I monaci in Myanmar sono dappertutto, e credo di non averne mai visti così tanti. Di sicuro non ho visitato mai tanti monasteri. I monaci indossano abiti di un bellissimo color zafferano (non pensate al giallo del risotto, ma al rosso scuro dei pistilli). Le monache vestono di rosa e, a volte, di giallo: i colori dell’alba.

Il buddhismo Theravāda, diffuso in tutto il sudest asiatico e diverso dal buddhismo tibetano, si diffonde per la prima volta in Myanmar dall’India nel terzo secolo avanti Cristo, con i missionari inviati dall’imperatore Asoka. Una successiva ondata di missionari cingalesi arriva a partire dal sesto secolo. Oggi il buddhismo è praticato da quasi il 90% dei birmani.

I monaci birmani sono circa mezzo milione, le monache circa 75.000 in un paese che conta poco più di 53 milioni di abitanti. Per dire: secondo Vatican Tabloid, in Italia (quasi 60 milioni di abitanti) i religiosi (preti, monaci e monache) sono meno di 135.000.

I monaci in Myanmar hanno avuto e hanno un ruolo di assoluto rilievo sociale e politico già ai tempi del colonialismo britannico.
Già nel 1990, come forma di protesta, smettono di accettare elemosine dei militari: per capire il significato del gesto bisogna sapere che fare elemosina ai monaci è una tradizione buddhista e un modo per acquistarsi merito (kutho) contribuendo alla propria felicità futura, e che se un monaco rifiuta l’elemosina di qualcuno è come se lo scomunicasse.
Nel 2007 i monaci danno inizio alla Rivoluzione zafferano, il più ampio movimento antigovernativo di resistenza non violenta dalle elezioni del 1988. La rivoluzione viene brutalmente repressa dalla giunta militare. Se per caso vi siete scordati di questi fatti, investite tre minuti del vostro tempo per guardare le immagini.
Ora il clima politico è considerevolmente cambiato, ma restano delle tensioni: una frangia radicale sta facendo pressioni contro le minoranze musulmane (il 5% della popolazione).

I monasteri e i monaci in Myanmar continuano ad avere un ruolo determinante per quanto riguarda l’istruzione: 1190 scuole monastiche accolgono oltre 100.000 bambini e ragazzi orfani o appartenenti a famiglie bisognose (dato 2005).

Le comunità di monaci in Myanmar sono oltre 50.000 e la loro sussistenza è interamente affidata ai laici. Un monaco non può possedere nulla al di là di tre tonache, che riceve al momento dell’ordinazione, una tazza, un rasoio, un filtro per l’acqua, un ombrello e una ciotola per le elemosine. Vive seguendo 227 diversi precetti.
Tuttavia i monaci più attivi e istruiti parlano un buon inglese, usano il computer e il telefono cellulare, sono convinti di dover adattare ai tempi moderni il proprio ruolo di insegnanti e guide spirituali.
Il monastero Mahandayon si trova a 11 chilometri di distanza da Mandalay, nell’antica capitale di Amarapura. È una delle più grandi scuole monastiche del paese, è abitato da oltre 1400 monaci, è aperto al pubblico e negli ultimi anni si è trasformato in un’attrazione turistica.

Così, succede che a metà mattina, quando tutti i monaci, dopo essersi svegliati all’alba e aver mendicato, si mettono in fila silenziosamente per ricevere il loro pasto quotidiano offerto ogni giorno da una diversa comunità (un quartiere, un villaggio, un’azienda) debbano procedere tra due ali di turisti chiassosi, assatanati di colore locale e armati di macchine fotografiche.
In effetti, oltre ad essere un elemento fondamentale della spiritualità, della storia e del paesaggio umano del Myanmar, i monaci sono un fantastico soggetto fotografico: la loro presenza aggiunge a ogni immagine quel tocco di esotico misticismo che può renderla più suggestiva. Per questo vengono sempre più spesso molestati dai turisti.
Ho visto turisti cinesi strattonare un monaco perché si mettesse in posa facendo finta di pregare a mani giunte, incongruamente in piedi e voltando le spalle al tempio: ovvio, doveva restare in favore di macchina fotografica.

I monaci sopportano con ammirevole pazienza: sono convinti che aprire i monasteri e interagire con i turisti promuova la conoscenza del buddhismo e possa contribuire al sostegno economico delle istituzioni religiose. Però non guasterebbe se i turisti praticassero un po’ più di rispetto e di buone maniere. A proposito: vi rassicuro sul fatto che nessun monaco è stato molestato per scattare le foto che vedete qui.

Ogni birmano deve fare un periodo di noviziato in monastero una volta compiuti i sette anni e prima dei vent’anni. È un impegno e un orgoglio per ogni famiglia, che si esprime attraverso una complessa cerimonia.

È lo Shinbyu: il rito di passaggio che richiama la partenza del principe Siddhārtha Gautama (il Buddha storico) dal suo palazzo e culmina in una sfarzosa processione che si snoda attraverso le strade della città, ed è aperta da un elefante e una banda guidata da un clown con un parasole.
I ragazzini sono protetti dal sole da ombrelli dorati, stanno accomodati su carri dorati trainati da buoi, oppure sopra cavalli con bardature coloratissime. Sono truccati e vestiti di seta e oro come principi.

Una volta arrivati al monastero, i ragazzini abbandoneranno gli abiti principeschi, verranno rasati, chiederanno in lingua Pali al capo dei monaci di essere accolti come novizi, vestiranno la tunica da monaco ma dovranno seguire solo 10 dei 227 precetti monacali. Il noviziato dei ragazzini (e di alcune, ma non tutte, le ragazzine) dura come minimo una settimana, ma può prolungarsi fino a due-tre mesi.

Dopo i vent’anni, e anche se non ha deciso di prendere i voti, ogni uomo birmano tornerà almeno un’altra volta a servire in monastero come monaco adulto.
Questo articolo racconta alcuni dettagli di un viaggio in Myanmar. Se volete dare un’occhiata alle puntate precedenti:
Myanmar: un paese da vedere adesso
Il lago Inle: come vivere sull’acqua
È tutto oro quello che luccica in Myanmar