Till Neuburg decalogo dialogo

PAROLE – Till Neuburg: decalogo per un dialogo

Un’invettiva contro  i neologismi strampalati e dieci consigli di buon senso.

Gli esperti di virus, worm, bug, spam, spyware, phishing, di bufale e leggende metropolitane, sono avvertiti: c’è in giro un agente patogeno che si è rapidamente infiltrato non solo nell’internet e nei nostri PC, ma in ambienti infinitamente più personal e più umani.

Nei cervelli degli italiani.

Per debellarlo non serve rivolgersi all’ASL locale, all’Institute Pasteur di Parigi o addirittura a Peter Norton (l’autore del più diffuso programma antivirus al mondo). Piuttosto ci vorrebbe una poderosa coalizione tra il Ministero dell’Istruzione, i direttori dei telegiornali, gli autori dei dialoghi dei nostri film, i copywriter e i giornalisti che scrivono sulle testate più diffuse – da Famiglia Cristiana a Paperino Mese, dalla Settimana Enigmistica a Motosprint. Solo un’alleanza con questa potenza di fuoco potrebbe bloccare, o almeno mitigare, gli effetti fatali di questa epidemia.

Il parassita si annida nel sistema cerebrale e da lì colpisce, in forma ormai pandemica, la nostra lingua – fino a corromperla nel profondo e a renderla irriconoscibile. Non sarà certo l’autore di queste righe ad auspicare interventi ufficiali in difesa della purezza dell’idioma nazionale, sulla scia di quanto si è fatto in Francia.

Siamo tutti consapevoli che la lingua è mobile e sono convinto che questa circostanza, oltre che essere inevitabile, sia anche un bene. L’evoluzione continua della lingua è un segno di vitalità. A patto che “il nuovo che avanza” non sia un insieme di ridicole forzature gergali e che non risuoni incessantemente sulle labbra di chi ripete a pappagallo le ultime declinazioni della banalità.

Non sono un ultrà del Dolce Stil Novo né un integralista della Crusca – come peraltro non lo sono i Gianni Mura, i Paolo Rumiz, i Michele Serra e tutti gli altri di cui apprezziamo il pensiero e la freschezza dello stile. Chiunque scriva con immaginazione e buonsenso è consapevole del fatto che le lingue si modificano nel tempo, sospinte da mille circostanze e fattori. Succede nella musica, nell’alimentazione, nel design, nell’economia, nello sport. Persino nell’eros.

Nessuno ce l’ha con i lemmi derivanti dall’evolversi delle discipline tecniche, scientifiche o culturali. Ben vengano le novità. Per esempio, mail è sicuramente più pregnante di “posta elettronica”, è giusto che nouvelle cuisine mantenga la sua definizione originale in tutto il mondo e, se fosse tradotta in italiano, la parola Sturmtruppen non farebbe ridere nessuno. Tanto meno si critica l’uso quotidiano di baguette, feedback, glasnost, imprinting, jet-lag, Kitsch, passepartout, robot, Strudel – tutti termini che, tradotti in italiano, darebbero solo luogo a contorti giri di parole. Il bersaglio non sono le parole in sé, ma coloro che le usano a sproposito.

I nuovi batteri si mimetizzano in vari modi: agiscono con sembianze vuvuvupuntoblablablapuntoit, sotto forma di goffi anglicismi, come storpiature di tendenze progressiste, tramite piraterie di finto modernariato, o semplicemente come chiacchiere da parte di inconsapevoli testimoni della velleità.

Può sembrare paradossale che anche questo breve saggio faccia ricorso ad alcune stupidate gergali. Il fatto è che per smascherare con efficacia le velleità dei quaquaraquà della presunta modernità, i neologismi cretini funzionano a meraviglia. Se, per esempio, volessi sottolineare l’ipocrisia di un irreprensibile padre di famiglia che durante il percorso tra ufficio e casa si accompagna volentieri con le prostitute, la definizione happy hour sarebbe pressoché perfetta. O se a proposito di un funzionario della salute pubblica mi premesse sottolineare la sua nonchalance nell’uso di prebende e mazzette, definirlo un burocrate diversamente abile, rasenterebbe il massimo dell’irrisione… e così via, fino alla Bicamerale con servizi, balcone e doppio box e agli Eco-incentivi mediatici per il noto scrittore e semiologo del DAMS. La tentazione di applicare in modo allusivo o come calembour tutto questo nuovo catalogo di ambiguità e cretinate, è troppo ghiotta per cederla in esclusiva ai professionisti delle ciance trendy.

