Avete presente quando siete in riunione su Zoom e vi arriva un messaggio che annuncia una prossima riunione su Zoom proprio mentre state proponendo di differire una terza riunione su Zoom?
Bene: siete soggetti ideali per sperimentare l’affaticamento da Zoom.
Ovviamente non solo di Zoom si tratta.
Per esempio, avete presente quando siete su Meet, e impazzite per cercare quel tasto così comodo, che però stava su Zoom? O, chissà, su Teams?
CONNESSIONI DIFETTOSE 1. E avete presente quando vi ritrovate a parlare, cercando di essere convincenti, a uno schermo pieno di riquadri neri (e cara grazia se ci sono almeno i nomi dei partecipanti che dietro quei riquadri se ne stanno nascosti, e non gli pseudonimi o le iniziali), più una sedia vuota e un paio di faccine una delle quali sta telefonando, mentre l’altra è lì immobile con un’espressione strana, congelata per via della connessione difettosa?
CONNESSIONI DIFETTOSE 2.Oppure, avete presente quando siete voi a non riuscire a connettervi col computer (a me è successo venerdì scorso), e allora pensate di avvisare tutti accedendo alla riunione con l’iPad, e poi finalmente il computer parte e le due macchine entrano in risonanza e producono un rumore stridulo, interminabile e orrendo? Allora provate a spegnere in fretta qualcosa, anzi, tutto quanto, e puff, rieccovi fuori dalla riunione.
L’ENNESIMA RIUNIONE. Nei primi tempi tutto, incidenti compresi, poteva apparire nuovo e perfino divertente, ma adesso comincia a diventare faticoso. E devo ammettere che quando mi arriva un invito a partecipare all’ennesima riunione, su una piattaforma delle cui modalità di funzionamento non ho la più pallida idea, ecco, ne farei volentieri a meno.
Ma non è solo un problema, diciamo così, di software.
AFFATICAMENTO DA ZOOM. Ormai si parla di affaticamento da Zoom (Zoom fatigue), definendo per antonomasia, e a partire dal nome della piattaforma più nota, quell’insieme di stanchezza, stress e straniamento che capita di provare dopo aver passato ore a parlare a uno schermo.
Intendiamoci: non avere la possibilità di lavorare e interagire da remoto, in tempi di pandemia, sarebbe mille volte peggio. E, quindi, sia mille volte benedetto internet, con tutte le sue piattaforme. Però.
COMUNICAZIONE NON VERBALE. Però tutto ciò è stancante. Il motivo è semplice: ci abbiamo messo centinaia di migliaia di anni di evoluzione per imparare a decifrare intuitivamente e velocemente la comunicazione non verbale dei nostri simili (gesti, espressioni, postura, tono di voce).
È essenzialmente la comunicazione non verbale a trasmetterci emozioni. A definire la struttura delle nostre relazioni. A suggerirci se chi ci sta di fronte parla con sincerità o sta mentendo. E ad aiutarci a rispettare i turni di conversazione.
LO SCHERMO COME FILTRO. Il filtro dello schermo cambia tutto e, per entrare almeno parzialmente in sintonia con i nostri interlocutori, ci tocca stare più all’erta.
Tra l’altro: gli schermi tagliano via i corpi e ci lasciano le facce. L’unico modo disponibile per entrare in relazione è mantenere un costante contatto visivo, che però risulta faticoso da sostenere, e che può risultare intrusivo.
STANFORD E L’AFFATICAMENTO DA ZOOM. I ricercatori dell’università di Stanford hanno da poco pubblicato uno studio che dettaglia quattro diversi aspetti dell’affaticamento da Zoom e (questa è la parte più interessante) propone soluzioni concrete.
IL CONTATTO VISIVO. Ecco di che si tratta: il primo problema è proprio il contatto visivo. Nel corso di una riunione in presenza, il nostro sguardo su sposta dall’uno all’altro degli interlocutori, e poi alla stanza, e poi magari agli appunti che stiamo prendendo. In una videoconferenza tutti guardano tutti, costantemente. E le proporzioni delle facce sono sempre innaturali: o troppo piccole, o troppo grandi.
TROPPA INTIMITÀ. Il problema maggiore sorge quando una singola faccia viene vista a schermo intero, e il contatto diventa più intimo di quanto vorremmo. È un risultato per molti versi paradossale, dato che stiamo comunicando da remoto. Ma la percezione è quello che è, e un faccia vista da vicino può essere davvero intrusiva, specie se a nostra volta siamo vicini allo schermo. L’effetto di un primissimo piano è diverso se stiamo guardando la tv, o se siamo al cinema. E, soprattutto , se quella faccia non sta parlando “proprio a noi”.
VISI PIÙ PICCOLI. Meglio tenere ridotte le dimensioni dei visi, dicono i ricercatori. Conviene, insomma, scegliere l’opzione che permette di vedere tutto il gruppo dei partecipanti (risultato: fino a quarantanove faccine che appaiono sullo schermo – ovviamente coi buchi neri di chi sceglie di non farsi vedere) invece che l’opzione che mostra, a pieno schermo e dunque grande, la faccia della persona che di volta in volta sta parlando.
E pazienza se qualche dettaglio va perduto.
