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Crisi climatica: una pandemia al rallentatore

Facciamo un passo avanti. 
Tutti, ma proprio tutti, hanno sottostimato il rischio pandemico. Non ricaschiamoci, tornando a sottostimarlo. O sottostimando rischi ancor peggiori. Impariamo dagli errori. Cogliamo i segnali.
Un ottimo articolo su The Correspondent individua quattro importanti analogie tra pandemia e crisi climatica. Entrambe sono, all’inizio, “invisibili”, e hanno un “periodo d’incubazione” (settimane in un caso, anni nell’altro) che ne maschera la gravità. Entrambe sono pervasive: riguardano l’intero pianeta e nessuno può considerarsi tanto lontano da non subire qualche conseguenza. In terzo luogo, entrambe affliggono tutti, ma colpiscono le persone e le categorie più fragili e disagiate con particolare violenza. Infine: per entrambe, le soluzioni coincidono con grandi cambiamenti su scala globale.  In sostanza: la crisi climatica è una pandemia “al rallentatore”.

IRREVERSIBILE. Ma la crisi climatica è, per altri versi, peggiore della Covid-19 perché, oltre una certa soglia che è stata chiaramente indicata, è irreversibile. E perché non c’è (non può esserci) un “vaccino” che ci permette di continuare a vivere come sempre mettendoci però al riparo dal rischio. 

PAESI FRAGILI. La crisi climatica è peggiore anche perché i paesi più fragili, quelli che possono risultare più colpiti, sono anche densamente popolati: stiamo parlando di India, Africa, Sud America, Medio Oriente. L’unica cura possibile per la crisi climatica è la prevenzione. Cambiare prima che sia troppo tardi. E agire prima che il problema diventi così drammatico da non poter essere più né ignorato, né risolto. Questa è una chiave: quando il problema sarà evidente a tutti, sarà anche troppo tardi per risolverlo.

CALDO ESTREMO. Un recentissimo studio, svolto da scienziati americani, europei e cinesi, ci dice che più di tre miliardi di persone potrebbero essere esposte al caldo estremo entro il 2070, e che, in assenza di contromisure radicali, le temperature dei prossimi 50 anni potrebbero modificarsi e accrescersi più di quanto abbiano fatto negli ultimi 6000 anni. Per dire: 6.000 anni fa eravamo ancora ai limiti estremi dell’Età della Pietra.
Chiariamoci: il caldo estremo significa difficoltà di approvvigionarsi d’acqua e di cibo. Carestie. Migrazioni. E mille altri sconvolgimenti.
E il 2070 non è “fra un sacco di tempo”. Chi oggi ha vent’anni, o trenta, e perfino quaranta, ha discrete possibilità di arrivarci. Ovvio: ammesso che la speranza media di vita continui a crescere com’è successo fino al 2019 (Istat, ultimi dati disponibili). 

IMPRESSIONE DIRETTA. Se volete avere un’impressione visiva degli sviluppi della crisi climatica, c’è un bell’articolo della BBC. È stato pubblicato nel gennaio 2020. Un attimo prima che tutti ci mettessimo a parlare della pandemia, scordandoci il resto. 
Se volete avere un’impressione diretta, vi basta aspettare che arrivi l’estate. C’è un 75 per cento di probabilità che sia in assoluto la più calda dal 1880, anno in cui sono iniziate le registrazioni strumentali, e un 99,4 per cento di possibilità che sia fra le cinque più calde da allora. 

IMPATTI RIDOTTI, MA DI POCO. Durante il lockdown il mondo si è fermato. I cieli di Pechino e di Los Angeles sono diventati più azzurri e gli alberi nei viali di Milano non sono mai apparsi così verdi e rigogliosi. Eppure si stima che al 30 aprile le emissioni siano scese solo dell’8 per cento. Si è ridotto l’impatto dei trasporti, una parte dell’intero sistema produttivo ha rallentato, ma abbiamo continuato a consumare energia e calore. E comunque noi non dobbiamo ragionare in termini di rallentamento, ma di cambiamento.

