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Capire i testi: quando lo facciamo, siamo tutti Ginger Rogers

Certo, Fred Astaire era grandioso. Ma non dimentichiamoci che Ginger Rogers faceva esattamente le stesse cose, ballando all’indietro e sui tacchi alti. Questa considerazione, apparsa nel 1982 in una strip del fumettista americano Robert Thaves, viene spesso riproposta quando si vuol restituire il giusto rilievo a un talento femminile oscurato dal protagonismo maschile.

CAPIRE, DANZANDO ALL’INDIETRO. Ma siamo tutti un po’ Ginger Rogers quando leggiamo un testo o ascoltiamo un discorso (e a patto che lo facciamo bene, riuscendo a capire quello che stiamo leggendo o ascoltando). Leggendo o ascoltando, infatti, danziamo sulle parole ricostruendo passo dopo passo la trama di un senso che è già chiaro all’autore, quello che guida le danze e sa quel che vuol dire e dove vuole arrivare. Ma che a noi chiaro ancora non è. Danziamo all’indietro.

La cosa più curiosa è che non ci rendiamo nemmeno conto della complessità di quanto stiamo combinando: sembra sempre che chi ascolta (o legge) non faccia niente, a parte prestare orecchio, o muovere lo sguardo lungo le righe di una pagina o di uno schermo.

VORTICOSO E MERAVIGLIOSO.  Così, nella percezione comune, chi scrive o parla fa “tutto il lavoro”, e chi legge o ascolta svolge un ruolo passivo all’interno di quel meraviglioso, vorticoso, complicato e squisitamente umano (anche se non solo umano) processo che è la comunicazione.

Perfino quando si dice della fatica di ascoltare, o di leggere, di norma ci si riferisce all’obbligo fisico di starsene immobili. Alla necessità di resistere all’impulso di contraddire o di mandare a quel paese qualcuno le cui tesi non condividiamo. Al fatto che i caratteri a stampa siano troppo piccoli, o al fatto che l’argomento sia poco interessante, o al fatto che dai, è proprio un peccato starsene chiusi in una stanza mentre fuori c’è il sole. Non è tutto qui.

Oggi c’è un’evidenza in più, a confermare l’idea che comprendere le parole e i testi sia una faccenda faticosa e complicata: una delle sfide più complesse che l’intelligenza artificiale sta affrontando è proprio la comprensione del linguaggio umano, e questo non deriva certo dal fatto che i computer non hanno occhi o orecchie (i sensori di cui possono essere dotati funzionano anche meglio) o rapidità, o memoria.

IL LAVORO DEL CERVELLO. Ricostruiamo per sommi capi il processo del comprendere.
Quando leggiamo o ascoltiamo 1) diventiamo consapevoli che siamo esposti a un “pacchetto di comunicazione”, focalizziamo la nostra attenzione e ci predisponiamo a ricevere il pacchetto 2) i nostri organi di senso selezionano le serie di stimoli visivi o uditivi da trasmettere al cervello, escludendo per quanto possibile tutto ciò che non c’entra.

3) Così il cervello riconosce gli stimoli, li decodifica, li interpreta e li elabora connettendoli tra loro e confrontandoli con il contesto. Lo fa sia ricorrendo alla memoria a breve termine, che gli permette di tener presente il materiale sui cui sta lavorando, sia ricorrendo alla memoria a lungo termine, che contiene esperienze, conoscenze (significato delle parole compreso), ricordi…

4) Il cervello si costruisce una rappresentazione mentale dei contenuti del testo, facendo ipotesi, mettendo in gioco tutte le proprie capacità logiche e e provando ad anticipare i contenuti successivi. 5) E continua a fare tutto questo, in millesimi di secondo, mentre ulteriori nuovi stimoli vengono recepiti, elaborati e integrati con i precedenti, il cui senso può risultare confermato o modificato.

COMPLESSO E INCERTO. A complicare ulteriormente il processo, che già di suo è complesso e incerto, c’è un altro fatto: i discorsi che ci facciamo sono intricati, ambigui, vaghi, lacunosi. Non tutte le informazioni necessarie alla comprensione sono contenute dentro ciascun testo, o nella situazione all’interno della quale il testo viene trasmesso.

