci potrebbero essere diverse maniere per riuscirci. Per esempio:

1) consegnare ai robot che scrivono la grigia mediocrità della lingua standard e delle strutture consolidate, impegnandosi a scrivere o davvero come angeli, o davvero da cani. Poiché un certo numero di autori ha già astutamente fatto propria la seconda opzione, resterebbe praticabile solo la prima. Basta darci dentro.

2) lasciar comunque perdere i cliché, nessuno escluso: anche questi ormai sono roba da robot.

3) gli algoritmi non hanno sense of humor: pedanti e secchioni come sono, riescono al massimo, almeno per ora, a mettere insieme qualche gioco di parole stupidino. Non riconoscono l’ironia, quella che nasce da imprevedibili slittamenti di senso e che ha bisogno di una buona dose di intelligenza contestuale. Di nuovo: diamoci dentro.

4) il discorso del punto 3) vale anche, e a maggior ragione, per le metafore. Probabilmente oggi nemmeno il più ottuso degli algoritmi tradurrebbe più “lo spirito e la carne” con “l’alcol e la bistecca”. Ma dubito che anche il più brillante degli algoritmi sia in grado di inventare una metafora potente, illuminante, nuova se non procedendo in modo casuale, ed essendo dunque incapace di riconoscerla se anche riuscisse a formularla.

5) valorizzare la componente sensoriale: magari un robot sa anche distinguere la sottile sfumatura che separa “urticante” da “pruriginoso” ma, poverino, non si è mai grattato e non ha mai sperimentato quel prurito lì.

6) progettare testi che contengano un’idea, un punto di vista, una chiave di lettura, una proposta. Che abbiano una dimensione etica. Una struttura solida. O rimescolare le carte: integrare dati provenienti da campi diversi, intercettare fenomeni che sono ancora sotto traccia, andare a frugare nelle zone di confine. O coltivare il dubbio e valorizzare l’incertezza: due cose che, se i robot potessero soffrire di orticaria, gliela farebbero venire.

7) soprattutto, progettare testi che possano incuriosire, interessare, commuovere o far ridere, informare o intrattenere e possibilmente sedurre lettori umani. Se il vostro lettore-modello è un motore di ricerca, la sfida contro i robot che scrivono è perduta in partenza.

10 risposte

  1. Mentre leggevo mi è tornato in mente il corso (così volgarmente abbreviato all’epoca) di “struttura” a Design della Comunicazione @Poli BV. Al momento mi sfugge il nome del prof, è passato un po’ di tempo, ma mi premeva raccontare una cosa interessante, ovvero il contenuto del corso, che non potendo essere come per i colleghi di interni/prodotto un vero corso di strutture (fisica dei materiali), era stato rigirato come “strutture ipermediali”. Nomi altisonanti per studiare quanto hai appena descritto, dal lato dei bot però! ovvero scovare nella realtà delle “grammatiche”, per poi analizzarle e provare a costruire una sorta di intelligenza artificiale che fosse in grado di generare oggetti appartenenti alla stessa classe di quelli analizzati. Erano venute fuori cose interessanti come un generatore di fiabe (a partire da Propp, che forse hai già trattato) o divertenti come un generatore di nomi di paesi brianzoli.

  2. Come traduttore, con i robot alle calcagna, bisogna che mi stampi bene le 7 massime per far venire anche le piattole a googletranslate – grazie lucente AMT!

  3. Il generatore di nomi di paesi brianzoli mi sembra meraviglioso. Per gli amici non lombardi: in Brianza abbiamo luoghi che si chiamano Usmate, Lurate Caccivio, Ornago, Caronno Pertusella, Monate, Leggiùno…

  4. La scrittura automatica che corregge gli errori ortografici all’istante mi irrita molto perché cristallizza lo spontaneismo linguistico, oltre che fraintende e trasforma coercitivamente i termini dialettali in parole altre. Spesso però l’effetto è buffo!
    Insomma dalla scrittura automatica surrealista a quella dei robot…l’importante è non piombare in una nuova preistoria dall’alfabeto cuneiforme…

    PS. quando formulo in testa a me certi perché, Annamaria Testa ha già scritto l’articolo! Fa che è il robot nella mia Testa che vive, insegna e lavora a Milano?

    Grazie Nuovo e Utile di nome e di fatto

    🙂

  5. Si ridiamo pure dei correttori e degli scrittori stereotipati computerizzati, ora che possiamo! Ma diamogli qualche anno di tempo(anche se non glielo diamo se lo prenderanno lo stesso) e questo sorriso si spegnerà sulla nostre labbra: ormai il dado è tratto: i computer diventeranno migliori di noi: più efficienti, più creativi e produttivi di quanto qualsiasi essere umano potrà mai essere. Come noi rappresentiamo degli dei rispetto ai batteri, così i computer del futuro rappresenteranno il nostro prossimo salto evolutivo. Spero che accada dopo di me… 🙂

  6. A questo punto speriamo che sui quotidiani-robot frasi come ad esempio “Nuova manovra del governo” non finisca nella sezione trasporti, oppure “il giocatore si mangia tre gol” non finisca nella sezione Salute e Alimentazione …

    Ci sostituiranno forse, ma le differenze ci saranno sempre … ci saranno sempre … ci saranno sempre … ci saranno sempre … !! SYNTAX ERROR !!

    In fondo a noi basta “togliere corrente” e, a lume di candela, scrive su un banale foglio con penna o matita: ci saranno sempre differenze.

  7. Come si fa ad aver paura del dispotismo di una macchina? Nessun robot diventerà mai un mito, né verrà ricordato per le sue gesta o, peggio, per le sue idee. La spiritualità ha un valore culturale inestimabile e irripetibile. Soccomberemo ai robot solo se lo vorremo. Come? Adeguandoci passivamente, delegando ai poteri forti il diritto di decidere delle nostre vite sulla base di dubbi criteri economici. Preservando la nostra umanità, conserveremo il “valore aggiunto” che neanche la macchina più perfetta possiede né può possedere, a prescindere dalla genialità di chi la inventa. Solo in un film ridicolo riesco ad immaginare un robot che asciuga una lacrima ad un altro robot!

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