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Gli studenti italiani non sanno l’italiano. Ma non è un fatto nuovo

Seicento docenti scrivono al presidente Mattarella e al Miur denunciando che in Italia gli studenti non sanno l’italiano. Sono linguisti, storici, filosofi, matematici, costituzionalisti, economisti, sociologi. L’appello parte dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. La notizia esce sui maggiori quotidiani nazionali.

SCRIVONO MALE, LEGGONO POCO, SI ESPRIMONO A FATICA. È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente, dice il messaggio dei docenti. E ancora:  da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana.
Qui il testo completo.

COMUNICATORI ANALFABETI. L’allarme è sacrosanto. Non riguarda solo le facoltà scientifiche, ma anche quelle umanistiche. Ho visto laureare in Scienze della comunicazione alcuni studenti (e grazie al cielo non sono tutti così)  tecnicamente analfabeti. E magari il voto di laurea era basso ma, insomma, la laurea c’era, col suo lieto contorno di serti d’alloro e parenti in festa.

“Tecnicamente analfabeti” significa: incapaci di produrre un discorso articolato e coerente. Incapaci di scrivere un testo corretto. E perfino incapaci di copiare e incollare in modo accorto: sì, anche per fare copia-e-incolla in modo decente è necessario, prima, capire e scegliere quel che si sta copiando e incollando. Continua a essere necessario anche se quella che una volta era la tesi di laurea si è trasformata in una manciata di schermate in PowerPoint.
Non ho la più pallida idea di che mestiere possano fare oggi, quei ragazzi, e come.

UN PASSO INDIETRO. Che seicento docenti, finalmente, scrivano che la situazione è grave è una bella notizia. Non è invece una “notizia” (nel senso proprio del termine: informazione relativa a un fatto di pubblico interesse, di norma recente) il pessimo rapporto esistente tra studenti italiani e lingua italiana.

A fine 2009 i test d’ingresso alle facoltà universitarie dicono che la maggioranza degli studenti non sa usare l’italiano e Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, li definisce serenamente “semianalfabeti”. È l’incipit di un articolo che ho pubblicato, qui su NeU, nel gennaio del 2010. L’articolo cita i risultati dei test d’ingresso alle università italiane del 2009 e i risultati dei test Invalsi del 2007.

studenti italiani non sanno italiano

NEL FRATTEMPO. Nel frattempo si diffondono gli insegnamenti in inglese all’università (e qui siamo arrivati al 2012). Così la parte di studenti che già è a disagio con l’italiano può essere a disagio in due lingue.
Non sto dicendo che imparare l’inglese sia sbagliato: é utile, necessario e vantaggioso. Sto dicendo che ha poco senso imparare un’altra lingua se si conosce e si usa male perfino la propria.
Sto dicendo che insegnare (non so quanto bene, tra l’altro) in inglese a studenti italiani che hanno già difficoltà con l’italiano moltiplica i problemi e non le opportunità.

Nel frattempo ci stupiamo perché molti ragazzi non sanno fare in rete una semplice ricerca per parole-chiave. Ci stupiamo perché nei social network si esprimono in modo spesso rozzo (e, troppo spesso, violento), dimenticando che la scarsa padronanza delle parole può impedire si fare distinzioni,  e rende più difficile ragionare.

Nel frattempo i nuovi dati Ocse-Pisa confermano che le prestazioni dei nostri studenti nella lettura continuano a essere sotto la media europea, e non migliorano rispetto al 2000 e al 2009.
Nel frattempo in Italia diminuiscono i lettori (sì, c’è un calo anche fra i più giovani) e la propensione alla lettura. Ve ne riparlo nel prossimo articolo, ma dai, non bisogna essere dei campioni di logica per capire che tra lettura, comprensione e competenze linguistiche qualche connessione c’è.

NEL FRATTEMPO, IL MIUR. Nel frattempo vien fuori che, ehm ehm, anche il Miur, che delle competenze linguistiche dei ragazzi potrebbe e dovrebbe occuparsi e preoccuparsi, ha perso interesse e contatto con la nostra madrelingua. L’ha perso tanto da non riuscire a tradurre, nei propri documenti programmatici, termini inglesi come learning by doing, che sarebbe l’imparare facendo di Maria Montessori. Il risultato è un anglo-pedagoghese astruso ed esoterico, che certo non aiuta.

PENSIAMO POSITIVO. Ricominciamo a lavorare coi dettati ortografici, i riassunti, le verifiche di comprensione dei testi e la scrittura corsiva a mano, suggeriscono i seicento docenti. Aggiungerei: non sarebbe male se il Miur, con l’italiano, desse il buon esempio.
Aggiungerei inoltre: favoriamo la lettura, come da sempre suggerisce il grande Benedetto Vertecchi. E aiutiamo le molte biblioteche scolastiche che sono disastrate. La ministra Fedeli promette di portare libri e quotidiani in classe: speriamo che succeda.

Si possono imparare parole nuove, e si può imparare a unirle in discorsi che hanno senso, sia facendo un noioso, anche se utile, esercizio di grammatica, sia leggendo e discutendo una magnifica storia o una notizia che aiuta a capire il mondo. Non ho mai, mai trovato un forte lettore che avesse scarse competenze linguistiche.

ITALIANO SCOLASTICO? Già ora, a proposito dell’inglese, si usa la definizione “inglese scolastico” per indicare il livello più basso delle competenze. Non vorrei che tra un po’ fossimo costretti a usare la simmetrica definizione “italiano scolastico” per indicare lo scarso italiano appreso nelle nostre scuole.
Le immagini che illustrano questo articolo sono dettagli dei lavori di Benjamin Zank.

