sopravvivere a un rifiuto

Come sopravvivere a un rifiuto, anche se (urca!) fa male – Metodo 77

In inglese il termine rejection significa molte cose: sia rifiuto (di una candidatura, di una proposta o di un’idea. Per esempio, di un manoscritto da parte di un editore. Ma anche di una proposta di matrimonio), sia ripulsa, sia rigetto (per esempio, di un organo in seguito a un trapianto). In italiano, rifiuto ci fa addirittura venire in mente la spazzatura.
Lasciando perdere sia i trapianti sia il pattume: come reagire in tutti gli altri casi?

Un rifiuto può causare quattro distinti danni psicologici, scrive Saloon: provoca un dolore così intenso da impedirci di pensare, ci riempie di rabbia, diminuisce l’autostima e la fiducia in noi stessi, riduce il nostro senso di appartenenza.
Anche se di norma i rifiuti che riceviamo sono (almeno formalmente) cortesi, possono comunque causare ferite che, se non curate, rischiano di infettarsi. La prima ferita consiste nel sentirci tagliati fuori: un “pugno nello stomaco” che riguarda il nostro stesso esserci evoluti come “animali sociali” che vivevano in tribù, e che rimanda a un remoto passato precivilizzato in cui essere esclusi dal gruppo poteva significare, testualmente, dover affrontare da soli bestioni pericolosi, non avere riserve di cibo sufficienti e, in sostanza, rimetterci la vita.
Proprio per questo il nostro cervello ha sviluppato un sofisticato sistema di allarme nei confronti dei segnali di ostracismo, e proprio per questo reagiamo al rifiuto in maniera così intensa, sperimentando un vero e proprio dolore fisico. La prova sperimentale che di reale dolore fisico si tratti è questa: un rifiuto può essere meglio sopportato grazie all’assunzione di un antidolorifico.

Psychology Today riprende le argomentazioni di Saloon e aggiunge qualche elemento ulteriore: mentre il dolore fisico si scorda più facilmente, il dolore sociale conseguente a un rifiuto resta più vividamente impresso nella memoria. D’altra parte, la cosa peggiore da fare dopo aver subito un rifiuto è isolarsi: poiché è il nostro senso di appartenenza ad essere ferito, cercare conforto presso amici e persone care è un buon rimedio.
Inoltre: per gli adolescenti, l’esperienza di subire un rifiuto è particolarmente grave, e può incrementare l’aggressività. Distruggendo l’autostima, il fatto di subire un rifiuto abbassa addirittura il quoziente intellettivo di chi si sente rifiutato, e peggiora (questo è stato verificato sperimentalmente) sia la memoria a breve termine, sia la capacità di risolvere problemi. E questo capita perfino quando si pensa a un rifiuto subìto in passato.

Sia Saloon sia Psychology Today rimandano a un libro dello psicologo Guy Winch, il quale racconta in una Ted Conference che le ferite dell’anima conseguenti a un rifiuto si possono curare, proprio come si curano le ferite del corpo. Purtroppo non ci sono ancora i sottotitoli in italiano (qualche candidato, magari?).
In estrema sintesi: Winch dice che a tutti capita di fallire. È il sapersi convincere che un singolo fallimento non pregiudica successi futuri a fare la differenza: dunque, bisogna evitare di colpevolizzarsi inutilmente, anche se l’autostima cala in un battibaleno. “Trattati come se fossi il tuo migliore amico”, dice Winch. Proteggiti. Evita di ruminare sui tuoi fallimenti e pensa a qualcos’altro.

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Volete qualche altro buon consiglio su come affrontare un rifiuto, quale esso sia (amore, lavoro, amici, manoscritti o qualsiasi altra cosa)? Leggete qui. Tra i suggerimenti: prendetevi del tempo per elaborare il lutto, ma non state lì a crogiolarvi nella vostra infelicità (cinema e cioccolata sono buoni rimedi). Parlate con un amico fidato, ma evitate di autocommiserarvi sui social media. Non state a pensare che sia “colpa vostra”. Cimentatevi con qualcos’altro. State attenti a come verbalizzate il rifiuto (meglio un “non ha funzionato” che un “ho subito un rifiuto”). Non mollate e concedetevi di provare altre strade, ma ricordate che nessuno (e neanche voi) ha il diritto di ricevere sempre risposte positive: essere rifiutati è un fatto della vita, e non deve determinare il vostro futuro.

Ora, e a proposito di rifiuti che bruciano, vi porto a conoscere un intero sito sulle opere letterarie rifiutate dagli editori. Qui un elenco di best seller rifiutati: ci sono passati non solo la Rowling e Tomasi di Lampedusa, ma anche Agatha Christie, e il dr. Seuss, C.S. Lewis (l’autore delle Cronache di Narnia). Paulo Coelho, J.D. Salinger con Il giovane Holden, Nabokov con Lolita, la Stephania Meyer di Twilight, il Jack Kerouac di On the road e il giovane James Joyce, che riceve 22 rifiuti prima di riuscire a pubblicare Gente di Dublino. Vien quasi da pensare che, se non collezioni un congruo numero di rifiuti, non sei un vero autore.