Iniziamo il nostro piano-sequenza sulla neo-mediocrità, scritta o parlata, partendo da alcuni dei gerghi più minati: quelli della burocrazia e del marketing, della politica e del giornalismo di riporto. Per esempio, non si capisce perché il nome di una persona debba per forza tramutarsi in nominativo. A questa stregua, un signore distinto diverrebbe automaticamente un distintivo – termine, peraltro, contiguo al chiacchierato brand, che a sua volta è solo un normalissimo marchio commerciale bruciacchiato da ridicole velleità mandriane da far west. Stessa cosa per il welfare (nient’altro che una recente full immersion del Ministro del Lavoro nelle acque sempre agitate della concertazione). E quando gli sforzi combinati tra i palombari e gli orchestrali della politica non funzionano, si parla seccamente di flop

Una parola che a sua volta fa rima con l’abusato pop… che suona come il nome di un detersivo, ma che assomiglia anche all’increscioso gap tra i plus e i focus point di un autorevole vip il quale, grazie alla fitness conquistata con il personal trainer nel suo wellness center e ai brunch – tutti rigorosamente light, – è sempre perfettamente al top. Non per niente, la mission di un manager in carriera consiste more or less nell’ottimizzazione delle risorse umane nel suo team che lui, con tempistica sempre super performante, monitorizza dayby-day per implementare i concept open minded dell’intera working unit.

Ho appena infilato una prima raffica di cretinate, pescandole a caso dall’inesauribile catalogo di quel nuovo popolo di buoi che rumina beatamente nei paesi suoi. Irrimediabilmente recintate nel provincialismo, queste mandrie non si stancano di attingere a piene zampe e zoccoli nei lussureggianti pascoli del ridicolo. Come provetti opinion maker della domenica, non esitano persino a trascinare nel loro squillante vocabolario fatto di uichend, di luk e di ochèi, anche i bisnonni sempre più incompresi e i loro pargoli obesi.

Forse non abbiamo ancora bypassato del tutto i peggiori input del grottesco. A quando il salto ulteriore e decisivo, magari con un upgrade dei proverbi? Forse è scoccata l’ora di una new age della comicità:

“Il primo petting non si scorda mai”

“La griffe non fa il monaco”

“L’amore è non vedente”

“Pet che abbaia non morde”

“Gallina della terza età fa buon brodo”

“Digitare un tasto con la melina al giorno toglie il medico di torno”

A proposito di frutti morsicati nei paradisi superficiali dell’informatica: i fedelissimi di Steve Jobs e del suo grande fratello Bill Gates sono tutti particolarmente open minded quando si tratta di sdoganare le new entry dell’involontario umorismo. Verrebbe voglia di esaltare i restyling più gettonati nelle nursery di Cupertino e di Redmond, con un glossario di questo tipo:

• Downloadare. Scaricare via rete programmi educativi per bambini down e adulti in procinto di partecipare a quiz televisivi.

• Hardware. Documenti che descrivono e visualizzano – in modo esplicito – gli organi sessuali dei robot per uso domestico.

• Plottare. Svelare i complotti dei siti comunisti che operano con il dominio.com.

• Schermata. Immagini incensurate delle più avvenenti campionesse di fioretto.

Ma nelle collane dedicate all’informatica ci sono perle che si infilano da sole. Anonymizer, customizzare, emoticon, forwardare, outsourcing, postare, randomico, softwarista, videata non hanno bisogno di badanti della lingua italiana né di un supervisor con contratto co.co.co. pattuito con il buonsenso. Per pensare e scrivere parole così senza arrossire, bisogna essere un diversamente abile nell’outing analfabeta (disabile non basterebbe) o un opinionista del reality show allestito apposta per i serial killer della normalità.

Chi ha la sventura di imbattersi in un tuttologo della new economy farà bene a fingersi audioleso o a esibire un badge con la scritta Non Operativo. Ormai quasi tutti gli ambienti di lavoro sono un’immensa discarica di spazzatura lessicale: non se ne può più di guru, break even, feeling, glamour, top model, palestrati e, pur di non subire l’ennesimo coffee break o, peggio, un’altra happy hour, vien sempre più voglia di rifugiarsi sotto i tavolini del Bar Sport più sfigato della città.

