tra italiano e itanglese

Italiano e itanglese: perché torno a parlarne

La recente notizia che Facebook avrà una task force per il fact checking delle fake news è confortante, ma il modo in cui viene diffusa lo è meno: è ancora italiano, questo testo (sei parole inglesi su un totale di undici)?
E che ci vorrà mai a dire: Facebook avrà una squadra per verificare le notizie?
È perfino più breve. E sarebbe perfino più preciso (il fact checking, in realtà, si fa sulle news per scovare i fake, e non sulle fake news, la cui individuazione è il risultato finale del processo). Ma forse sembra meno attraente.
La cosa curiosa è questa (e un recente viaggio mi ha permesso di verificarla ancora una volta): negli Stati Uniti, per esempio, ciò che vuol essere attraente, gustoso, alla moda, elegante (e costoso) tende a darsi nomi (o almeno suoni) italiani, o descrizioni in italiano, o  una spruzzata di italiano da qualche parte.
Sembrerebbe che gli unici ad essere impermeabili alla seduzione della nostra lingua siamo proprio noi, che la parliamo (beh, ormai la parliamo più o meno) tutti i giorni.
Tutto ciò mi suggerisce di presentarvi qui la prefazione che ho scritto di recente per un libro che il saggista Antonio Zoppetti ha dedicato a questo tema. Già nel titolo, il libro rimanda a un appello lanciato da NeU, e ai diversi altri articoli che l’hanno preceduto e seguito.

UNA QUESTIONE CHE CI RIGUARDA. Già, che cos’è l’itanglese? Una moda? Un segno di provincialismo? Un fatto di pigrizia? Di superficialità? Un espediente per pavoneggiarsi davanti agli interlocutori? …per intimidirli? …per ingannarli? È il latinorum contemporaneo? Un effetto collaterale dell’importare pratiche, discipline e tecnologie nate e sviluppate altrove, senza riuscire a farle davvero nostre? O si tratta del segno che l’italiano di molti italiani è, come afferma Zoppetti, fragile?
Sta di fatto che continuo a chiedermi che cos’ha in mente il redattore che scrive gli influencer sono trend setter by definition: per questo il loro outfit è sempre cool. O la società di telefonia mobile che mi invia il messaggio: il report con le tue performance di aprile è online, per dirmi che in rete trovo i consumi del cellulare.

VIVERE IN ITANGLESE. Di fatto oggi, nel nostro paese, sempre più spesso le persone si informano, viaggiano, pagano pedaggi, bollette e tasse, lavorano, si tengono in forma, giocano e mangiano in itanglese.
In itanglese si legifera, si delibera e si diffondono precetti. Perfino il Miur, redigendo il recente Piano per la formazione dei docenti, sguazza felice in un mare di peer teaching, mentoring e learning by doing, flipped classroom e job shadowing, counseling e workshop, panel e feedback e fall-out, expertise e soft skills.

PAROLE UTILI E PERDUTE. Scegliendo l’itanglese, ci stiamo perdendo per strada molte parole italiane utili a nominare concetti, oggetti e azioni della quotidianità (perché mai, raccontando e promuovendo i prodotti del territorio, scriviamo sempre più spesso food e wine invece di “cibo” e “vino”? Perché un pranzo leggero è un light lunch? Perché dobbiamo compilare un form e non un modulo?).
Stiamo rinunciando a dotarci di parole utili a nominare concetti, oggetti e azioni della modernità: perché mai il ministero non esplicita che le soft skills, così importanti per il futuro dei nostri ragazzi, non sono altro che competenze trasversali (capacità di capire e risolvere problemi, di entrare in relazione, di guidare le persone, di lavorare in gruppo)?

QUESTIONE DI SFUMATURE. Ci perdiamo parole utili a trasmettere sfumature importanti per la comprensione. Chi, per esempio, parla di location, intende indicare ciò che in italiano è una località, un sito, una posizione, un indirizzo, una sede, un edificio, un ambiente, una sala? La cosa certa è che raramente userà il termine nella sua accezione originale: gli esterni scelti per effettuare una ripresa cinematografica o televisiva.
Qualche tempo fa, un collega mi ha scritto: ho appena spedito un messaggio a un cliente. Quando l’ho riletto prima di inviarlo, mi sono accorto che di italiano c’erano solo le congiunzioni.

