PER APPROFONDIRE
tullio de mauro

LINGUAGGIO – Tullio De Mauro: educare alla parola

Utilizziamo solo in parte le potenzialità di comunicazione che ci offrono il linguaggio e la parola. Possiamo fare ancora molti passi avanti sulla via della comprensione reciproca e dell’intelligenza del mondo, purché l’uso del linguaggio sia anche educazione alla parola. Tullio De Mauro è professore di Linguistica generale all’università La Sapienza di Roma. È stato ministro della Pubblica istruzione.

LA FATICA DEL DIRE E DEL CAPIRE
Chi di noi appartiene all’età adulta, ed è per giunta istruito, usa le parole in uno spazio che in genere gli appare puramente mentale: le ascolta e capisce, le progetta e con poca fatica le dice o scrive.
Ogni giorno, una persona adulta colta “processa”, come dicono gli informatici, decine e decine di migliaia di parole. Vale la pena azzardare una stima. Sappiamo che, in un minuto, leggiamo o sentiamo leggere ad alta voce in modo comprensibile circa cento parole italiane o tedesche, centodieci francesi o inglesi, ma contemporaneamente, nello stesso minuto, ne pensiamo almeno altrettante senza troppa difficoltà.

Per essere cauti si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso. Nella lettura muta un buon lettore triplica queste cifre. E le parole pensate possono scorrere sullo schermo della mente ancora più veloci di quelle lette. Così l’adulto colto si fa l’idea che le parole e il parlare siano qualcosa di aereo: puro spirito.
Restano sepolte nella memoria perinatale e postnatale le fatiche del primo apprendimento delle prime parole, quando tutto il corpo, cervello compreso, dovette imparare a

obbedire a un impulso primordiale: impegnarsi nella fatica di ascoltare voci, di isolare parole, di capirle, capirne l’importanza vitale, imparare a tenerle a mente, desiderare poi di balbettarle e, infine, riuscire a dirle.

Di solito resta sepolta nella memoria infantile anche quella che Antonio Gramsci chiamava “la fatica muscolare dello studio” – natiche dolenti per lo stare seduti a leggere, occhi stanchi a decifrare gruppi di lettere di alfabeti o ideogrammi, a imparare cifre e numeri – per quella parte del genere umano che ha potuto studiare e, di nuovo, ha dovuto fronteggiare il compito di imparare nuove parole di una qualche lingua, apparentemente lontane dall’immediata vita quotidiana, così come il bambino aveva imparata a vederla.

APPROPRIARSI DELLA PAROLA
L’adulto colto ha vissuto allora tutta la fatica di mobilitare corpo e cervello per trasformare l’impulso naturale primordiale al comunicare nel cammino che lo ha portato a farsi partecipe di una cultura determinata e a salire in uno spazio dove parole, cifre, formule aleggiano leggere e sono quasi sempre, quasi tutte, a portata di intelligenze che hanno imparato a muoversi sempre più speditamente.
Ma in generale l’adulto istruito quella fatica l’ha dimenticata: la sua mente scorre distratta, come su una cosa ovvia, quando legge che il parlare umano è qualcosa di naturale e però è anche qualcosa di culturale, di storico.
Se uno riesce a comunicarglielo, l’istruito apprende con stupore che è non è altrettanto ovvio mettere insieme le due affermazioni in modo concettualmente coerente, oltre che col trattino con cui scriviamo lingue storiconaturali.

La visione del parlare che qui vogliamo delineare ha la presunzione di togliere ovvietà a quel che appare ovvio, non per il gusto di complicare le cose ma perché l’adulto istruito avverta l’enormità del privilegio che la storia della specie e remote fatiche infantili gli hanno dato.
E questa è una condizione necessaria per trarne qualche conseguenza. E perché anche altri, non uno di meno se possibile, si affaccino nell’aereo mondo mirabile dove può muoversi la sua mente.

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