rilettura

Scrittura, rilettura e cucina dei carciofi – Metodo 25

La rilettura è la parte più importante del mestiere di scrivere. Dunque, gente, per favore rileggete quel che scrivete.

CHI SCRIVE DEVE RILEGGERE. Capita spesso che ragazze e ragazzi mi facciano vedere i loro scritti. Perfino a quelli che vogliono fare pubblicità chiedo di mostrarmi almeno un testo lungo: da un titolo pubblicitario, per quanto brillante sia, è impossibile capire se uno maneggia le parole decentemente, e con grazia.
Così, in novantacinque casi su cento, dopo poco mi ritrovo a fare la medesima domanda: santa polenta, ma hai riletto quel che hai scritto?
Le risposte vanno da no, perché andavo di fretta (argh) a sì, certo (ehm).
… e quante volte hanno riletto, ‘ste anime sante? Una volta. Una. Una sola.
Beh, si scrive e poi si rilegge scorrendo le righe e morta lì, no?

QUANTE VOLTE SI DEVE RILEGGERE? Spiego che si rileggono una volta gli sms. Le mail, se sono non brevissime, qualche volta in corso di scrittura e poi alla fine, prima di cliccare send. Ma un testo per il pubblico va riletto mooolte volte. E, a ogni rilettura, qualcosa va aggiustato. Spesso, quando si modifica una frase, anche la punteggiatura va cambiata di conseguenza.
Il testo apparirà tanto più necessario e naturale quanto più sarà stato, con un paziente e invisibile lavoro di affinamento, reso adatto a dire esattamente quel che vuol dire. Né di più né di meno.
Mi guardano con gli occhioni spalancati, ‘sti pivelli. Allora parte il teatrino.

CHE COSA CONTROLLARE QUANDO SI RILEGGE. Prendo la penna e, mentre quelli fanno spallucce, comincio a segnare gli errori di ortografia: accenti, apostrofi. E orrendezze anche peggiori.
… poi segno le frasi storte, o perché i tempi verbali non concordano, o perché non concordano verbi e soggetti, collocati alle opposte periferie di periodi caotici. Oppure perché o il verbo o il soggetto è definitivamente missing. Poi segno gli anacoluti, che sembrano disinvolti ma sono solo bruttarelli: per esempio quelli che guardano sempre l’orologio, bisogna compatirli…

PRECISARE ATTRAVERSO LA RILETTURA. Segno le parole ripetute senza intenzione o necessità e a breve distanza (es: fino ad ora Pippo era in ritardo di mezz’ora). Già che ci sono, dove posso tolgo le d eufoniche. Segno i salti ingiustificati dal passato al presente o viceversa e, se sono ripetuti e ammucchiati in poche righe, gli andirivieni tra “noi”, “tu”, forme impersonali.
Segno le parole inutili, messe lì tanto per far figura (occhio agli avverbi, per esempio: c’è proprio bisogno di specificare che Tizio corse velocemente, o sorrise gentilmente? Di solito le corse sono veloci e i sorrisi sono gentili, no?)
Segno le frasi di cui il testo può fare a meno senza perdere un milligrammo di senso. Intanto ho guardato la punteggiatura: di solito trovo virgole sparse dove capita, come petali di rosa sul percorso della processione. O come fiati presi a caso da un attore maldestro.

TONO DI VOCE E ALTRE FINEZZE. Ah: comincio a segnare anche le parole fuori tono. Per esempio quelle troppo colloquiali in un testo tutto in punta di penna, o viceversa.
E segno le formule goffe o antiquate: ci sono ventenni che usano egli, al fine di, allorquando e altri muffosi avanzi del tempo che fu. Segno i termini inutilmente scritti in inglese: invece di location per esempio, secondo i casi si possono usare i meno stucchevoli posto, luogo, sede… e se si tratta di un’idea, di una causa, di un’iniziativa o un movimento: beh, è tutta roba che può essere sostenuta invece che supportata.
Ehi, ho specificato: inutilmente. Se trovo scritto toast, lascio toast, perché tramezzino tostato al prosciutto e formaggio non funziona altrettanto bene.

CORTOCIRCUITI DI SENSO. Poi vado a vedere se la scrittura ha ritmo. E se ci sono dei cortocircuiti di senso.
Uno degli esempi più divertenti mi è capitato di recente. È l’incipit di un testo di intenzione peraltro non disprezzabile: Il braccio chiede consiglio alla mente e intanto è sulla porta del cuore ad origliare ogni suo sospiro.
Dico all’autore: e ora, anima santa, visualizza quel che hai scritto.
C’è un braccio (tranciato?) che chiede consiglio alla mente (come fa? Parla? Pensa? È telepatico?) e intanto (sempre lui, il braccio multitasking) è sulla porta del cuore (urca!) ad origliare (il braccio ha orecchie?) ogni suo sospiro (e come fa a sospirare, il cuore? Ha una bocca? E i polmoni, in questo campionario anatomico, che fanno? Battono?).