VEDERSI. Il secondo problema riguarda il vedere costantemente se stessi mentre si parla: è un’esperienza inedita, almeno per chi non frequenta studi televisivi pieni di monitor. Può essere distraente o disturbante. E il novanta per cento delle volte quel che si vede di se stessi non migliora né la sicurezza né l’autostima, perfino se si è avviata la funzione che riduce le imperfezioni (touch my appearance).
NASCONDERSI. Il suggerimento dei ricercatori è usare la funzione hide self view, che permette di nascondere a se stessi la propria immagine mentre il resto del gruppo continua a vederla. E mentre, naturalmente, si continua a vedere il resto del gruppo.
Non l’ho mai usata, e non so se esiste solo su Zoom o anche sulle altre piattaforme. Devo dire, però, che trovo ugualmente disturbante l’idea che al resto del gruppo continui ad arrivare un’immagine di me sulla cui qualità ho rinunciato ad avere alcun controllo.
In ogni caso, se si decide di usare questa funzione, è meglio farlo dopo aver accertato di essere correttamente inquadrati, e che tutto sia a posto. Diverse piattaforme permettono di eseguire questa verifica già prima di connettersi.
INCHIODATI ALLA SCRIVANIA. Le videoconferenze ci inchiodano alla scrivania, in modo molto più ferreo di quanto non accada in una riunione normale (in quei casi ci si può sempre alzare per andare alla macchina del caffè) o durante una telefonata.
Soluzioni proposte: allontanarsi dalla videocamera per conquistare un maggiore spazio di movimento. Ogni tanto, concedersi una pausa disattivando la funzione-video.
Ma devo aggiungere che conosco persone abituate a partecipare alle videoconferenze dal telefonino. Magari lo fanno camminando in esterni, e sembrano perfettamente a loro agio.
FATICA COGNITIVA. Ed eccoci al quarto problema. In generale, e proprio perché la comunicazione via schermo è innaturale, la fatica cognitiva che dobbiamo affrontare è molto più alta di quella richiesta dalle normali interazioni personali. Per farci capire dobbiamo essere più chiari, più espliciti. Insomma, più leggibili. Per capire gli altri dobbiamo stare più attenti. La soluzione, dicono i ricercatori, è anche in questo caso prendersi delle pause interrompendo la funzione-video.
ABBREVIARE E INTERROMPERE. Su quest’ultimo punto, però, non sono così d’accordo. Spegnere la videocamera può dare conforto a chi lo fa, ma può mettere a disagio gli altri partecipanti. E farlo è impossibile se si sta gestendo un corso da remoto, o si tiene una lezione, o si sta presentando un documento.
Un’altra soluzione – che caldeggio molto – può essere accordarsi per fare riunioni brevi. Basta istituire un’agenda chiara, e imparare a essere sintetici. Oppure, si possono concordare dieci minuti di pausa, idealmente ogni 50 minuti, ma almeno ogni ora e mezza di incontro. Così tutti insieme ci si sgranchisce e si tira un sospiro di sollievo.
EVADERE DA ZOOM. Certo, ci sarebbe anche la soluzione Zoom Escaper, il programma progettato per evadere dalle riunioni con il pretesto di una comunicazione troppo disturbata, e dunque disturbante per gli altri. Qui il tutorial.
Ma vi avverto che la notizia sta già girando in rete, e che rischiate di farvi sgamare subito. Se proprio siete disperati, provate a replicare l’esperimento computer + iPad. Rassegnandovi, però, a fare la figura dei boomer trogloditi con la tecnologia.
Ciao Annamaria,
forse puó sollevarti il fatto che è successo anche a me quello di essere collegato con 2 apparecchi. Dopo essere stato colpito dai suoni degni di un’astronave, e non riuscendo a spegnere solo il telefono senza perdere tutto, ho infilato il telefono sotto il divano. Ogni tanto sussultava, ma almeno sono riuscito a finire.
Altra esperienza. Ho tenuto un seminario interno, zero telecamere accese. Chiedevo se c’erano domande, e nulla. Allora chiedevo se mi sentivano e qualcuno diceva un timido “sì” e poi richiudeva. L’incontro è durato 1h30, ma quando ho guardato la lista dei partecipanti per mandare il materiale, ho visto che qualcuno era rimasto collegato per 2h. Ho dovuto segnarlo come presente, ma ho ancora forti dubbi…
Per tenermi su di morale quando parlo ad un muro di nomi scritti sul video, penso a chi parla alla radio, che lo fa di mestiere e non ha alternative. Mi sento un po’ dj, anche se parlo di analisi dei costi.
Ciao Roberto,
mi sembrano degli ottimi e ragionevoli punti, i tuoi.
E comunque, ripeto: cara grazia che c’è internet.
Abbiamo da poco terminato il Laboratorio di Storia sul libro di Rutger Bregman “Una nuova lettura (non cinica) dell’umanità” in remoto sulla piattaforma Zoom.
Il libro, confuso, contraddittorio, noioso e lacunoso trattava (si fa per dire) un tema da te ben argomentato su NeU in “La cooperazione ci ha reso umani. E ci avvantaggia sempre”.
L’unico fatto positivo è, come annota Luisa Carrara, “un’immersione più profonda, una concentrazione speciale sia da parte di chi insegna che da parte di chi è lì per sperimentare e imparare.”
Infatti nel gruppo c’è stato un maggior approfondimento scritto.
Zoom ha incrementato la richiesta di interventi di chirurgia plastica, eh già tendenzialmente siamo delle brutte persone cara Annamaria!