USIAMO UNA LINGUA CHE NON CONOSCIAMO. Antonio Zoppetti ha raccolto con ammirevole puntiglio una quantità di casi ed esempi. Ma, dopotutto, le lingue vive cambiano, si evolvono e si contaminano. L’inglese è svelto, comodo e cosmopolita. Allora dov’è il problema? E in che modo la questione dell’itanglese riguarda tutti noi?
Casi ed esempi dicono poco, se non vengono accostati ai dati raccolti da Zoppetti. Sono questi a dar conto dell’attuale pervasività dell’itanglese. Vi faccio una singola anticipazione: la società di traduzioni aziendali Agostini Associati rileva un aumento degli anglicismi del 773 per cento tra il 2000 e il 2009, e ulteriori incrementi del 223 per cento nel 2010, del 343 per cento nel 2011, del 440 per cento nel 2014.
Ma proviamo ad accostare, a questo, un altro dato: secondo il Rapporto EF EPI (English Proficiency Index) del 2016, l’Italia è solo ventunesima su ventisei paesi europei per conoscenza dell’inglese.

PRODURRE RUMORE. Ed eccoci a un punto rilevante: se ad alcuni, e forse a molti, per pura incompetenza dell’inglese molte parole dell’itanglese risultano sfuocate, o del tutto oscure e indecifrabili, vuol dire che, oltre a dimenticarci (o a non inventare) utili parole italiane, scegliendo l’itanglese ci perdiamo il vantaggio del capirci bene quando comunichiamo. E questo è grave.
Lo affermavano Shannon e Weaver, già a metà del secolo scorso: va considerato rumore (cioè: un puro disturbo della comunicazione) tutto ciò che, all’interno di un messaggio il destinatario non è in grado di decodificare in modo corretto.

SOFT SKILLS… CIOÈ? È ancora il rapporto EF EPI del 2016 a dirci che non solo in Italia ma in tutto il mondo il settore dell’istruzione è ampiamente sotto media per conoscenza dell’inglese. È assai probabile, dunque, che quando scrive soft skills il nostro Miur scelga un termine che risulta opaco a molti, ostacolando, e non promuovendo, la propensione dei docenti a sviluppare le indispensabili competenze trasversali nei ragazzi.

LA VIA PIÙ LUNGA. I due fenomeni (pervasività dell’itanglese e modesta conoscenza della lingua inglese) sembrerebbero contrastanti, ma in realtà non lo sono. A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo come faceva l‘“americano” di Sordi e di Carosone e come fanno troppi ignoranti, scrive Tullio De Mauro. E aggiunge che correggere il grave, persistente analfabetismo nazionale in materia di lingue straniere, inglese compreso, è una via più lunga, ma forse più produttiva di qualche ukaz contro i mali anglismi.
È una visione saggia e del tutto condivisibile. Ma, appunto, riguarda una via più lunga, e ci vorranno decenni per percorrerla tutta dato che, secondo i dati Eurobarometro 2012, solo il 40 per cento degli italiani conosce l’inglese, e solo il 34 per cento si ritiene in grado di sostenere una conversazione in quella lingua. Dubito che negli ultimissimi anni la situazione sia migliorata in modo sostanziale.

PAROLE E POTERE. Preoccuparsi delle questioni della lingua con cui ci si parla non è un fatto di purismo, di estetica o di nostalgia del passato. È una questione cruciale. E non è un problema marginale, ma un tema che riguarda il presente e il futuro, a livello sia individuale sia collettivo.
Il motivo è semplice: tra parole e potere esistono molti legami.
Parole e potere hanno un legame per gli individui: essere padroni delle parole è, ce lo diceva già don Milani, una condizione per essere padroni del proprio pensiero e del proprio destino. Ma l’abuso dell’itanglese può espropriare molte persone (ricordiamoci i dati Eurobarometer) del senso compiuto dei discorsi, rendendole un po’ meno consapevoli e capaci di esercitare le proprie scelte anche in ambiti fondamentali come la politica, l’economia e la finanza, la salute.

POTERE MORBIDO. Parole e potere hanno un legame forte anche per la collettività: è il nostro Ministero degli affari esteri a ricordarci che la lingua italiana, che gli stranieri giudicano tanto attraente da farne la quarta (o quinta) più studiata al mondo, è uno straordinario strumento di soft power (ad oggi non abbiamo una traduzione accreditata per questo concetto, ma potremmo dire “potere morbido”).
Il concetto di potere morbido, formulato alla fine del secolo corso dal politologo Joseph Nye, dell’università di Harvard, riguarda la capacità di influenzare gli interlocutori suscitandone il consenso attraverso la seduzione e la desiderabilità. È un tipo di influenza che una nazione riesce a esercitare anche senza essere una grande potenza economica o militare.
C’è una classifica internazionale del potere morbido: nel 2016 l’Italia è undicesima, prima della Spagna e dopo l’Olanda, e sta guadagnando posizioni. Tutelare e promuovere la lingua italiana, già così desiderabile e seduttiva, può aiutare il nostro paese a rafforzare il proprio prestigio nel mondo.

