La nostra salvezza è nella ricostruzione dei ponti tra il concreto dei fenomeni e l’astratto delle loro interpretazioni, tra le scienze e la storia delle idee e delle circostanze in cui sono nate, tra scienze dure e scienze umane. Ed è nella costruzione di reti sovranazionali di ricercatori mossi da interessi comuni, di reti di solidarietà produttiva, di reti nazionali di cooperazione per l’innovazione.
Carlo Bernardini, fisico e matematico, è autore di articoli di ricerca su riviste internazionali e di testi universtirari, scolastici e divulgativi. Dal 1983 è direttore della rivista Sapere.
Ri-comporre la frattura cultura umanistica e cultura scientifica, tra scienze dure e scienze umane
Stanno accadendo alcuni fenomeni talmente nuovi e inaspettati che non riusciamo a renderci conto del loro possibile impatto sulla nostra vita prima che questo impatto si compia. Sinora, la cultura è stata molto semplicemente divisa in “scientifica” e “umanistica”, con una partizione che separa quasi inequivocabilmente l’attività rivolta alla comprensione della realtà naturale dall’attività indirizzata verso ogni tipo di analisi della realtà umana. Lo stesso linguaggio, col passare dei secoli, ha finito con il dicotomizzarsi con ibridazioni assai modeste delle due metà, l’una a spese dell’altra: è almeno in parte per questo motivo, forse, che il linguaggio stesso ha finito con l’essere oggetto di indagine anche come indicatore della doppiezza del pensiero. Non c’è chi non distingua oggi il realismo razionalista dall’idealismo spiritualista, raramente coesistenti a pari merito e con ugual vocabolario nello stesso individuo.
La condizione in cui ci troviamo, in Italia, è particolarmente disastrata. Nonostante gli sforzi della minoranza scientifica, all’inizio del ‘900 (faccio gli esempi della rivista Scientia, dei famosi matematici Vito Volterra, Federigo Enriques, Tullio Levi-Civita e molti altri, nonché della scuola fiorita quasi dal e nel nulla per opera del fisico Orso Mario Corbino – e cioè di Enrico Fermi e dei suoi “ragazzi”) la cultura è stata dominata dal neoidealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
La riforma Gentile ha dato alla scuola l’impronta che oggi chiamiamo “classica”, nella quale le scienze hanno ruoli assai sporadici e compressi.
Pure, se si prendono in esame le cosiddette scienze “pure” (ma anche “dure” e perciò inesorabilmente avversate) come la matematica, la fisica e la biologia e se le si confronta con l’essenza dell’umanesimo, la letteratura, le arti, la filosofia e la storia, non è difficile trovare alla radice, anche in Italia, un insieme di intenzioni comuni, seppure indirizzate verso obiettivi diversi.
Queste intenzioni vanno sotto il nome generale di ricerca e si accompagnano a sostantivi che le connotanoquasi come “velleità ultime”, “valori fondanti” di ciascuno dei due campi, indifferentemente: sono verità, eleganza, chiarezza, e forse altre che adesso mi sfuggono (ma sono, a mio parere, altrettanto prive di significati assoluti: per credere che li abbiano, bisogna forzarne il senso come si fa con le professioni di fede).
Si è detto molte volte che una ricomposizione di questi due lobi della cultura avrebbe un grande significato evolutivo, e penso che in qualche modo questo sia vero. Perciò, mi piacerebbe adoperarmi per fare qualche passo in questa direzione.
Mi sembrava di avere concepito una buona idea quando, ripensando all’insegnamento della fisica (la sola disciplina che io possa dire di conoscere in qualche misura), mi era venuto in mente che integrando, nella didattica corrente, la fisica con la storia delle sue idee si sarebbe “umanizzata” non poco.
Penso ancora che questo possa essere vero e che possa far riguadagnare alla fisica un certo numero di anime disorientate. Ma osservando i giovani che mi capita di incontrare nel mio mestiere di docente universitario, ho scoperto che oggi fuggono verso altre forme di cultura, ibride, nate da una realtà che chiamerò artificiale perché non è, strettamente, né naturale né umana.
Sono forme germinate soprattutto dalla diffusione di tecnologie molto evolute che amplificano le tradizionali capacità umane (la memoria, prima tra tutte. Ma anche la valutazione statistica, la comparazione analogica, la reperibilità dei dati: se qualcuno volesse entrare nell’universo di queste “novità”, non avrebbe che da abbonarsi alla rivista Technology Review).
Le ho chiamate scienze neo-umanistiche (SNU nel seguito) per sottolineare il contenuto assai composito di concezioni – forse – razionali dei rapporti umani. Si tratta dell’informatica, delle scienze della comunicazione, della robotica, della sistemistica eccetera.
Scienze neo-umanistiche e recupero delle tradizioni culturali L’attrazione delle nuove generazioni per le SNU appare assai forte, stando ai dati delle iscrizioni universitarie in tutto il mondo in cui siano diffuse tecnologie avanzate, Italia inclusa.