12 risposte

  1. Corsi in inglese li fanno perfino al liceo sotto casa. Vorrei sbagliarmi, ma, oltre a matematica, anche italiano

  2. La speranza è l’ultima a tramortire, ovvero di cosa stiamo parlando? Già ai miei tempi (anni Settanta) nel liceo classico di provincia dove ho conseguito il diploma alternavamo professori di altissima preparazione e cultura ad analfabeti funzionali, in grado di decifrare il fatto che tu sapessi o non sapessi la corretta desinenza di un verbo latino ma non di darci una spiegazione decente di una pagina di letteratura, italiana, latina o greca che fosse, figuriamoci di Dante! Passata la maturità (con un voto decisamente alto per le mie reali conoscenze che erano fra lo scarso e l’insufficiente. Ma gli unici sessanta che vennero dati erano a persone molto forti sul nozionismo, ben poco nel ragionamento e nell’applicazione creativa) sono piombato all’Università, in una grande città del centro nord, dove alternavo professori innamorati della loro materia con baroni aridi e avidi che nulla davano e molto tentavano di prendere. Già la facoltà non l’avevo scelta io ma i miei genitori, alla fine per barcamenarmi economicamente intanto che intraprendevo la professione giornalistica ho finito per scrivere tesi per conto terzi (uno sforzo non da ridere, prima di internet), in tutto almeno una decina, senza laurearmi io. E a un paio di lauree a cui ho assistito i miei “clienti” non erano stati in grado neppure di ripetere a pappagallo quello che avevo scritto loro. Visto il mestiere e la vocazione non si può dire che scrivessi in un italiano poco comprensibile… Ho sempre pensato che l’esame di maturità, così come è concepito, sia una farsa. E che non dovrebbe esserci accesso all’Università senza un test d’ingresso sulla capacità di comprensione delle materie da studiare, non solo a medicina ma anche in facoltà come lettere e giurisprudenza, oggi veri e propri ricettacoli di analfabeti non solo di ritorno ma, sospetto, anche all’andata…

  3. Negli anni ’80 frequentavo i corsi di Didattica del latino all’Università di Padova. Venni a conoscenza di teorie quali grammatica valenziale e grammatica generativa, studiavamo de Saussure, Chomsky, De Mauro e altri maestri. Ne trassi indubbi vantaggi sul piano della comprensione linguistica. Già allora si diceva che l’insegnamento dell’italiano era informato da quello del latino, come se le due lingue si equivalessero. E, a quel tempo, i miei compagni di corso mi guardavano quasi sorpresi che scegliessi la docenza come futuro. ero uno dei pochi che voleva insegnare. La cosa paradossale è che io, poi, non ho mai insegnato (o, forse, insegno in altri ambiti e al di fuori di aule scolastiche), mentre tanti miei colleghi (senza corsi di didattica, linguistica, pedagogia) sono docenti di ruolo. Credo non si abbiamo mai a sufficienza l’obiettivo centrale dell’insegnamento: gli studenti e il loro benessere, la loro crescita intellettiva e lo scambio di quegli insegnamenti nella vita.

  4. Io ho sempre letto tantissimi fumetti e credo che mi abbiano aiutato molto. Topolino a suo tempo (anni ’80) e ora tanti altri. Credo che Dago, per la cura narrativa e grafica, sia uno dei migliori in circolazione. E da prof di inglese confermo che il problema nell’apprendimento delle lingue è in molto casi da ricondurre alla conoscenza poco formale dell’italiano.
    Non sono d’accordo sul fatto che non sanno, perché lo usano molto e in modo molto creativo. Non hanno però fatto abbastanza analisi, non distinguono un pronome da un avverbio. E questo, se è trascurabile quando usi una lingua sola, è drammatico quando ne devi innestare un’altra sopra.

  5. Pur constatando amaramente lo scarso livello di linguaggio e di pensiero imperante (madre di due adolescenti, sic!) nonché la qualità dubbia e discontinua dell’apparato scolastico, le 3 proposte formulate nel documento dai 600 docenti mi sconcertano. Le trovo astratte, banali e per nulla risolutive. Inoltre presuppongono una sorta di alterità onnipotente da parte degli insegnanti. Bene che si affronti la questione, male che ci si permetta di consigliare così, a ciel sereno. Bene affrontare la complessità a pezzetti iniziando dalla grammatica, male mandare il messaggio che la discesa culturale si possa contenere con questi mezzi.
    Poi una domanda, la solita: Chi controlla i controllori?

  6. ….e finché gli studenti universitari sosterranno gli esami,tesi a conseguire lauree soprattutto umanistiche, tramite test le cui risposte sono limitate all’apposizione di “crocette”, tali universitari non impareranno certo a d esprimersi o ad esporre un a tesi sufficientemente articolata o argomentata. Non si abitueranno a parlare guardando negli occhi l’esaminatore, non saranno in grado di discutere vis a vis…, non si sforzeranno di comprendere, dalla gestualità, dalla mimica facciale, “cosa frulla nella testa del prof.”

  7. “Si possono imparare parole nuove, e si può imparare a unirle in discorsi che hanno senso,…”
    …che ABBIANO….e non HANNO..

  8. Una soluzione?
    Bocciare gli studenti che non hanno una preparazione ADEGUATA!
    Esami, interrogazioni e compiti in classe SERI e SEVERI!

  9. Gli studenti italiani non sanno l’italiano?
    Ma se neanche i nostri ministri lo sanno (vedi la Fedeli) come possiamo pretendere dai nostri giovani?
    Il buon esempio non viene dall’alto?
    😉

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