Da quando il celodurismo è sceso in campo sia a Pontida che a Milanello, il coro degli onorevoli e dei distinti senatur si è arricchito di randomiche voci bianche, bianco-verdi ensempreverdi: le note dei vari bipartisan, bicamerale, cerchiobottista, correntone, deregulation,

girotondini, in quota, localismo, lottizzare, targato e trombato manovrine, piattaforme e smart card trovano tutte un adeguato contrappunto in un tripudio di ammortizzatori sociali, cartolarizzazioni, duopoli, eco-incentivi, – tutti veicolati dalla nostra upper class dell’economia dei laterizi e delle vecchie lire e sghei infilati sotto il materasso.

Ogni giorno ci accorgiamo che lo sviluppo della nostra lingua ormai ha fatto passi da replicante: il vecchio politichese si è armonizzato nel modo peggiore con il politically correct. Oggi persino un neocon rispetta le scadenze fiscali: mentre per l’Unico si affida sempre al commercialista, per il check del condono tombale preferisce consultare però il family banker.

I nuovi rutti della parlata nostrana non erompono solo dai corridoi dell’economia comatosa, dalle interviste ai politici sempre più stitici e dai disinformatici che sanno contare solo fino a zerouno. Ci arrivano persino dal mondo accademico, dalle fondazioni culturali, dalle inchieste e dai forum dove le tavole rotonde (tutte, ovviamente, rigorosamente rettangolari), sono puntualmente contestualizzate, focalizzate, ghettizzate, metabolizzate, monitorizzate, umanizzate – come tutte le altre azzate di ottima e abbondante ovvietà

L’Associazione Italiana di Studi di Semiotica, un sodalizio di esperti che insegnano agli italiani perché il punto esclamativo, il punto croce, il punto di rottura, la messa a punto, il punto metallico, il punto morto e la Fiat Punto possono di punto in bianco cambiare il significato di quelle misere cinque letterine pi, u, enne, ti, e o, nel 2005 aveva organizzato un convegno dove gli esperti di oscurantismo discettavano di ingarbugliate tautologie sulla città: “La metropoli e il suo oltre”, “Linguaggio progettuale e forma mentis della sostenibilità”, “Per una semiotica del terrain vague: da luogo anomico a deriva passionale”, “Conflitti di senso nei territori metropolitani, fra risemantizzazioni e travestimenti”, “Spazi e non spazi: le articolazioni della consumo-sfera”, “Non più, non ancora. Pragmatica generativa e trasformazionale dei regimi semiotici negli spazi urbani delle società di controllo”, “Il senso calpestato. Per una semiotica del marciapiede”.

Cominciando, per esempio, dai marciapiedi, nessuno s’era sognato di parlare di cacche, rifiuti, doppie file, multe, tangenti, assessori, tariffe, orari, ICI e altre quisquilie che riguardano solo qualche decina di milioni di comparse meglio note con l’insolito pseudonimo “cittadini”. In confraternite nobili di questo tipo, il glossario non scende mai a livelli di banale quotidianità. Sono luoghi sempre più comuni, dove paroloni come amicale, cannibalizzare, centralità, coniugare, contestuale, discorso, distinguo, diversità,

emozionale, fondante, fruizione, insiemistica, marginalità, mediatico, metalinguaggio, modale, motivante, oggettivazione, opzionale, polifunzionalità, progettuale, relazionale, scenario, sinergie, spaziare, tematico, territorio, transitante, urbanesimo, vision sono talmente abusati, che vien voglia di parafrasare Paolo Villaggio: «La cultura è una boiata pazzesca!

Ci sono anche luoghi dove si sguazza in modo dichiarato nell’ambizione verso il basso, nell’ostentazione dell’ignoranza, nella fisicità scollacciata: adrenalinico, appeal, approcciare, bodyguard, doc, drink, epocale, giganteggiare, gossip, griffato, hospitality, impattante, issue, mitico, mostro sacro, motivante, nude look, organizer, outlet, portfolio, screening, sex symbol, spopolare, status, scoop, task force, turnover… Siamo nel repertorio patetico di nuovi Men in Black, tutti rigorosamente dotati di auricolari blue tooth e nodi di cravatta in formato spinnaker – parlo dei buontemponi della spesa facile che un tempo si chiamavano carrieristi, rampanti, yuppie. È una categoria alla perenne ricerca di attributi attribuiti dagli altri, sempre bisognosa di consenso collettivo e di conferme ufficiali che l’ex bambino cresciuto con il Lego ce l’ha finalmente fatta a giocare solo con l’ego.

L’iperchiacchiera dei nostri tempi oscilla tra l’assenza della voce umana dei call center, la logorrea da telefonino, il neo-slang del marketing, l’analfabetismo dei politici e la guerra del fuoco degli informatici. Ma neanche la “lingua popolare” d’una volta, nell’uso che se ne fa talvolta in televisione o alla radio, riesce a sollevarci il morale.

