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Vecchi e creativi: alleanze da stringere e miti da sfatare

Giuseppe Verdi ha ottant’anni quando manda in scena il Falstaff. Michelangelo Buonarroti lavora alla Pietà Rondanini quando ne ha quasi ottantanove. Ma il grande vecchio che preferisco – infatti lo ricordo ogni volta che posso – è Michel Eugène Chevreul (nell’immagine) chimico francese, studioso del colore e scopritore della margarina, che a novant’anni decide di orientare altrove i propri interessi, fonda una disciplina del tutto nuova, la gerontologia, e pubblica il suo ultimo libro a centodue anni.
Primo punto da segnalare: la vecchiaia non è, e non è mai stata, poco fertile. Essere giovani è una precondizione per ottenere risultati importanti in alcune discipline che, come la matematica, gli scacchi o la fisica teorica, chiedono sforzi mentali intensivi e un approccio speculativo. Ma da vecchi si possono ottenere risultati brillanti nelle discipline che richiedono l’integrazione di competenze diverse e una dose di esperienza del mondo, e che hanno una componente empirica: dalla psicologia alla pittura, dal cinema alla narrativa, alla filosofia. Insomma: “vecchi e creativi” non è un’utopia consolatoria, ma una realtà.

Lo psicologo Marcello Cesa-Bianchi, ne La creatività scientifica. Il processo che cambia il mondo racconta che, passati gli ottantacinque anni, un Claude Monet in pesanti difficoltà con la vista dipinge con l’anima, la memoria e l’intuizione producendo, ancora dopo l’infinita serie delle Ninfee, quadri sorprendenti come La casa fra le rose. Anche Tiziano continua a dipingere quando è ultranovantenne. Il Vasari racconta l’evoluzione delle sue opere: le prime sono condotte con una finezza e una diligenza incredibili, e di essere vedute da presso e da lontano; le ultime condotte da colpi, tirate via di grosso e con macchie… e di lontano appariscono perfette. Tiziano ha un tale dominio della propria arte che può trascurare i dettagli e superare la tecnica.
Secondo punto: l’esperienza aiuta a reinventarsi e a raggiungere sintesi più audaci. Forse, a correre rischi più grandi, confrontandosi con se stessi, confidando nel proprio saper fare, sfidando i sensi indeboliti, andando oltre e, perché no, fregandosene.

Passiamo ai protagonisti del nostro tempo: il regista portoghese Manoel de Oliveira presenta il suo film Gebo e l’ombra a Venezia, a centoquattro anni. Uno dei più acuti e visionari interpreti della modernità e della postmodernità è il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman: ha ottantotto anni. Uno dei polemisti più acuti, rigorosi e vigorosi è il linguista americano Noam Chomsky (ottantacinque): questo aprile è in Giappone per una serie di conferenze. E Andrea Camilleri (ottantanove) continua a produrre bestseller.
Commenta Cesa Bianchi (che, per inciso, ora ha ottantotto anni e si interessa di psicogerontologia): da vecchi e longevi è sempre possibile imparare, fare nuove esperienze, conoscere qualcosa di sé che per tutta la vita era sfuggito, dare un senso diverso ai giorni che si vivono. E, altrove, ricorda che la creatività costituisce il fattore più importante per contribuire a un invecchiamento positivo.
Terzo punto, interessante per gli juniores che per caso leggessero questo articolo: con il prolungarsi della vita media, la vera sfida non è tanto diventare vecchi (ormai riuscirci non è così difficile, specie da italiani, visto che per longevità siamo secondi solo alla Svizzera, insieme al Giappone) ma invecchiare restando vivaci di testa e produttivi.
Per prepararsi una buona vecchiaia, creativa e fertile, bisogna cominciare da giovani. Ma come si fa?