EQUILIBRI SOTTILI. Dobbiamo cambiare adesso. Non ci sono evidenze che il virus che causa la Covid-19 sia sfuggito a un laboratorio. Ma certo: pensare a un “nemico invisibile” che è espressione di un “complotto”, e a cui si deve fare “una guerra”, fa comodo a molti. 
Oltre a incoraggiare la paranoia e le istanze divisive, queste credenze permettono infatti di ignorare un dato di fatto macroscopico: il pianeta non è lo scenario inerte e immutabile della nostra espansione e delle nostre scelte predatorie. Il pianeta pullula di vita che è altro da noi. E si regge su equilibri sottili, alterando i quali mettiamo a rischio in primo luogo quella forma di vita che siamo noi stessi.

DUE DIRETTRICI. Oggi bisognerebbe saper ragionare su due direttrici: le emergenze, economiche, sociali, sanitarie, hanno bisogno di risposte immediate, efficaci e comunicate con chiarezza. 
I problemi strutturali, in ambito economico, sociale e sanitario, hanno bisogno di soluzioni di lungo periodo, che tengano conto del complesso dei rischi presenti e futuri a cui sono esposti i paesi, le popolazioni e il pianeta. Prima fra tutti la crisi climatica, con tutte le sue gigantesche implicazioni. È alla luce della crisi climatica che deve essere studiata la validità delle soluzioni, nessuna esclusa.

NON COME PRIMA. Requisito importante: anche le risposte immediate dovrebbero essere in linea, e non in contraddizione, con le soluzioni a lungo termine. In altre parole: le cose non possono e non devono tornare come prima. A tutti coloro che in minima o in maggiore parte governano le sorti del mondo è chiesto uno straordinario sforzo di visione.

SOGNO O INCUBO. Abbiamo una finestra temporale di pochi mesi per decidere come tutto quanto andrà a finire, affermava qualche giorno fa Noah Harari. Ora Timothy Garton Ash, dalle pagine del Guardian, ribadisce che da una parte c’è il sogno di un sistema più equo, cooperativo e sostenibile, dall’altra l’incubo di un mondo egoista, disuguale, e con più che possibili derive autoritarie. E che sta a noi scegliere, adesso.

ATTENZIONE. A parte privilegiare scelte individuali sostenibili (alimentazione e consumi in primo luogo) c’è qualcos’altro che ciascuno di noi può fare: continuare a parlare di questi temi. Mantenere alta l’attenzione, tanto da esercitare pressione crescente sui decisori. Il sistema dei media oggi è tale da permettere a una moltitudine di singoli che converge su un argomento di far sentire la sua voce. 

4 risposte

  1. Produrre denaro con il denaro è oggi l’attività che più orienta e determina il futuro della specie umana. Il capitale scambiato e posseduto dalla finanza mondiale, gestita da singoli utili anacoreti davanti ai loro display, impegnati a scambiare numeri senza alcun rapporto con la realtà, è ormai diverse decine di volte maggiore del capitale materiale dei popoli e delle nazioni.
    La finanza fondata sul prestito e sulla rendita da accumulo prevede che, una volta soddisfatti bisogni e desideri, il surplus non solo debba restare nelle mani di chi lo detiene anche se non ne ha necessità, ma che, prestato più o meno a usura, produca plusvalenza. Con questa semplice regola si fa in modo che chi è ricco continui ad accrescere le sue ricchezze a scapito dell’immensa platea dei più poveri.
    Il disastro pandemico in corso che ci coinvolge e che sta espandendosi ai paesi del terzo mondo, potrebbe costituire un punto di svolta. Se alcuni supposti retroscena sull’origine del virus, sostenuti anche da premi Nobel non hanno fondamenta, è invece certo che la devastazione dell’ecosistema ha consentito e agevolato il passaggio del virus da animale a uomo. È il disequilibrio complessivo la prima causa della pandemia. Il filosofo Umberto Galimberti sostiene che già da tempo l’uomo non abita più la Terra. Viviamo in un ambiente artificiale totalmente progettato e costruito, sviluppato secondo tipologie ricorrenti, tutte modellate dall’esigenza basilare di accrescimento del capitale
    Sarebbe, la pandemia, una grande opportunità per ripensare il modello economico e sociale planetario, ma le forze in campo sono totalmente squilibrate e mi fanno pensare che non siamo poi messi tanto bene in quanto a razionalità. Perché proprio di razionalità si tratta: stiamo facendo i conti con la realtà di un pianeta devastato e che potrebbe avere ben altre vie da seguire. Temo che quest’avvenimento che ci tiene chiusi in casa a riflettere, non ci faccia poi riflettere abbastanza. Le fasi due e tre, e la quattro… ci diranno come andrà a finire. I presupposti e i fremiti degli irrequieti timorosi proseliti della finanza e della crescita quantitativa, delle liberalizzazioni e della cancellazione delle regole, non riusciranno ad eliminare la burocrazia, in fondo da sempre dalla loro parte, ma riusciranno in nome della ripartenza ad accrescere e concentrare ulteriormente potere e ricchezza.
    Noi altri, in balìa di virus, dell’ambiente sempre meno vivibile, di risorse sempre meno accessibili e disponibili solo quel tanto da farci essere servili consumatori di merci effimere, saremo sempre più precari, avventizi senza identità e prospettive. Molti ritengono che a sparigliare le carte possa essere la rete, la immediata diffusione delle notizie. In un periodo nel quale la storia è un semplice racconto del percorso che ci ha portati all’oggi radioso e il futuro è un banale accrescimento del presente, è sempre “ora” e “ora” non lo è mai.