Devo dire che non meno forte appare la ripulsa da parte degli anziani, sia scienziati che umanisti, negli stessi paesi. Entrambi gli atteggiamenti appaiono eccessivi, anche se è ben possibile identificare giustificazioni immediate. Le tecnologie avanzate implicano forme di apprendimento “dedicate”, che spesso appaiono – a tutti – piuttosto simili a “istruzioni per l’uso di macchine” che non ad “ampliamento del patrimonio concettuale individuale”.
Chi viene da una cultura delle idee trova aliena, se non ripugnante, la mentalità funzionalistica necessaria per cambiare le proprie attitudini adattandole agli strumenti. Al contrario, chi è nato con gli strumenti già installati nel suo habitat trova conveniente e perciò naturale approfittarne per espandere la propria sfera di influenza.
Bisogna anche tenere ben presente che una scienza assai problematica come l’economia ha oramai raggiunto un ruolo preminente nel regolare, facendo ampio uso di SNU, sia la politica che gli interessi produttivi. Così, le attività culturali tradizionali (formazione classica e ricerca di base) hanno assunto una collocazione laterale, direi quasi esotica, nella quale è difficile prendere coscienza vuoi della funzione, che intrinsecamente hanno, di fertilizzante della qualità culturale generale, (peraltro poco richiesta dal pubblico) vuoi del fatto che le scienze pure sono la matrice remota, e quindi al di là dell’orizzonte individuale, di ogni innovazione.
Purtroppo, questa marginalità non sembra essere solo effetto di basse remunerazioni, ma della combinazione di queste con la difficoltà di conquistare una posizione mediaticamente distinta dalla moltitudine.
Ammettendo però tacitamente che qualcosa si debba pur fare per riprendere un cammino di tradizioni culturali che si sono interrotte, conviene ragionare su alcuni piccoli passi cercando di trasformarli in proposte operative.
Non sono affatto sicuro della necessità di tornare al filone che per oltre duemila anni ha guidato lo sviluppo culturale, con varie interruzioni e dirottamenti da cui, mi sembra, si è sempre tornati alla linea principale. Ma un’intuizione che forse condividiamo in molti mi dice che l’abbandono delle grandi tradizioni culturali sarebbe devastante.
Perciò, cercando di restare in ciò che capisco e che mi sembra utile con i tempi che corrono, vorrei fare due piccole proposte, cercando simpatizzanti.
Ne approfitto per dare tre indicazioni bibliografiche che certamente inquadrano questi problemi meglio di quanto ho potuto fare qui: La disoccupazione intellettuale in Italia di Marzio Barbagli (Il Mulino), La cultura degli italiani di Tullio De Mauro (Laterza), e La scienza negata di Enrico Bellone (Codice).
1. Sostenere la ricerca di base
Ponendo l’enfasi sull’importanza della storia delle idee nella ricomposizione degli aspetti di carattere scientifico con quelli di cultura umana nello sviluppo della fisica si ottiene, a mio parere, un risultato pregevole: poiché la fisica è, in larga misura, superamento del senso comune associato alle osservazioni naturali, si recupera il punto di partenza dell’interpretazione di quelle osservazioni a cui, poi, ragionando scientificamente si agganciano i risultati più avanzati.
Quel punto di partenza è l’elemento comune dell’intuizione spontanea prescientifica, condiviso ancora da chi la fisica non l’ha studiata. La storia aiuta perciò a motivare e rendere plausibile e necessario proprio questo superamento, più di quanto non riesca a fare la cosiddetta divulgazione, che agisce sul livello del linguaggio ma non su quello delle rappresentazioni mentali che il linguaggio trasforma in asserzioni proposizionali.
Con l’introduzione della storia delle sue idee, la fisica, anche quella in castigo come la nostra, diventa una grande epopea, con personaggi e vicende esemplari. Ma oltre a questo, oltre a capire ciò che i nostri governanti di questa disgraziata parentesi neoliberista e ultraziendalista non riescono nemmeno a sospettare, dovremmo arrivare a percepire il carattere sovranazionale (più che internazionale) della ricerca fondamentale in questo campo.
Non è una piccola cosa che i fisici di tutto il mondo parlino la stessa lingua, siano mossi da interessi comuni e mettano in comune le proprie conoscenze adottando spontaneamente regole di totale trasparenza.
Questo fatto forse è comune ad altre discipline, ma nel caso della fisica ha una particolarissima evidenza. È quindi un barlume di democrazia sovranazionale, pronto per avere una sua sostanziazione in accordi tra stati che garantiscano, mediante trattati, che l’appartenenza a una comunità multinazionale altamente civilizzata implica almeno la destinazione di una quota concordata delle risorse pubbliche alla ricerca fondamentale.
Ci siamo già mossi in questa direzione, a Napoli, con la Città della Scienza. Ma bisogna preparare la mentalità dei giovani perché accettino come ovvio il principio. E questo è compito di una buona didattica.
2. Sviluppare reti di solidarietà produttiva
La seconda proposta è assai più difficile da illustrare e rendere concreta. Devo prendere il problema un po’ alla lontana. Le tecnologie sono indispensabili: la popolazione mondiale cresce e così i consumi: l’umanità non è sobria, la Terra è limitata, l’intelligenza è una risorsa insostituibile per evitare sofferenze da sovraffollamento.