QUALCOSA CHE VAL LA PENA DI LEGGERE. Spero di avervi dato un’idea di quel che si può trovare se ci si prende la briga di passare un testo al setaccio fine. E sì, certo, le metafore vanno bene, eccome: ma solo se non collassano l’una sull’altra in una poltiglia di incongruenze.
Naturalmente tutto questo lavoro di rilettura parte dal presupposto che il testo racconti qualcosa che val la pena di leggere, se no è meglio risparmiarsi anche la fatica di scrivere e dedicarsi a qualche hobby più divertente.
Ma se uno decide di scrivere, non c’è verso. Deve anche rileggere, se ha un minimo di rispetto per il proprio pensiero. E quando dico “rileggere” intendo: con attenzione, e più di una volta. Quante volte? Tante: cinque, dieci, anche venti se il testo è lungo o complesso.

RILETTURA E CUCINA. In sostanza, lavorare su un testo è come cucinare carciofi. PRIMA si puliscono e si tirano via le foglie dure e guaste. POI si taglia la punta: via tutte le spine. POI si dividono a metà, o in quarti, eliminando anche quelle barbette interne fetenti e traditrici che, se finiscono in bocca, allappano. POI bisogna lavarli bene bene.
Solo se è stata tirata via la roba sbagliata, brutta, inutile ci si può divertire coi profumi e i sapori. E si può mettere in pentola aggiungendo tutto quel che serve.
Mi diceva però l’ortolano che adesso la gente non vuol più rompersi l’anima, perdere tempo e pungersi per pulire i carciofi: molti preferiscono quelli già pronti, sfogliati, privati del gambo, decapitati. Anche se fanno tristezza, rinsecchiti e nerastri come sono.
Ma chi scrive deve rassegnarsi. E pulire bene i suoi carciofi.
Questo articolo è stato aggiornato nel febbraio 2017.

35 risposte

  1. Carissima, che bello iniziare una settimana che si preannuncia melmosa, con la lettura di un testo così gradevole! Mi ha ricordato “Le seppie con i piselli” di Achille Campanile, una riflessione su un fenomeno minimo, scritta in modo fantastico. Io non scrivo di mestiere ma, quando penso di aver scritto qualcosa che mi soddisfa, vado a rileggere di seppie e piselli, e mi vergogno. E, così come li hai cucinati, i carciofi mi piacciono anche di più.

  2. Buongiorno a tutti. Che bel tema..! Mi rammenta quando, circa X..anta anni fa il mio “collega anziano” (non mi piace dire “capo”) prese un mio testo e, sorridendo, mi disse: “Un testo si scrive UNA volta e si legge MOLTE volte. La maggior fatica che tu fai ora a scriverlo in modo comprensibile, chiaro ed univoco e’ compensata ampiamente dalla minor fatica che quelli che lo leggono dopo faranno per capirlo”. Grande lezione. Poi mi ha spiegato alcune semplici regole di bon senso per scrivere un testo che sia essenziale, univoco e comprensibile. Regole che ancora ricordo ed uso con religioso rispetto: 1 – Dal generale al particolare 2 – Frasi corte e semplici che portano UN solo messaggio. La frase e’ l’incarto, il messaggio e’ l’oggetto. Se l’incarto e’ troppo abbondante, nello scartare il pacchetto rischi di perderti l’oggetto 3 – Introduci cio’ che stai per dire. Chi ascolta o legge deve sapere in anticipo in quale “scaffale della memoria” deve andare a mettere cio’ che gli porgerai, altrimenti rischia di perderlo. 4 – Riassumi prima di cambiare soggetto o livello descrittivo. Serve a dare il tempo di rimettere in ordine le idee. 5 – Rileggi mille volte e ogni volta prova a togliere un capitolo, un periodo o una parola. Se il senso non cambia butta via quello che hai tolto: non serve…! 6 – Scrivi a parte i messaggi che volevi passare, in ordine di importanza. Quando pensi di aver finito il testo verifica che i messaggi siano stati passati chiaramente, univocamente, in un solo punto e con “spazio” proporzionale all’importanza. Altrimenti… ricomincia da capo. Lo faccio ancora. Ed ogni volta dentro di me ringrazio Enzo Falzone per la lezione.