E poi: non tutte le affermazioni (per esempio, le affermazioni sarcastiche) vanno intese in senso letterale. La chiave per una corretta interpretazione può stare in elementi minuscoli rispetto all’intero testo, come un ma o un però, o una virgola, o una pausa, o un cambiamento nel tono della voce. E spesso la chiave del senso del discorso se ne sta proprio altrove: in fatti e conoscenze implicite, ai quali nel testo non si fa nemmeno cenno.

Capire testi come danzare

CAPIRE LE PAROLE. Vado a recuperare un bellissimo libro di Tullio De Mauro, intitolato Capire le parole. La mia edizione è del 1994, le pagine sono ingiallite e fitte di sottolineature. De Mauro dice che la forma del segno linguistico è siffatta da chiamare in causa, nel suo offrirsi a noi, l’intera capacità di intelligenza e di vita di cui siamo dotati. Ehi, “tutta la nostra intelligenza”! Altro che lettura o ascolto passivo.

Un paio di pagine prima c’è la descrizione vivida della fatica che tutti noi, come lettori o ascoltatori, facciamo per capire quanto stiamo leggendo o ascoltando: Il movimento della ricezione si sviluppa in modo simile a chi saggia ed esplora gli appigli per salire su un albero o, in montagna, su una paretina.

Scegliamo e scorgiamo un appiglio o un appoggio, protendiamo una mano o un piede, saggiamo la sicurezza di presa o di appoggio e, se possiamo fidarci, scegliamo e proviamo un secondo appiglio, poi un terzo, un quarto, secondo un ordine che solo le circostanze suggeriscono, e proviamo a sollevarci e, se tutto va bene, andiamo allora alla ricerca di un quinto punto di appoggio e di presa, più in alto, abbandoniamo (proviamo ad abbandonare) uno dei primi quattro, saggiamo il nuovo, ci affidiamo a esso, sollevandoci.

UNA FACCENDA DI PRESTAZIONI. Il guaio è che chi produce testi, detti o scritti, a volte  tende a pensare a se stesso come protagonista unico e assoluto della comunicazione. Così, si preoccupa solo delle proprie prestazioni: di quanto farà bella figura o di quanto riuscirà a essere convincente, o di come sciorinerà il proprio fascino, il proprio sapere. O, peggio ancora, avvolge se stesso nei fumi del burocratese, del politichese o dell’aziendalese, con l’obiettivo di confermare la propria posizione di superiorità nei confronti del pubblico. O immagina di brillare ancora di più se sceglie il gergo itanglese più oscuro (ahah, io sì che sono moderno!).

Ma, facendo questo, fatalmente considera le persone che lo leggono o lo ascoltano in termini di risultati personali da ottenere, e non in quanto alleati da sostenere nel corso del complicato processo del trasmettersi idee.

L’ANTIPATIA DEL PAVONE. Ed eccovi il motivo per il quale a molti (compresa la sottoscritta) può risultare piuttosto antipatico un oratore o un autore che esplicitamente si pavoneggia e si produce in inutili acrobazie linguistiche, tutto soddisfatto del proprio presunto protagonismo sulla scena.
Ehi, bel tomo, mi viene da dirgli, datti una calmata e ricordati che non stai ballando in solitudine. Sto cercando di venirti dietro e capirti, ma tu mi fai fare più fatica del necessario, considerando che io vado all’indietro. E ho anche i tacchi.

9 risposte

  1. Ciao Annamaria
    Mi hai fatto ritornare alla mente il famoso termine AMBARADAN, pronunciato dal professore della Bocconi durante un corso di marketing e subito fagocitato dal direttore commerciale di piastrelle che partecipava al corso col chiaro intento di arricchire il proprio vocabolario di itanglese, ricordo che l’aneddoto ti piacque.
    Ma una cosa credo di aver capito dal tuo articolo: stiamo forse uccidendo il dono più prezioso che possediamo, l’uso della parola. Come giustamente affermi, tutti comunicano fra loro, ma gli esseri umani parlano per quel primordiale regalo dell’afflato divino che oggi ha perso gran parte della sacralità originaria.
    Abbiamo infilato la parola prima nei libri, poi nei megafoni, poi nelle radio e nelle televisioni e infine nelle tastiere.
    E oggi ascoltavo un servizio del telegiornale con la voce di Trump in sottofondo e la traduzione simultanea di un incerto interprete che si infilava fra immagini e rumori di navi aerei e bombe.
    Ginger ballava all’indietro, ma almeno la musica l’aiutava.