Come si promuovono le tecnologie adatte ad assicurare buone condizioni a moltitudini così numerose come saranno quelle del secolo appena iniziato? A me sembra che il vecchio modo capitalista di produrre beni tecnologici stia lentamente tramontando: difficilmente si potrà accettare, senza vederlo come uno spreco inutile, che tecnologie essenziali siano in mano di un solo ricco imprenditore che ha interessi divergenti da quelli dei consumatori (profitto immediato contro alta fruibilità).
L’importanza di forme diffuse di solidarietà si estenderà, prima o poi, anche all’uso delle risorse e allo sviluppo tecnologico. Così come la comunità scientifica gode di sistemi di autovalutazione e autoregolazione affidabili, anche la comunità umana nel suo complesso dovrà prima o poi sperimentare forme di solidarietà produttiva.
La disuniformità mondiale sembra oggi un ostacolo quasi insormontabile, ma bisognerà adoperarsi perché non renda invivibile il globo.
Stando a ciò che possiamo rilevare oggi, le difficoltà sembrano essere dovute a varie forme di intolleranza, da quelle tipiche dei diversi sistemi economici a quelle delle religioni. Tutto ciò mantiene le tensioni tra popolazioni diversamente evolute, alimenta le dissipazioni di risorse per scopi militari, lascia spazio all’idea che si possano civilizzare i recalcitranti con operazioni di colonizzazione armata.
È la follia collettiva di quelle che si chiamano comunemente “ideologie”, annidate in alcuni aspetti della cultura ma non altrettanto in altri. Le SNU, in quest’ottica, appaiono, se mi è consentito dirlo, in qualche misura qualunquiste: danno manforte a chi le alimenta. Molte tecnologie di base delle SNU hanno avuto origine, per esempio, da esigenze militari.
Una sterzata culturale è quello che serve all’Italia
Prima però di pensare a livello mondiale, conviene riflettere su ciò che si può sperimentare sulla più modesta scala nazionale in un paese evoluto in cui convivano un po’ di razionalità e di buoni sentimenti (spero non siaazzardato metterla così).
Potrebbe essere l’Italia, se non fosse per un assalto alla diligenza condotto in questi ultimi anni a danno della cultura del paese con le regole aziendaliste e la precarizzazione generale imposte alle strutture istituzionali di formazione e ricerca e agli operatori che in esse lavorano, con palese preferenza governativa per le SNU “in sé”, cioè quasi come moda inevitabile senza indicazioni di finalità condivisibili (è la trappola in cui stanno, dal loro avvento, i responsabili incompetenti).
L’Italia ha avuto un’esperienza significativa di movimento solidale che può salvare i piccoli risparmiatori dalle tempeste dell’economia (speculazioni in borsa, Parmalat, bond argentini, lotterie, ecc.), calmierando al tempo stesso i consumi.
Spero che nessuno rida se dico che, dal punto di vista di una economia solidale, le celebri Coop sono state una grande invenzione: una eccellente storia della loro origine l’ha scritta Sergio Staino (Bobo) in un mirabile fumetto.
La mia domanda è: non si può generalizzare questa esperienza allo sviluppo di tecnologie avanzate, che tengano il passo del mercato internazionale? Una Coop-Innovazione potrebbe svolgere la funzione che in America è svolta da gruppi finanziari che dispongono sia di “venture capitals” (capitali di rischio) sia di consulenti competenti per indirizzare le scelte.
In Italia, gli attori tradizionali di queste imprese sono gli imprenditori, che non hanno il minimo intuito e coraggio per affrontare i rischi innovativi; e le banche, la cui rigidità e autodifesa è proverbiale.
L’unico che rischierebbe tutto è l’esperto, l’inventore, chi vuole far passare il suo progetto. Per cui, i rozzi aziendalisti attualmente al potere hanno pensato bene di “costringere” i ricercatori dell’università e degli enti pubblici (tanto, sono già stipendiati per ricerche che ai politici appaiono inutili) a produrre innovazioni vantaggiose a breve termine, contrariamente alle tradizioni più consolidate. Mentre questi ricercatori potrebbero trovare occasioni assai più adeguate come semplici consulenti (valutatori e non operatori) delle Coop-Innovazione. Benché io sia un fisico, mi rendo conto che iniziare dal settore biologico e biomedico sarebbe più sicuro. Mi si dice che il successo di una sola innovazione spesso ripaghi l’eventuale insuccesso di altre proposte: anche questa è solidarietà, se la varietà delle idee è comunque una risorsa.
Forse, così smetteremmo di piagnucolare sul fatto che questo paese non produce brevetti, senza chiederci perché: il segreto è quello di non mandare sul lastrico chi si impegna nell’innovazione. Solo un economista ingenuo può pensare che questo lo si possa ottenere con “sgravi fiscali”, che presuppongono il ricco imprenditore attento al suo interesse più che allo sviluppo delle conoscenze.
Le strade imboccate distruggono molto di più di ciò che creano e rendono il futuro terribilmente precario. Hanno già bruciato un paio di generazioni di giovani ricercatori, il che è il peggio che poteva accadere.