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I piccioni, il cronista, quel po’ di vertigine. E l’eterno presente del web

Il senior editor del settimanale Indipendent, David Randall, racconta questa storia fantastica sulle pagine di Internazionale: in Gran Bretagna le partite di calcio di solito si giocano di sabato pomeriggio. Quando questo sport cominciò a diventare popolare, verso la fine dell’Ottocento, in tutte le grandi città di provincia nacquero giornali chiamati football specials, che riportavano i risultati e le cronache e si vantavano di essere in edicola un’ora dopo la fine delle partite. Per far arrivare più in fretta i loro articoli, i cronisti sportivi avevano in dotazione un cesto di piccioni viaggiatori. Scrivevano le loro cronache a puntate su fogli di carta velina e li legavano alle zampe dei piccioni, che volavano alla redazione del giornale, dove era stato creato un ufficio speciale sul tetto per riceverli. Incredibile, ma vero.
Con il passare del tempo i telefoni hanno sostituito i piccioni e, alla fine degli anni settanta, quando lavoravo nella redazione sportiva di un giornale della domenica, il sistema per far arrivare le cronache sportive era ben rodato. Le partite finivano alle 16.50 e il pezzo doveva essere in redazione alle 17.05. Scrivere circa 600 parole in 15 minuti non è facile, così le prime 200 venivano dettate al telefono durante l’intervallo, le seconde 200 al 75° minuto, e le ultime 200 (divise in 100 di introduzione e 100 di conclusioni) alla fine della partita.

Randall prosegue dicendo che tutto è cambiato non tanto coi computer portatili e con internet quanto con la tv, perché questa permette al pubblico di intercettare ogni dettaglio di ciò che i cronisti raccontano: una condizione di controllo che nessun altro giornalista sperimenta. E conclude dicendo che, comunque, chi scrive di sport può concedersi ambiti di libertà espressiva e creativa che ad altri reporter sono negati. Per questo la cronaca sportiva attira le penne migliori e gli articoli sportivi sono raccolti in antologie e continuano a essere letti anche a distanza di decenni.

Seguo poco lo sport, eppure mi è capitato di leggere con passione, commozione e un senso di vertigine gli articoli di Emanuela Audisio (l’unica donna ad aver vinto il premio Gianni Brera). Le prime righe mi agganciano e “devo” precipitarmi fino alla fine. Per esempio, questa recente intervista a John Carlos, l’atleta di Harlem che nel 1968 saluta dal podio olimpico con la mano guantata di nero, il segno delle Black Panthers contro il razzismo. Ma anche questo addio a Tyson, scritto nel 1994.

Immagino che Randall abbia ragione sull’ininfluenza di internet per quanto riguarda la scrittura degli articoli di sport. Che però il web abbia pesantissimamente influenzato l’intera industry dell’informazione è del tutto fuori discussione. Così come è fuori discussione il fatto che, mentre molti giornali tradizionali sono in crisi, nuove forme di giornalismo stiano nascendo in rete.

C’è però un fatto riguardante il web di cui si parla di meno, che è ugualmente macroscopico, e che conferma e amplia la conclusione di Randall: in rete, come sa bene chiunque faccia un minimo di ricerca, sono compresenti e disponibili testi scritti un minuto fa e altri scritti decenni fa. Così, mille e mille voci, prospettive, interpretazioni e passioni si rimescolano in un eterno presente percepito, perché ciò che non abbiamo mai letto è per noi “nuovo” (e la stessa cosa accade con la musica su YouTube: Dylan e Lady Gaga separati da un semplice, infinitesimo clic).

Ma, si tratti di testi o di musica, sta di fatto che certa roba appare fresca, attuale, appassionante e croccante come appena sfornata, a prescindere dal fatto che abbia un minuto o vent’anni di vita creativa. E altra appare spenta, anche se è recente sotto il profilo cronologico. Forse, pubblicando sul web, bisognerebbe cominciare a chiedersi quanto ciò che si pubblica sia capace di resistere al tempo: e magari di restituire, immutata, un po’ di vertigine.
… che valga la pena di immaginare una data di scadenza?
Per quanto mi riguarda, a volte mi capita di trovare un po’ di vertigine nei buoni articoli di divulgazione scientifica. Per esempio questo, che racconta come la prima parola umana sia stata, con ogni probabilità, un Duh. Lo stesso Duh che pronuncia Homer Simpson dai nostri televisori. O, naturalmente, su YouTube.

Una risposta

  1. Per prima cosa mi piace ricordare il CAVALLO. La civiltà del cavallo e dell cammello non sono ininfluenti nella storia dell’uomo e nella comunicazione, anzi!

    Per quanto riguarda la comunicazione a distanza già nel 1987, nella rivista LA TARTARUGA, avevamo aperto una discussione ampia.

    Una bella pubblicazione (fuori commercio) della Sperry di Milano dal titolo “Le comunicazioni” tracciava la storia.

    Ora viaggiare nel web certo crea problemi nel rapporto presente/passato, ma, ma a mio sommesso avviso, NON è un problema del web, è invece un problema dell’utente che dovrebbe usarlo scientemente. È un problema della scuola che dovrebbe insegnarene l’uso.

    Una questione rilevante invece mi pare il cosiddetto ECCEDENZA DI INFORMAZIONE: troppa informazione equivale a RUMORE DI FONDO e quindi a NESSUNA INFORMAZIONE. Di nuovo la scuola sarebbe il luogo deputato a consentire scelte in questa eccedenza. Ad maiora (*_))

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