Appena un’idiozia verbale diventa di pubblico abominio, eccola usata e abusata anche laddove perde il grottesco significato iniziale. E diventa stupida due volte: cardiopalma, carinissimo, collaboratore di giustizia, controesodo, dietrofront, Eurolandia, extracomunitario,

familiarizzare, fantacalcio, hair stylist, microcriminalità, reality show, spessore umano confermano tutti la nota battuta di Oscar Wilde: «Nella vita moderna non c’è nulla che faccia più effetto di un luogo comune: riesce a unire fraternamente persone di ogni specie.»

Ma forse aveva ragione anche lo scrittore Paul Léautaud: «Niente insegna a scrivere bene quanto leggere cattivi scrittori.»

Infatti, non appena un cittadino normale s’imbatte in baby gang, immobilizer, jeanseria, manualistica, operatore ecologico, panineria, parametrare, prerequisito, spannometrico, struttura ricettiva, e nell’insuperabile performante, subisce un’inevitabile catarsi: sarà ancora più attento, più sensibile e, perché no, ancora più cattivo quando si tratta di duellare con il nulla. Hai voglia a spiegare a un ottimizzatore, a un presenzialista, a un country manager, a un futurologo o a un semplice rappresentante del personale paramedico, che evitare attimino, tormentone e serial killer non sarebbe poi così difficile. Invece ti guardano come se fossi un homeless della normalità, un dopato di coerenza, un tossico della polemica senza senso.

Non rimane altro che accettare il fatto che tra bypassare e aggirare, tra giacchetta nera e arbitro, tra tipologia e genere, tra soft e leggero, tra dismissioni e licenziamenti, tra share e percentuali, tra ottica e punto di vista, non può esserci dialogo.

Forse nemmeno un dialogo tra i nuovi sordi e Alberto Sordi. Quando nel film «Un americano a Roma», il comico romano disegna in modo magistrale un borgataro in jeans e canottiera alla Marlon Brando che – dopo tanti inutili tentativi di adeguarsi a una dieta tutta americana – finalmente cede alla fumante tentazione che si trova davanti, gli scappa il famoso: «Macarò… m’hai provocado e io te distruggo, macaroni! Io me te magno!»

Altro che spelling di un raptus maccaronico in gergo neo-scemo. Sordi non dice «Il challenge della cucina mediterranea merita tutto il nostro endorsement e va prontamente assimilato… l’immediata metabolizzazione di questo catering è un must assolutamente prioritario!» Se il nostro yankee trasteverino si fosse espresso con una parlata così, forse a questo punto gli sarebbe anche scappato il classico ruttino da bambinone trendy:

«Fuck yourself!

DECALOGO PER UN DIALOGO (tra lettore e scrittore)

1. Leggi sempre, leggi tutto, leggi ovunque, leggi comunque.

Io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto.

(Jorge Luis Borges)

2. Allunga il tuo sguardo in ogni direzione.

Chi non sa le lingue straniere non sa niente della propria.

(Johann Wolfgang von Goethe)

3. Non cercare di essere trendy. Mai.

Il nuovo non s’inventa: si scopre.

(Giovanni Pascoli)

4. Scrivi per il lettore, non per te.

La cosa fondamentale per uno scrittore è indurre il lettore a voltare pagina.

(Italo Calvino)

5. Guarda dentro te stesso. E poi, apriti. Vedrai che panorama!

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.

(Gabriel Garcia Marquez

6. Farsi capire è più importante che capire.

Una facile lettura è dannatamente difficile da scrivere.

(Nathaniel Hawthorne

7. Scrivi e riscrivi e riscrivi ancora. Alla fine, usa la lima e lavora di fino.

Il talento costa meno del sale da tavola. Ciò che distingue l’individuo di talento da quello di successo, è solo un sacco di duro lavoro.(Stephen King)

8. Non aspettare l’ispirazione. Anche se non sei in giornata, dacci dentro e

prova lo stesso.

Stile e struttura sono l’essenza di un libro. ‘Grandi idee’ è solo una stupidata.

(Vladimir Nabokov)

9. Non arrenderti mai.

Fate delle sciocchezze, ma fatele con entusiasmo.

(Colette)

10. Non farti scoraggiare da nessuno. Resisti e insisti.

Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori la finestra sto lavorando?

(Joseph Conrad)

Till Neuburg è copywriter, graphic designer, regista e produttore di spot. Insegna crossover culturali. Ha pubblicato il pamphlet “Astri e disastri”.

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