Qui, invece, una graziosa analisi del classico incipit (we regret to inform you. Cioè, siamo spiacenti di comunicarle) di molte lettere di rifiuto anglosassoni, non solo di ambito letterario.
Ora, proviamo a estendere il concetto: se non hai messo insieme almeno un po’ di rifiuti, vuol dire che non hai mai provato sul serio a fare qualcosa di nuovo o di sfidante.
Se invece non si tratta né di scienza né di letteratura né di lavoro, ma di faccende amorose, ascoltatevi Due di Picche.

Le immagini sono dettagli di opere di René Magritte. Se vi è piaciuto questo articolo potreste leggere anche:
Metodo 50. La creatività? Fare, rischiare, fallire e niente paura
Metodo 47: errori, mancanze, omissioni, lacune e refusi

15 risposte

  1. In Italia non c’è quasi più neppure l’abitudine a rispondere da parte di chi rifiuta. La mia micro-struttura riceve in media tre-quattro curriculum al mese di persone, collocate a vari livelli, che si candidano per un posto di lavoro a cui devo purtroppo rispondere sempre con l’equivalente del classico “We regret to inform you…” Non sono rare le persone che mi riscrivono ringranziandomi per il solo fatto di aver ottenuto una risposta, anche se negativa. Tanto per dire.

    1. La mia formula, con varianti (quando le proposte sono scritte senza errori, svarioni o richieste fuori contesto) è: “La ringrazio per la sua candidatura che considero un’opportunità che mi viene offerta. Mi spiace dirle che non sussistono, per ora, le condizioni ecc.”
      Riflettendo, però (Metodo 68), sulla seconda frase, mi chiedo se le condizioni avranno mai modo di ripresentarsi o se questa crisi, invece di essere un banale errore di percorso per il quale basta qualche twitter d’ottimismo a rimetterci in carreggiata, non sia, piuttosto, il risultato di una crisi sistemica che potrà forse risolversi solo con nuovi paradigmi che non siano quelli della crescita a dismisura e della finanzocrazia.

  2. A volte, conoscendo i miei polli, sapevo già che avrebbero preferito l’alternativa che a me piaceva meno. A pensarci bene, però, qualche rifiuto brucia ancora. Ho la presunzione di ritenere di essere stato, una volta ogni cinque anni, in anticipo sui tempi e questa diacronia contrasta con il tema ricorrente della non-mai-abbastanza creatività.
    Perché occorre essere creativi ma anche in sintonia coi tempi e con la cultura d’impresa, quindi innovare sì ma poco che poi quelli (i consumatori) non capiscono.
    Però, a pensarci, sono più i rifiuti che pronunciamo che quelli che riceviamo, e anche questo è un bel problemino. Questa mattina ho rifiutato tre offerte irrinunciabili di altrettante compagnie telefoniche, una proposta di caffè in cialda macchina inclusa, un contratto luce&gas. E siamo solo a lunedì.
    “Sì, un attimo che arriva il capo” e ho lasciato l’operatore lì ad aspettare sin quanto non si è stufato.
    “Filomena! Vieni! Vieni a sentiri! La Direzzione commerciale di telecom a noi chiamò! Mica un venditori qualisiasi è! Proprio il diretturi!” (Ma guarda quanti danni ha fatto quel vecchiaccio balordo di Camilleri 🙂 , però il chiamante ha riso.
    “Ah! Grazie, sì che m’interessa! L’attuale gestore mi sta staccando la linea perché non ho pagato le ultime tre bollette”.
    Sono iscritto al Registro delle Opposizioni dall’inizio, ma è come se non lo fossi.
    Sino a qualche tempo fa si poteva fare conversazione, chiedere che tempo fa a sa ‘illetta o come vanno gli studi con la prof. Giovanna, essere più umani e ammantare il rifiuto con un minimo di buonismo solidale. Ho provato con i Cinesi, ma sono troppo ligi, non derogano dalla formula e il rifiuto passa sopra le loro teste. Forse dovremmo adeguarci.