Lo dice Oliver Sacks, altro grande ottantenne, in un testo davvero affascinante (questo è un esplicito invito ad andarlo a leggere) il cervello ha una misteriosa capacità di apprendere, adattarsi e svilupparsi. E può sviluppare anche in breve tempo strategie e capacità nuove. Bisogna usarlo, però, e continuare a farlo.
Ed eccoci a un quarto punto: le élite culturali trovano, nella propria formazione, strumenti migliori per invecchiare di più e meglio. Come scrive il Sole 24Ore chi studia di più vive di più. Ma alla formazione degli anni giovanili va aggiunta la formazione permanente, quella che continua per l’intero arco della vita.
Sono notevoli, in questo senso, i risultati ottenuti da un amplissimo studio americano, il Longevity Project: restare impegnati dopo i 65-70 anni e continuare a darsi obiettivi da raggiungere allunga la vita. E, ovviamente, la rende più interessante da vivere. Invece, almeno in termini di longevità, serve a poco rilassarsi, essere ipersportivi, coltivare una fede. Serve parzialmente essere sposati (gli uomini ne traggono vantaggio, le donne no. E su questo dettaglio ci sarebbe da ragionare).

Aiuto! Tutto ciò significa che, nel momento in cui i vecchi restano attivi, ci sarà ancor meno spazio per i giovani? La risposta è sì, se restiamo intrappolati in una logica semplicistica di conflitto generazionale e se diamo una lettura gerontofobica a una tendenza peraltro difficile da invertire, a meno che non si vogliano ammazzare i vecchi già da giovani, per esempio con una guerra.
La risposta è no, se prima di tutto promuoviamo la meritocrazia, che prescinde dal dato anagrafico, e se combattiamo con forza le rendite di posizione.
E la risposta è no se accettiamo la sfida creativa costituita dall’immaginare una società e un sistema produttivo che sappiano integrare l’energia dei giovani e l’esperienza dei vecchi.
Intanto, il primo mito da sfatare è quello che fa coincidere pensionamenti anticipati e incremento dell’occupazione giovanile: il mercato del lavoro non è un cinema in cui ogni spettatore che si alza libera una poltrona (questa si chiama lump of labour fallacy) e le cose sono meno automatiche e più complesse di così.

Questo articolo esce anche su internazionale.it.
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17 risposte

  1. Oltre al fatto che tutto ciò mi consola, cara Annamaria non so se hai visto la puntata di “Ulisse, il piacere della scoperta” di sabato scorso: parlava appunto dell’invecchiamento e si linka perfettamente con le tue riflessioni. Ci sono un paio di chicche imperdibili, come la spiegazione del perché le cellule del nostro DNA sono fatte apposta per invecchiare riproducendosi e sul perché invertire questo processo (l’elisi di lunga vita) per quanto sia possibile sarebbe probabilmente mortale.
    Ecco il link http://www.ulisse.rai.it/dl/portali/site/puntata/ContentItem-6243465a-c064-4e59-9f1d-b71fbbfe96e3.html

  2. Il tema “anziani contro giovani” è una delle tante armi di “distrazione di massa” messe in piedi dai governi che – in alleanza con banche e finanzieri – ci hanno portato alla crisi che stiamo vivendo e che vogliono gestire la crisi (tutti insieme)pro domo loro. (Al proposito segnalo il libro di Gallino “Colpo di stato di Banche e governi”). Detto questo, sono profondamente d’accordo con tutto quanto detto nel post. Segnalo solo che il link alla “Casa tra le rose” non funziona. Invidia giovanile del web? 🙂

  3. ma quanto condivido! Quando la smetteranno di succhiarmi l’anima a pagamento, finalmente potrò inventarmi i mondi che continuo a tenere nei cassetti. E lo farò finalmente libera da ricompense 🙂

  4. eh, a me è venuto in mente Gillo Dorfles che di anni ne ha già 103! Poi guardando a me vicino, osservo mio marito, anni 85, nato quando andava di moda il charleston che ha frequentato la creatività fin da piccolo e si interessa a tutto con una curiosità selettiva sulle cose meno banali, ogni giorno me ne inventa una e che, come dici, probabilmente ha succhiato l’energia ad uno stuolo di ex mogli o meno…dovrebbe essere bello invecchiare così

  5. Grazie dell’articolo, interessante come sempre. Però il nesso con la meritocrazia è forzato. La meritocrazia non esiste in natura, è un’arma in mano alle aziende (che la usano pure male). Per la creatività in particolare, l’unico termine di paragone è con sé stessi, non ha senso misurarsi con gli altri. Quindi la meritocrazia non c’entra proprio… il diritto e il dovere alla creatività invece sono da propagare!