  3. Solo se è stata tirata via la roba sbagliata, brutta, inutile ci si può divertirvi coi profumi e i sapori. E si può mettere in pentola aggiungendo tutto quel che serve. E, a ogni rilettura, qualcosa va aggiustato. Spesso, quando si modifica una frase, anche la punteggiatura va cambiata di conseguenza. mi sa che hai pensato di scrivere “potete divertirvi” e poi hai cambiato idea. 🙂 spero di aver fatto cosa gradita.

  4. volevo anche aggiungere che ci sono anche i carciofi alla giudia. per pulirli si inizia allo stesso modo. PRIMA si puliscono e si tirano via le foglie dure e guaste. POI partendo dal basso si incide con un coltellino dalla lama corta e affilatissima e si disegna una spirale che sale sale fino in cima. in questo modo si salva solo la parte edibile di ogni foglia. il risultato è un bocciolo di rosa che si tuffa nell’olio caldo a cuocere per circa un quarto d’ora. POI si estrae il carciofo che per effetto dell’olio si è aperto leggermente e, partendo dal centro, si allargano ulteriormente le foglie con una forchetta o, i più eroici, con le dita. A QUESTO PUNTO si tuffano di nuovo nell’olio, questa volta a una temperatura molto molto più alta, per un paio di minuti. è così che le foglie esterne diventano belle croccanti e l’interno morbido. chissà se, anche qui, si possono trovare analogie con la scrittura…

  5. … proprio così. Grazie, up! Ero certa che, proprio in questo post, il dannato refuso fosse in agguato. E infatti.

  6. In questi tempi, in cui i testi vengono bistrattati in vari modi, questo articolo è un vero toccasana per riflettere sulla scrittura e, perché no, anche su come cucinare i carciofi. Grazie

  7. Bella questa metafora. Giusto ieri ho mangiato carciofi. Ritti, cioè ripieni e cotti, appunto, in piedi perché non fuoriesca la farcitura. Un testo, per me che non ho fatto della scrittura una professione, dev’essere bello pulito, ma ripieno. Gianna

  8. Cara Annamaria, buona settimana. Che bel post:-) L’ho letto mentre stavo correggendo le prime bozze di tre tesi di laurea dei mie studenti. L’ho postato sul mio sito e l’ho girato ai miei ragazzi. Anche se nel mio caso – non ho a che fare con testi pubblicitari – il problema vero è l’organizzazione di un indice e di un testo strutturati. Nessuno lo insegna loro. Devo dire che almeno i miei ragazzi imparano in fretta. Un abbraccio Mariella

  9. ricordarsi di lavare bene i carciofi in acqua leggermente tiepida con aggiunta di limone, così non anneriscono. il braccio chiede consiglio alla mente….mi sembrava mica male. per i giovani scrittori una frase di Don Delillo: The writer leads, he does’nt follow mw

  10. Adoro leggere Annamaria Testa. Adoro i suoi consigli. I link, i riferimenti letterari, i suoi libri. Con NeU mi sembra di avere un insegnante a domicilio da cui attingere creatività, anche di notte, quando tutto tace e il cuore mormora ‘ascoltami’. E ciò che adoro di più sono i commenti. Tante persone, con un’unica passione, che raccontano la loro. E così non faccio altro che imparare da questa grande rete di solidarietà a cui vanno i miei uno, dieci, mille GRAZIE! Anna

  11. Annamaria, grazie per aver rievocato le preziose parole della mia professoressa di lettere al liceo. Caso vuole che portasse il tuo stesso cognome. Marco http://mush.it

  12. Io rileggo addirittura in anteprima (su blogger) perchè altrimenti si possono creare zone cieche in cui cose scritte male invece le leggi bene. Cerco di fare in modo che il formato grafico della rilettura sia diverso da quello della scrittura. Paolo Pascucci

  13. Ottimo spunto per una lezione scolastica. I miei alunni, da oggi, hanno uno strumento in più per scrivere decentemente. In più, sentendo parlare di Annamaria Testa, sapranno riconoscerla.