UNA LINGUA DA ESPORTAZIONE. Ma non solo. Promuovere l’italiano (e usarlo per i marchi, i nomi dei prodotti, la pubblicità…) può aiutare anche le nostre imprese a tutelare le esportazioni, contrastando il fenomeno dei prodotti contraffatti: quelli che si fingono italiani proprio dotandosi di nomi e marchi che “suonano” italiani.
È un fenomeno imponente, che vale 60 miliardi di euro e oltre 300.000 posti di lavoro nel solo settore agroalimentare. Non a caso Fondazione Altagamma, l’associazione che raccoglie le imprese d’eccellenza nel nostro paese, ha di recente scelto di dotarsi di una definizione istituzionale in italiano. Sarebbe un esempio da seguire.

UNA ESORTAZIONE CONDIVISA. Nel 2015 ho lanciato in rete una iniziativa per sensibilizzare le persone sul tema dell’itanglese. Non mi aspettavo di ottenere un’attenzione così ampia e trasversale, in Italia e all’estero: quasi 70mila firme raccolte in venti giorni, oltre 14mila messaggi spediti da tutto il mondo.
Hanno firmato giovani e anziani, docenti e studenti, traduttori, professionisti, poliglotti, scrittori, giornalisti, pensionati. Hanno firmato italiani residenti all’estero e stranieri residenti in Italia. Hanno firmato da Lima e da Gerusalemme, da Shanghai, dall’Australia, dal Canada, dalla Svezia e dalla Serbia, dalla Tunisia, dagli Stati Uniti, dal Brasile… sono usciti (e sono continuati a uscire negli anni successivi) oltre 200 articoli sui giornali. È significativo che Zoppetti abbia pensato di riprendere l’esortazione a dirlo in italiano anche nel titolo di questo libro.

MEGLIO IN ITALIANO, NO? Ovviamente, ciascuno resta libero di usare le parole che meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Ma ciascuno potrebbe anche scegliere di interrogarsi sulle parole che usa e sulla consapevolezza con cui le sceglie, ricordando che parlare più di una lingua è un grandissimo vantaggio, ma che conoscere davvero le lingue, a cominciare dalla propria, significa usarle in modo adeguato a comunicare efficacemente.
Dunque, quando si tratta di parlarci e capirci fra noi, che condividiamo l’italiano come lingua madre, la scelta dovrebbe essere ovvia: meglio in italiano.
La nostra lingua è un bene comune. È un patrimonio di cultura, di bellezza, di storia e di storie, di idee e di parole che appartiene a tutti noi, che vale, che ci identifica e che ci aiuta a esprimerci pienamente come individui, come cittadini e come paese. Dovremmo averne cura.
Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata anche su MicroMega.

9 risposte

  1. D’accordo su tutto.

    Ora, cosa possiamo fare per evitare che il provincialismo di chi abusa di anglicismi, giornalisti in primis, danneggi o addirittura uccida la nostra lingua?

    In azienda poi la situazione è critica: ormai si parla solo itanglese aziendale.

    Credo che al di là di raccolte firme e campagne, pur esse importanti, la Crusca dovrebbe essere messa in condizione di tutelare davvero l’italiano sul modello della Real Academia Española.

    Altre proposte?

  2. D’accordo, ma come arginare l’invasione degli anglicismi e l’impoverimento dell’italiano? In azienda si parla ormai solo itanglese. I miei colleghi provinciali lo amano proprio, pur non sapendo dire una frase corretta in inglese. Il buon esempio e le firme sono importanti. Tuttavia credo che la Crusca dovrebbe giocare un ruolo più incisivo per sostituire agli anglicismi inutili parole italiane. Il Gruppo Incipit è un‘ottima iniziativa, ma serve di più. Per me la Crusca dovrebbe “normare” come fa la Real Academia Española nei paesi di lingua spagnola. O no? Altre proposte?

    1. Anch’io sono sfiduciata.
      Tutti intorno a me (azienda di informatica) parlano itanglese, ed è chiarissimo che lo fanno non soltanto per sembrare più interessanti, moderni e spigliati, ma anche (o forse soprattutto) perché non conoscono o non sanno trovare il termine corretto in italiano. Quando faccio loro presente che nella nostra lingua abbiamo tante parole per esprimere tutti i concetti di cui ci occupiamo, le mie rimostranze vengono accolte da sorrisetti di sufficienza, come se si trattasse di minuzie, come se io fossi la solita maestrina pignola (mi viene in mente a tale proposito la luminosa distinzione tra pignoleria e precisione che lessi di recente proprio qui su NeU).
      Poi, quando qualcuno finalmente si decide a parlare italiano, infarcisce i suoi discorsi di “piuttosto che” e di “quant’altro”, che non riesco a definire diversamente da “itagliacano correggiuto”.
      Come se ne esce??