    1. Gentile Laura, sul fatto che per la creatività ciascuno sia la propria pietra di paragone ho molti, ma molti dubbi.
      E forse intendiamo “meritocrazia” in accezione diversa.

      Aggiungo: magari le aziende e le università fossero rette secondo criteri meritocratici e non lobbistici o clientelari! Il paese andrebbe meglio.

      1. Il tema su cosa significhi meritocrazia è comunque centrale. Nella maggior parte dei casi chi la invoca è a propria volta autore o oggetto di azioni giudicate non meritocratiche.
        Forse tutto sta nel definire chi è titolato a giudicare il merito.
        In fondo le relazioni fiduciarie sono quelle più efficaci e le più diffuse nei contesti maggiormente rilevanti. E in quelle relazioni succedono cose che, chi ne è fuori, tende a considerare parziali, se non peggio.
        La valutazione oggettiva, poi, non è di questo mondo e i concorsi, per quanto raffinati, hanno prodotto le peggio cose.
        Le peer review, pure, hanno i loro difetti: i branchi, le cordate, i pregiudizi, il buzz (diciamo così).
        Veramente non saprei. Pare sempre un po’ di cadere dalla padella alla brace.

  6. Dopo questo post apprezzo ancora di più il cammino che ho intrapreso negli anni, iniziato con l’ingenuità di un fanciullo e proseguito con la forza delle idee.

    Era il 1986, avevo 16 anni ed iniziai a lavorare con l’illusione che, iniziando presto, avrei potuto godermi il mio “secondo tempo” ancora abbastanza giovane e pieno di energia.

    Oggi, dopo 28 anni di lavoro, sono entrato in anticipo in quel “secondo tempo” con la consapevolezza di essere sempre più vecchio per questo mondo del lavoro e, allo stesso tempo, sempre troppo giovane per un eventuale pensionamento.

    E dopo 28 anni, ogni giorno di più, concordo con Annamaria quando dice che la poltrona liberata da un pensionamento anticipato difficilmente ospiterà un giovane in cerca di occupazione, nemmeno quando la poltrona liberata, magari forzatamente, è quella di un “vecchio”, esperto sì, ma non abbastanza “vecchio” per assicurarsi quel pensionamento.

    Il lungo ciclo lavorativo che avevo immaginato allora non esiste più, trasformato e sgretolato in un vorticoso dentro-fuori alternato che nasce con la disoccupazione, passa per il precariato e termina con l’esodo … in attesa di una promessa di pensionamento.

    I giovani non riescono ad accedere al mondo del lavoro per esprimere tutta la loro energia, mentre i “vecchi” esperti vengono rottamati proprio da quel mondo che li ha accolti anni prima e illusi nel tempo.

    Ben vengano gli incentivi per i giovani ma, dico io, ben vengano anche incentivi a favore di “vecchi” esperti, troppo “vecchi” per lavorare ed essere pagati “così tanto” ma ancora troppo giovani per ottenere un seppur minimo pensionamento.

    Se quanto riportato da Annamaria corrisponde al vero, se davvero si può essere attivi, produttivi e vivaci anche nel nostro “secondo tempo”, un dubbio sorge spontaneo: perché incentivi, finanziamenti, start-up e via dicendo sono quasi esclusivamente rivolti e limitati a persone al di sotto di una certa età ?

    Perché porre questi limiti?

    Le idee hanno forse un’età? A quanto pare no, anzi …

    Un “vecchio” esodato con famiglia e magari con figli disoccupati, non ha gli stessi diritti di un giovane in cerca di occupazione ?

    Quel “vecchio” esodato non potrebbe avere, sulla base della tanta esperienza accumulata negli anni, una buona idea?
    Allora perché non dargli una possibilità attraverso gli stessi incentivi previsti per i più giovani?

    L’esperienza ha un valore inestimabile, età ed esperienza consentono di affrontare e risolvere i problemi in modo diretto, senza fronzoli ma, senza integrazione, senza quel passaggio di consegne e di saperi da una generazione all’altra il rischio è quello di ritrovarsi in un domani senza passato, protagonisti di una fiaba dove i personaggi agiscono per agire, senza alcuno scopo.

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