Ricevo e pubblico volentieri l’esperienza di Andrea Limardo, laureato in filosofia che voleva fare il cervello in fuga. E, per ora, farà il cervello che resta, pronto a seguire lo zigzagare degli eventi. È interessante perché racconta una cosa semplice, che ogni anno cerco di spiegare anche ai miei studenti: difficilmente i percorsi di carriera sono lineari. Difficilmente chi esce dall’università trova un universo pronto ad accoglierlo. E allora conviene essere pronti a fare rapidi e ripetuti reset delle proprie prospettive e delle proprie aspettative, e a cogliere qualsiasi opportunità, da qualunque parte venga.
Infine, una piccola nota personale: l’inizio della mia storia è assai simile all’inizio della storia di Andrea. Anch’io, mentre studiavo, pensavo che mi sarei fermata in università. E poi mi è successo di fare tutt’altro, e anche di scoprire che ci riuscivo mica male. Ventidue anni dopo, è stato proprio quel tutt’altro a riportarmi in università.
Un grande in bocca al lupo ad Andrea.
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“Che cosa vuoi fare da grande?”. Una prima stretta di mano, poi una seconda, a cui segue una terza e una quarta. Infine una quinta, al mio relatore. Presa energica. I pollici s’intrecciano, poggiandosi uno sull’altro.
Il risultato è il migliore immaginabile: lode, con apprezzamenti per l’originalità del tema trattato.
“Sì, ma che cosa vuoi fare da grande?”.
Il ricercatore, che altro? Poi il professore universitario. Ho un bel progetto di vita. Ottawa è il centro perfetto per i miei interessi: filosofia e neuroscienza affettiva.
Ne parlo col mio relatore. Pieno appoggio alla scelta, si offre di darmi una mano. Così mi prefiggo di andare a Oxford, in modo da perfezionare l’inglese. Intanto prendo contatti con un docente in Canada: tutto ok, è così entusiasta che vuole farmi da tutor per i successivi anni di studio.
Immaginatevi, ora, che un bel giorno v’informino che non ci sarà borsa di studio, che dovrete spendere trentamila dollari l’anno di tasca vostra. Bel pugno sullo stomaco. Il progetto, quello vero, quello per cui si fanno le ore piccole la notte, salta di colpo.
Contatto il mio relatore: nulla. Da quel momento tutto tace. Il sostegno non te lo danno più: ti scopri solo.
“Che cosa vuoi fare da grande, insomma?”. Prima il pompiere, poi il minatore, poi il pittore, poi il ricercatore. Il creativo no, assolutamente.
Anche perché, creativi, ve lo dico per l’ultima volta: Bacon è un creativo, mettiamo dei paletti fin d’ora.
Due amici mi consigliano comunque di provare. Avevo già parlato con il direttore di una scuola di comunicazione. Mi aveva fatto una domanda semplice: “Tu credi che si possano fare robe intelligenti in pubblicità?”. La mia risposta era stata altrettanto semplice: “Il problema è solo di chi le fa le cose, non dei mezzi che usa”.
Mi sembra un buon punto da cui riprendere.
Io sono uno a cui non piace stare fermo. Nietzsche diceva che avere il sedere piatto è il crimine peggiore. Un giorno d’agosto decido di rimettermi in gioco: alla fine è questo che conta.
Di fallire non ho paura. Bisogna avere paura di chi vive gli eventi come se fossero disposti secondo una linea determinata, un punto che segue l’altro.
Annamaria Testa mi ha cortesemente chiesto di aggiungere qualche riga sugli ultimi sviluppi della mia vicenda. Dal giorno in cui ho scritto quanto qui avete avuto modo di leggere, ho ricevuto un’offerta presso l’agenzia Leo Burnett di Milano. Inizierò quindi a breve il mio stage come copywriter. Mi hanno promesso l’inferno. Non credo di essere l’unico ad avere ricevuto questo benvenuto nella propria carriera professionale. Però, come scriveva Fabrizio de Andrè, “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura”. In più sono ateo, senza un solo sacramento, e questo è un bel vantaggio sul tema. Un saluto a voi tutti. Andrea Limardo
anche dante ha iniziato da lì.. in bocca al lupo!
A REGOLA D’ARTE Mi capita a volte di incontrare persone brillanti, capaci, determinate, ma che sono molto scontenti del lavoro che fanno (anche se ringraziano per il fatto che c’è l’hanno ancora). Perché non fanno quello per cui si erano preparati a fare o perché qualcosa o qualcuno gli impedisce o limita le condizioni per come quel lavoro andrebbe fatto. Allora mi ritorna in mente la storia che ci ha raccontato Enzo Mari degli intarsi in marmo del cornicione interno del Battistero di Firenze, disegni invisibili ai fedeli dal basso, ma perfetti per l’occhio di Dio. Quindi direi direi che fare le cose come andrebbero fatte, che sia una frase per lo spot di un formaggino o la ricerca sull’autismo poco importa, è una delle soddisfazioni che nessuno può negarci. Auguri