  2. Devo congratularmi con l’autrice di questo gustoso e efficaec articolo. Sono un’insegnante di scuola superiore che si occupa dei problemi legati alle difficoltà di lettura e devo dirle che utilizzerò i concetti che lei esprime così bene come primo elemento per avviare un dialogo sulle difficoltà di lettura. Grazie

  3. Di PAVONI ce ne sono ovunque, ahi noi! Frequento musei e mostre e mi imbatto in guide (?) oranti a un pubblico di turisti italiani o stranieri, soprattutto a Roma.

    Personalmente non utilizzo guide per infinite ragioni, ma mi accade di sentire le loro spiegazioni. Ecco, dire che sono autoreferenziale è poco. Infiocchettano di inutili informazioni l’incontro, per esempio, con “Giuditta e Oloferne”, invece di invitare gli astanti a osservare in silenzio e a “sentire” l’opera di Merisi. La danza comincerebbe da lì, altrimenti…non c’è storia *_*

  4. “ballando all’indietro e sui tacchi alti”, ovvero: scrivere iniziando dal punto di vista dell’utente finale che legge o ascolta.

    A differenza del vedere, udire e parlare (o emettere suoni) , leggere e scrivere sono competenze innaturali per l’uomo e per questo richiedono maggiori sforzi e tanto esercizio.

    Vedere, udire ed emettere suoni sono competenze che appartengono a bambini non scolarizzati e persone illetterate, competenze naturali appartenenti ad un mondo orale primario (Walter J. Ong) in cui siamo immersi fin dai primi istanti di vita e fino a quando, solo con l’istruzione scolastica, impariamo a leggere e scrivere.

    Dopo aver imparato a leggere e scrivere l’oralità primaria è persa per sempre.
    Secondo W.J.Ong siamo talmente intrisi di scrittura che siamo diventati ciechi, non siamo cioè in grado di pensare ad una oralità senza scrittura.

    Come ha scritto Annamaria in un bel post (vedi il link “o di leggere” evidenziato sopra), la fatica di leggere è reale.

    Se leggere è innaturale e faticoso, in alcuni casi capire è quasi impossibile.
    Proprio per questo motivo chi scrive dovrebbe farlo “ballando all’indietro e sui tacchi alti” per farsi capire e fare capire.

  5. Non vorrei essere troppo polemico, ma questo articolo, che già si può applicare ai comunicatori da marketing e agli aziendalesi, non è ancora più valido per i ricercatori e i docenti universitari?

    Posso dire che nella mia carriera universitaria conto sulle dita di una mano i testi non dico scorrevoli, ma leggibili?
    Non parlo di linguaggio tecnico, che è imprescindibile, ma di frasi lunghe intere pagine, piene di incisi e subordinate incomprensibili, pronomi buttati a caso, e, adesso oso, concetti a dir poco fumosi (se non addirittura ‘fumati’).
    Ma possibile che i docenti e i ricercatori, dall’alto della loro cultura che è, obiettivamente, vastissima, non siano capaci o non abbiano nessun interesse a spiegarsi in maniera decente?
    Quando esattamente si è deciso nell’accademia che sostituire la complessità con la cattiva formulazione avrebbe aumentato il valore di un testo?

    E poi magari si lamentano che i loro alunni sono analfabeti funzionali: hanno ragione! certo! Ma scrivere male non mi sembra una soluzione efficace.

  6. Di PAVONI che fanno una ruota smisurata se ne trovano molti tra i docenti universitari e  tra i ricercatori. Costoro si ammantano di una prosopopea non confortata da una competenza comunicativa che dovrebbe essere l’elemento principe del loro ruolo.

    Assisto di frequente a un uso di proiezioni testuali esagerato che mortifica l’oratoria. Vengono letti i testi proiettati: una noia pazzesca, mi ripeto, a discapito di una comunicazione efficace *_*

  7. Sono una studentessa non frequentante e molto spesso mi trovo a studiare su libri scritti o curati dallo stesso professore che tiene il corso. La differenza tra il linguaggio del testo e quello della lezione frontale – ad esclusione dei termini significativi per la materia – è sempre grande, sebbene entrambi abbiano origine dalla stessa persona.

  8. La parola, nel sistema articolato della comunicazione che usa tanti media, ha assunto una valenza estetica, narcisistica. Come farsi un selfie.
    Si parla per ascoltare se stessi, per vanto, a volte con prepotenza. E poi non si ascolta.
    Ma per fortuna sappiamo ballare. Capire ci aiuta a ritrovare le parole.

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