  2. Sulla bellissima rassegna-stampa quotidiana del Corriere della Sera, Gianluca Mercuri riprende l’articolo di The Correspondent con una sintesi che mi sento di riproporvi integralmente.

    «Lo so. Probabilmente non ne potete più. Ma fatemi parlare un momento della crisi che sta attanagliando il mondo. Sottovalutata e ignorata a lungo. Inizialmente trattata dai populisti come una scemenza. Con un impatto più duro sui più vulnerabili, con Cina e Stati Uniti epicentro del problema. Sto parlando, naturalmente, del cambiamento climatico».

    L’attacco a effetto serve a Rob Wijnberg – filosofo olandese e fondatore del giornale online De Correspondent, che ha in orrore le notizie perché «distorcono la comprensione della società», e dunque predilige le analisi – a spiegare immediatamente dove vuole andare a parare: clima e Covid sono due crisi che si somigliano maledettamente. Wijnberg dice che il climate change è una pandemia al rallentatore, e che la pandemia è un climate change in pentola a pressione: stessa materia prima, ma cuoce molto prima. Vediamole allora queste analogie: sostengono tesi che potranno sembrarvi provocatorie o illuminanti, ma sono argomentate divinamente.

    Somiglianza numero 1: il problema è invisibile. «L’aspetto veramente pericoloso del Covid non è che la malattia che causa sia seria, ma che non sia seria per un sacco di persone. Il fatto che molti contagiati non abbiano sintomi ha contribuito alla diffusione del virus». Allo stesso modo, la maggior parte di noi sperimenta pochi effetti del riscaldamento globale. La temperatura della Terra aumenta di un grado e mezzo? La reazione è uguale a quella iniziale al virus: «È come un’influenza», e non ammazza noi. Il cambiamento climatico ha un’«incubazione» di decenni, per questo ce ne accorgiamo troppo tardi. I suoi sintomi – specie che si estinguono, oceani che si acidificano – appaiono fuori dal nostro campo visivo. Proprio come Wuhan, all’inizio.

    Somiglianza numero 2: tutti possiamo contagiare e inquinare. Ma anche no. «Il filosofo tedesco Martin Heidegger descrisse una volta la globalizzazione come “l’abolozione della distanza”. Oggi sappiamo perché». In meno di due mesi, un virus si è diffuso da una città cinese a 187 paesi. Lo stesso vale per il mondo: in un pianeta con una sola atmosfera, il concetto di “qui” e “là” sfuma: «La bistecca che mangiamo “qui” minaccia il raccolto di un contadino “là”. L’aereo che qualcuno prende “là” alza il livello dell’acqua “qui”». Come una pandemia, ma a diffusione lenta. E il parallelo vale anche per la cura. Ognuno di noi è una parte della soluzione, piccola ma fondamentale. «Ogni individuo che resta a casa ha un effetto enorme sull’eventuale diffusione del virus», e lo stesso vale per il clima: ogni riduzione dell’impatto ambientale di una sola persona, una sola organizzazione, un solo paese, è piccola ma fondamentale. Contribuisce a vincere la dipendenza dai combustibili fossili. «Anche la sostenibilità è una forma di immunità di gregge».