  14. La REVISIONE dei testi è la pratica preziosa nei miei laboratori di scrittura, apprezzata nel tempo dagli studenti. Quando scrivo ne faccio un uso quasi maniacale, ma mi diverto. Molti esordienti mi chiedono il commento dei loro lavori e il suggerimento è eternamente revisionare testi e i loro dintorni ((*_))

    1. “Volevo diventare a tutti i costi uno scrittore. Scrivere storie serie, importanti, drammatiche. Finora di drammatico c’è che volevo fare lo scrittore” Disse l’incipit. MP

  15. Tanto garbato quanto salutare, questo invito alla rilettura di ogni “prodotto” della scrittura può essere recepito con profitto non solo dai giovinetti ancora acerbi e precipitosi ma anche da noi “scriventi inveterati”…Pur avvezzi da qualche decennio a praticare e predicare con piglio deciso la revisione ripetuta quando non ostinata di ogni testo, noi (cioè io e chi si riconosce nelle mie parole) cediamo talvolta alla frenesia dello “scrivere nell’era della tecnica” e produciamo a ritmo serrato (pronti ad invocare questo aspetto come attenuante) mail, commenti e post confidando nell’esperienza acquisita e riducendo al minimo il tempo del controllo, tanto da esporci al rischio dell’errore di digitazione (nel mio caso la vista non ottimale è un fattore di rischio non secondario) e della… “orrendezza accidentale”…tanto orrenda come una macchia che mai e poi mai avremmo tollerato sul nostro abito se solo ci fossimo un attimo guardati allo specchio e che vorremmo prodotta da qualsiasi tastiera ma non dalla nostra. C’è poi una seconda patologia ancora più subdola, quella della auto ridondanza che si fa talora persino autocompiacimento, quando il rileggere, condotto in modo meccanico e abitudinario, si ferma all’aspetto ortografico e formale, senza giungere alle domande più scomode, quelle che portano a scoprire i difetti intrinseci e cronici del nostro stile, e paralizza la volontà di migliorare per davvero, inducendoci alla pigrizia e all’auto indulgenza contemplativa delle nostre parole, ed impedendoci di ritornare dopo un certo tempo a riscrivere da capo una nostra pagina, magari con il conforto di amici capaci di fare meglio di noi. Si evoca sempre la tirannia del tempo, e ci si crogiola nella propria scrittura incompiuta rinunciando ad imparare a scrivere ogni giorno anche attraverso la “rilettura allargata e condivisa”. Tutto questo per dire che qualsivoglia…orrendezza…snidata in ciò che scrivo non è in alcun modo giustificata. I carciofi non li so cucinare, e magari fossero solo i carciofi. Pensiero nuovo e utile per me: dove sta… scritto…. (lapsus significativo) che io sia destinato a congedarmi da questo mondo senza avere imparato a cucinare i carciofi e altre delizie? Forse si incomincia con il leggere e rileggere la ricetta per poi provare e riprovare sotto la vigile sorveglianza di chi sa il fatto suo…Nuovo e utile.

  16. AGGIORNAMENTO
    I tormenti dell’editor di manoscritti:
    “…dai «qual’è» agli «un’amico», ai «sé stesso», eccoci allora (attingo liberamente dall’archivio) a mirabilie come «non posso fare almeno di te», «avrebbe rinunciato ha tutto» (e noi al Suo romanzo), «le otrocità di Pol Pot» (per non parlare di quelle del Suo word processor), e il mio preferito almeno per quest’anno, Hiroshima Mona Mour”.
    http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/17_febbraio_07/pultroppo-sto-areoporto-io-editor-manoscrittori-fba76a28-ed12-11e6-98b8-4bd2be417fad.shtml

    Insomma, dai rileggete 🙂

  17. Sarebbe bello se anche i clienti (o i “capi”) assorbissero questi concetti, o se almeno li rispettassero, se avessero l’umiltà di lasciare lavorare chi fa questo mestiere senza il pepe nel culo (scusate il francesismo). La cosa più difficile da far capire, almeno nel mio caso, è che per dare l’impressione di spontaneità ci vuole tempo e pazienza. Un sacco di volte, invece, mi sento dire: “facciamo un video pronti-via”, “scriviamo due righe pronti-via”… finchè “pronti-via” saluterò tutti e andrò a lavorare altrove 😀

  18. Una utilissima lezione che tutti coloro che scrivono dovrebbero sempre tenere presente, Oltre tutto la fase di rilettura e rilucidatura del testo è tutt’altro che noiosa e concede grandi soddisfazioni all’autore che si misura con se stesso. Invece, proprio sul «sé stesso» citato nell’articolo che illustra i tormenti dell’editor, ci sarebbe da dire. Dopo molto leggere e riflettere, alla fine ho adottato il «se stesso», ma non a caso.