  3. Interessante. Nello specifico delle relazioni, a me però è capitato di vedere queste cose in persone che hanno rifiutato, ma per rifiutare hanno avuto bisogno di far male, di incattivirsi, di sentirsi comunque vittime. È un meccanismo perverso che però – immagino – produce le energie necessarie per rifiutare qualcosa che evidentemente hai subìto più che vissuto. Ma sto solo immaginando perché io voglio bene e ho sempre voluto bene a chi ho amato. Anche dopo che mi ha rifiutato, cacciato, dimenticato. Non volere più bene a loro, sarebbe un ulteriore fallimento e un insulto al mio/nostro passato…

  4. Concordo in pieno con il Sig. Rodolfo, il quale descrive benissimo la realtà italiana, a cui aggiungo una mancanza di educazione da parte di chi non risponde. Nonostante questo, con determinazione, continuo a cercare un’occupazione ma piovono a frotte solo lavori GRATIS o perché “il profilo è troppo qualificato” oppure perché “abbiamo optato per una soluzione interna” o ancora semplicemente perché si vogliono lavorativamente sfruttare le persone che nel proprio lavoro ci mettono Passione.
    Poi le delusioni capitano a tutti, coraggio!

  5. I rifiuti fanno male, ma fanno crescere.
    A distanza di anni mi sono ritrovato a ringraziare di cuore chi, nel corso della mia vita, rifiutando me, o le mie proposte, o il mio lavoro, mi ha permesso di abbandonare strade, lavori, strategie e stili di vita che non mi erano congeniali e di trovare soluzioni alternative e creative che mi hanno fatto diventare un essere più felice e maturo: Viva i rifiuti!!!

  6. Ma le lettere di rifiuto sono belle, perché sono un segno di educazione da parte di chi le manda e uno strumento pedagogico per chi le riceve. A me piacerebbe riceverne di più. Negli ultimi due mesi ho mandato oltre trenta mail con il mio cv perché vorrei cambiare lavoro; sapete in quanti mi hanno risposto? Ve lo dico io, in quattro: una lettera di rifiuto decisamente standardizzata, una positiva(e infatti nascerà una piccola collaborazione), e altre due di rifiuto (come la prima) ma più personali e in qualche modo circostanziate (e sono quelle che fanno bene, a chi le manda e a chi le riceve). Tutti i link e gli esempi che Annamaria riporta sono tratti da siti stranieri, perché in Italia, purtroppo, il problema non è ricevere una rejection, ma non ricevere (quasi) mai risposta.

  7. Quando una lettera di rifuto può essere originale e divertente. L’editore Arthur C. Fifield alla poetessa/autrice Gertrude Stein che aveva modo scrivere ripetitivo e seguiva flusso di coscienza.

    DA ARTHUR C. FIFIELD, PUBLISHER, 13 CLIFFORD’S INN, LONDON, E.C.

    TELEPHONE 14430 CENTRAL

    19 aprile 1912

    Cara signora,
    sono solo uno, solo uno, solo uno. Un solo essere vivente, uno allo stesso tempo. Non due, non tre, solo uno. Una sola vita da vivere, solo sessanta minuti in un’ora. Due soli occhi. Un solo cervello. Un solo essere vivente. Essendo solo uno, avendo due soli occhi, avendo un solo tempo, una sola vita, non posso leggere il suo manoscritto tre o quattro volte. Nemmeno una volta. Una sola occhiata, un solo sguardo è sufficiente. Non venderebbe nemmeno una copia. Nemmeno una. Nemmeno una.
    La ringrazio molto. Le restituirò il manoscritto con posta raccomandata. Un solo manoscritto, una sola posta.
    Cordialmente,
    (Firma)

    Miss Gertrude Stein,
    27 Rue de Fleurus,
    Paris,
    France.

  8. …ma “Due di picche” narra di uno che non può più fare a meno dell’amata… sniff sniff… e J-Ax che mostra il dito anulare con la fede non si può vedere… sniff sniff…

  9. Salve. Voreei fare una domanda. Se una persona ha paura del nostro rifiuto, significa che ci ritiene importanti in qualche modo?

  10. Io vengo spesso rifiutata, e ogni volta mi devo scervellare sul perché, su che cosa è andato storto, e in genere do la colpa al mio caratterino poco propenso alla ruffianeria, dopo anni di terapia ho imparato a credere che a volte è colpa dell’altro, dei suoi limiti, gusti, scelte, che io non ho niente che non va non ho il dovere di piacere a tutti… Ma perché poi vogliamo tanto piacere a tutti? Siamo sempre in mostra, sempre in gara, sempre in cerca di voti, sempre in cerca di complimenti, sempre in cerca di like…. Vanità? Delirio di potenza? Istinto di conquista per la riproduzione? Ricerca d’amore? Paura di essere emarginati,
    condannati e gisutiziati perché “non vai bene”, tu, essere abietto? Perché, Perché è così importante? Cerco di valutare quello che provo quando io rifiuto: disgusto, rabbia, leggero sadismo. Il mio rifiuto è pura cattiveria. Oddio sarà così anche per gli altri? Cerco di mitigarla dando una spiegazione e scusandomi per la mia scelta non mi piace ferire le persone . La motivazione fa una buona differenza.

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