    2. Caro Marco, ho già commentato in proposito e ho sostenuto che per me l’uso eccessivo di formule straniere, in una qualsiasi lingua, snatura la cultura locale, ma sono anche sufficientemente aperto ad accogliere neologismi che danno meglio il senso di quello che descrivono.
      Detto ciò, propongo un caso che, per lavoro, mi fa “disperare”.
      Utilizzo un software prodotto negli Stati Uniti e denominato Geomedia e tutti intorno a me pronunciano Geomidia; più volte ho fatto notare che “media”, essendo un termine latino, va pronunciato così come si legge (se qualcuno vuole, può controllare che Crusca, Treccani, Oxford, Webster etc. propongono pronunce sia alla latina e sia all’inglese).
      Una volta un collaboratore disse di aver sentito pronunciare ”midia” dal referente per l’Europa (un signore svedese) del software americano, e pertanto lui non voleva discostarsi da tale pronuncia. Io ribattei che alla persona straniera concedevo l’uso scorretto in quanto poteva anche non conoscere la provenienza del termine e quindi rimproveravo al collega una sudditanza culturale. La discussione andò avanti per un po’ finché gli chiesi, per sfida, come pronunciasse il nome del principale operatore televisivo privato italiano.

  3. La questione del “come se ne esce”, che vedo comparire nei commenti, è il punto cruciale. Non so se è possibile uscirne o se il futuro dell’italiano sia l’itanglese: in molti ambiti come quello del lavoro e del liguaggio aziendale o delle professioni, della moda, della Rete, dell’economia e in tanti linguaggi di settore tecno-scientifici l’itanglese è già una realtà. Personalmente ho individuato 3 fasi importanti per provare a invertire la tendenza. 1) La prima che ho provato a dimostrare, numeri alla mano, nel libro di cui Annamaria ha scritto la prefazione è che “non si può più negare” che l’itanglese sia una realtà. Non è una questione da nulla, perché molti studiosi negano che gli anglicismi rappresentino un problema per la nostra lingua, ma finora nessuno ha smentito i miei dati e questo mi pare già un buon risultato. 2) La seconda fase è quella di creare e fare circolare un dizionario delle alternative italiane, che al momento non esiste in italiano, al contrario di quanto accade in Spagna, in Francia e anche in Germania. Oguno parla come vuole, questo è chiaro. Ma per esercitare una scelta occorre che le alternative circolino, mentre oggi siamo invasi dagli anglicismi, grazie soprattutto ai giornali che li preferiscono, e la gente non può che ripeterli, e così le alternative italiane muoiono o non si creano; anglicismi come budget, range, fake news sembrano diventati di “necessità”, come se stanziamento/tetto di spesa, intervallo, bufale non esistessero; invece semplicemente non si usano e non ci vengono più spontanee, le stiamo perdendo. Per questo sto preparando una lista di circa 3.500 alternative, che pubblico a puntate sul mio sito. 3) La terza fase è quella di provare a organizzare il malcontento di molti italiani che non ne possono più dell’eccesso dell’inglese. Se, come citadini e consumatori, chi è stufo di un linguaggio sempre meno trasparente e sempre più anglicizzato si facesse sentire, protestasse, scrivesse ai giornali, alle aziende che usano l’itanglese nelle loro pubblicità, alle ferrovie dello Stato che si vantano di aprire help center per la customer satisfaction degli utenti, tra aree kiss and ride e le nuove tariffe business, premium ed econony… se davanti a queste cose si creasse un movimento di consumatori in grado di esercitare pressioni sul linguaggio più opportuno… le cose potrebbero cominciare a cambiare. In Germania le proteste dei cittadini hanno portato le ferrovie tedesche a rivedere il loro linguaggio. Se anche in Italia si sollevasse un movimento di opinione del genere, pronto a essere attivo invece che a lamentarsi e basta, forse si riuscirebbe a spezzare la moda, perché è un fatto di moda, di ricorrere all’inglese con questa frequenza. E forse anche la politica potrebbe intervenire con provedimenti in nome della chiarezza, evitando l’inglese nei linguaggio istituzionale, o impartendo direttive, analoghe a quelle della femminilizzazione delle cariche femminili, che potrebbero porre l’attenzione sul problema e anche arginarlo. Non so se sia possibile. Ma credo che perlomeno bisognerebbe provarci.

    1. Sì, anch’io credo che scrivere a giornali, enti, aziende ecc. sia utile. L’ho fatto varie volte per segnalare il sistematico uso del “tu” al posto del “lei” nei confronti degli utenti/clienti dall’aspetto “extracomunitario”, ma non avevo mai pensato di farlo anche per l’itanglese. D’ora in poi lo farò anche per quello 🙂

  4. Caro Zoppetti, sono un vecchio giornalista del 1931, iscritto all’ODG dal 1960 e condivido in pieno la sua battaglia contro l’Itanglese (io lo chiamo “angloitalianese).
    Se le interessa vorrei mandarle un mio pamphlet intitolato “Addio Italiano bello ” dove forse può trovare qualche spunto interessante. Spero a presto

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