  19. Un amico, Oscar, mi ha confessato che gli è capitata una cosa ‘stupenda’, che da profano qual’è non aveva immaginato potesse accadere (Oscar scrive per hobby e terapia). Aveva fatto una scommessa con noi del sito di scrivere una storia in 52 puntate, una a settimana, per un anno intero. La scommessa l’ha vinta, ma alcuni lettori ci hanno chiesto di poterlo leggere in PDF (E noi felici, è la rivincita della carta). Fatto sta, ti giuro Annamaria, che poi è sparito per un mese e nemmeno accedendeva il cellulare. Lo abbiamo trovato in casa tra pile di libri e innumerevoli stampe del suo libro (Non in crisi, anzi, apparentemente guarito.) Ci ha quindi confessato quanto segue: 1 Appena ha iniziato a rileggere non stava più leggendo se stesso, un conto, dice, è essere scrittore, un conto lettore. 2 Si vergognava di certe ridondanze che servivano solo a sentirsi bravo, ma rompevano i c.. al lettore (che era lui). 3 Ogni volta che incappava in un aggettivo o un avverbio lo toglieva, rileggeva la frase e si accorgeva che per il 90% erano inutili, anzi, toglievano qualcosa. 4 Allora si è messo a fare un gioco, ad ogni suo capitolo alternava un capitolo di un classico, ma non è mai riuscito a togliere un solo aggettivo (“momento umiliante e di umiltà”, parole sue). 5 Ma quel che è peggio è che una volta che vedeva le sue righe sulla carta e non più su web la sua scrittura diventava materica, libro, che si poteva toccare, che stabiliva un contatto, e una frase che gli era sembrata perfetta, rileggendola, non funzionava più, quindi da capo, ancora. 6 Mi ha detto infine che rileggendo ha il dubbio che il suo romanzo non finirà mai: “52 capitoli son tanti, e siccome scrivere è inventare, crescere, quando sono arrivato a leggere, e correggere, il 52esimo, il primo non mi piace più, da capo!” E nemmeno, sostiene Oscar, può sciacquare i suoi cenci in Arno, perché scrittore o lavandaia lui non è. “Scrivere è un mestiere d’artigiano, altro che artista!”
    Quindi, per concludere questa storia assurda di Oscar, penso che rileggere almeno 7 volte sia necessario, ma all’ottava diventa da ricovero.
    Ti ringrazio per l’opportunità (scrivere qualcosa la sera dopo un faticoso venerdì mi rilassa più che Sanremo), ma ora, anche se sto scrivendo su web, ti chiedo il tempo di rileggere. Spero infatti in una risicata sufficienza dalla mia prof. Grazie.

      1. Ciao Gabriele.
        La storia che racconti è graziosa e interessante, ed è questo quello che conta. Certo, bisogna rileggere e rileggere. Ma il diavoletto Titivillus (lo trovi a questa pagina: https://nuovoeutile.it/errori-lacune-e-refusi/) è sempre in agguato, e un refuso scappa a chiunque (compresa la sottoscritta, ovviamente).

  20. Fra tanti buoni consigli, suggerimenti e insegnamenti encomiabili, mi sorprende trovare la difesa dell’accento part-time sul pronome “sé”: l’accento caratterizza il vocabolo e deve esserci sempre (oppure mai, come in Leopardi). Se servisse solo per evitare confusione non si userebbe nemmeno per il pronome solo, essendo molto improbabile una frase in cui non se ne capisca il senso, comprese le forme plurali (sé stessi/e) da non confonderle con i congiuntivi di “stare”. D’altronde, se valesse il criterio delle possibilità di confusione l’accento diventerebbe spesso inutile anche in altri monosillabi (come “sì”, “dà” ecc.), oltre che in locuzioni come “a sé stante”, “da sé” eccetera.
    Purtroppo la questione pare ancora irrisolta, nonostante le raccomandazioni di Aldo Gabrielli, Luca Serianni, Valeria Della Valle e del dizionario Zingarelli nelle edizioni più recenti.
    Diffondere buoni esempi ed evitare qualsiasi contributo alla scorrettezza mi pare la migliore resistenza ancora possibile.

    1. Ovviamente: « … da non confondere con i congiuntivi … » (senza la “l”), oppure « … per non confonderle … ».
      Potrei dire che l’ho fatto apposta, per verificare l’attenzione di chi legge, o confermare che «un refuso scappa a chiunque» e dimostrare che non si rilegge mai abbastanza; ma la verità è che non ho riletto con sufficiente attenzione, nella fretta dell’invio mediante una connessione precaria. L’inesorabile vendetta del refuso me la sono meritata, mi dichiaro colpevole e chiedo perdono.

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