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Vincere o perdere: istruzioni per l’uso – Metodo 104

È come una sfida a ramino. Puoi vincere o perdere, ma quel che conta è la partita, dice Dario Fo poco prima di morire. Un bel congedo, da parte di uno che ha sempre giocato le sue carte vincendo e perdendo, e restando capace di riderci sopra.
Individui, squadre, partiti politici, imprese: a tutti capita di vincere o perdere. Si vince e si esulta o si perde e ci si dispera (o si recrimina), ma le cose non sono mai semplici come appaiono: una vittoria può anche anticipare un’ulteriore e più drammatica sconfitta, e una sconfitta può essere il primo passo verso una vittoria futura, ancora più luminosa. Quindi converrebbe sempre, come diceva la mia nonna, stare schisci.

NON È MAI FACILE. Ma è più facile vincere o perdere? Abbiamo un’ossessione per i vincenti, scrive Psychology Today.
Il sistema dei media la rinforza: chi vince è di norma più visibile di chi perde, e la visibilità è una conquista ulteriore perché conferisce, nell’immediato, ancora più potere. Nella cultura giapponese tradizionale, invece, anche la sconfitta può essere nobile e affascinante, ed esiste una parola bellissima, hoganbiiki, che indica la simpatia per il perdente.

CONCETTI SGRADEVOLI. Sbaglierò, ma a me sembra che nei concetti stessi di “vincente” e di “perdente” ci sia una componente sgradevole. E un pizzico di ignoranza delle cose del mondo.
E poi, perfino prendendo per buono il significato positivo dei due termini, non è per niente detto che chi vince una singola volta sia per definizione un vincente, e che chi perde sia in permanenza un perdente. Il modo e l’entità della vittoria o della sconfitta contano. Soprattutto conta, e moltissimo, quel che succede dopo. Per questo non sto scrivendo di vincenti e di perdenti ma di vittoria e di sconfitta, e dei problemi che con entrambe sono connessi.

VINCERE È COMPLICATO. Cominciamo con la vittoria e il successo. Il primo punto è tanto semplice quanto controintuitivo: vincere può anche essere terrorizzante o deprimente. Il secondo punto, invece, è ampiamente noto: nelle scienze, nelle arti, negli affari e perfino in politica, le migliori storie di successo spesso – lo ricorda Business insider – cominciano con un fallimento.
Il terzo punto dovrebbe aiutare a stare schisci. Nella vittoria e nel successo c’è, lo scrive l’ Atlantic, una componente di fortuna che molti tendono a sottovalutare per via dell’hindsight bias, il senno di poi, che ci fa ritenere che tutto quanto effettivamente capita fosse prevedibile e necessario, mentre non è così.
Tra l’altro, proprio le persone di maggior successo tendono a sottostimare la propria fortuna. Se solo se ne rendessero conto, sarebbero più generose e meno arroganti (e il loro successo sarebbe più duraturo). O sarebbero meno dubbiose e più grate (e si eviterebbero i tormenti connessi con la sindrome dell’impostore).
Eccoci al quarto punto, che vi rimanda a un bell’articolo di Time: il successo può rendere miopi. E, soprattutto, rende obsoleto il comportamento grazie al quale il successo medesimo è stato conseguito. Quindi, a chi vince tocca cambiare il proprio modo di essere e di fare, forse ancor più che a chi perde: vincere è solo l’inizio di una nuova storia, da raccontare in modi nuovi. Non è la lieta e permanente fine della storia.

PERDERE È DOLOROSO. A proposito di sconfitta e fallimento. Non raccontiamoci frottole: perdere è doloroso, favorisce l’aggressività, diminuisce l’autostima e la fiducia. E, poiché non siamo in Giappone, chi perde è anche spesso oggetto di scherno più che di simpatia.
Tuttavia failure sucks, but instructs, scrive in modo insolitamente colorito la Harvard Business Review: il fallimento è una schifezza, ma è istruttivo. Lo è a patto che non ci si ostini a ripetere gli stessi errori. Lo è (lo dicono diverse ricerche) a patto che siano costruttivamente discussi i motivi del fallimento, e che la discussione porti a costruire modelli mentali più efficaci.
Il dato interessante è che i modelli mentali risultanti dall’elaborazione dell’esperienza del fallimento risultano sempre più ricchi e fertili di quelli connessi con l’esperienza del successo. Dunque, a chi sperimenta una sconfitta, provare a capire che cosa è capitato e come le cose sarebbero potute andare diversamente serve più che incolparsi, o abbandonarsi a una recriminazione sterile.

Questo articolo esce anche su internazionale.it. È stato aggiornato nel marzo 2017.

5 risposte

  1. penso che se uno gioca bene le sue carte può perdere ma avrà fatto bene lo stesso. Sul tema dell’hoganbiiki concordo, talvolta il rigore e il rispetto delle regole non garantiscono la vittoria ma possono generare a loro volta rispetto verso chi preferisce perdere con onore anziché poi attaccare il sistema. Dove le regole sono labili e confuse invece, in qualche modo conviene sempre partecipare credo: se si vince bene, se si perde si imparano un sacco di cose e comunque si avrà avuto parte in un processo creativo di nuove e più collaudate regole.

  2. Non concordo sulla contrapposizione vincere/perdere. Si perde o si ha. Si perde il senso della realtà, si costruisce un modello della realtà semplificando, riducendo a schema, a sintesi approssimativa, dopo di che si ci convince che il modello è la realtà.
    La realtà non è costante, si rimodella continuamente, influenzata anche dall’interpretazione, e chi è capace di sviluppare un modello e una interpretazione più coerente e realistica è più prossimo alla verità.
    Se si costruisce un modello fatto di fandonie o di desiderata, sottoposto a verifica, a confronto, il castello di carte di cui è fatto non resiste alla pressione del vero e il tutto crolla.
    Nel caso odierno di castelli ne sono caduti più d’uno e ne crolleranno ancora. I modelli che si sono formati, e si formeranno dopo questa scossa, definiranno una nuova realtà ancora da interpretare e analizzare a fondo.
    In questo le semplificazioni dei ciarlatani non aiutano. Né vinti né vincitori, ma persone che hanno perso il contatto con il mondo reale e persone che hanno avuto una maggiore vicinanza con lo stato del Paese e del Mondo.

  3. Complimenti al signor Rodolfo. La sua analisi è lucida, realistica e pertinente. Dubito che si possa confutare una così netta obiettività.

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