    Somiglianza numero 3: il problema colpisce tutti, ma non nello stesso modo. Il virus sa anche discriminare. Colpisce preferibilmente gruppi ben determinati: anziani, persone di colore, migranti, adulti con istruzione scarsa, persone indebitate, persone con reddito basso, disoccupati, persone senza assistenza sanitaria. Vale anche per il clima. Il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile della metà delle emissioni di anidride carbonica attraverso i consumi; il 50% più povero è responsabile solo del 10% delle emissioni, ma è quello che ne patisce di più. Gli scienziati parlano di ineguaglianza climatica e il concetto si può ampliare in ineguaglianza virologica. Il distanziamento sicuro, per esempio, non è per tutti, perché non tutti «possono permettersi di ritirarsi nell’individualismo». Magari per campare sono costretti a mischiarsi agli altri e a correre più rischi. Lo stesso vale per i paesi poveri, cui non è semplice chiedere di stoppare all’improvviso lo sviluppo per motivi ambientali, mentre noi ricchi ora possiamo goderci il nostro e convertirci molto più serenamente all’ecologismo.

    Somiglianza numero 4: la soluzione deve essere su scala globale. Wijnberg avverte che anche i negazionisti climatici fano un parallelo col virus: «Milioni di persone che perdono il lavoro, ristoranti che chiudono, nessuno che viaggia. Ecco dove vuole portarci la mafia del climate change!». Ma nessuno chiede di combattere l’emergenza climatica con le stesse misure con cui combattiamo il virus. «Una società sostenibile non è un bunker pandemico. L’analogia è che il cambiamento necessario investe ogni aspetto della vita sociale». E dunque: «Continuare a vedere la Terra come una risorsa infinita e il cielo come un cestino dell’immondizia, allo scopo di gonfiare artificialmente i conti trimestrali, con i Ceo seduti in uffici a prova di realtà a contare i loro bonus e a chiedere salvataggi a carico dei contribuenti ma rifiutando di pagare le tasse: no, questa è la “normalità” a cui semplicemente non possiamo permetterci di tornare». Ma perché troviamo molto più difficile passare alla green economy che accettare tutti i cambiamenti sconvolgenti che abbiamo subìto con il virus? Perché le terapie intensive strapiene non sono adatte al negazionismo. Ma così il virus ci ha dimostrato che per proteggerci siamo capaci di cambiamenti enormi e veloci. «E quindi è il momento di risolvere non una crisi ma due», per esempio usando bene i fondi europei. Obiettivo: «In 30 anni, l’ordine mondiale basato sui combustibili fossili deve essere trasformato in una economia zero-carbon». (Ergo, niente fondi a industrie che non si adeguano all’obiettivo). «Perché non provarci? Prima che in terapia intensiva ci finisca Madre Terra».

  3. I tempi che ci attendono devono essere la continuazione del presente. La pandemia è un piccolo incidente, abbiamo toccato la ghiaietta al lato della carreggiata, una leggera sbandata che ci ha costretti quasi a fermarci, ora non ci resta che riprendere la corsa e accelerare d’impeto verso un futuro radioso e, finalmente, “valutare senza pregiudizio” il ponte sullo Stretto, la scuola paripatetica all’aperto nelle scatole di polimetilmetacrilato…
    L’esigenza espressa con urgente e ottimistica veemenza è di tornare alle amate partite di calcio, alla cementificazione toccasana di ogni male –ora che i miliardi piovono dal cielo– e vivere felici senza Greta.
    Proprio in questo imperativo di normalità è racchiusa l’anormalità. La crisi ambientale, la devastazione e l’artificializzazione di ogni aspetto dell’intero pianeta sono alla base di uno stato di disequilibrio sempre più precario, che sono concausa diretta di questa pandemia e delle modalità della sua diffusione. Tutte le emergenze che si sono susseguite e si susseguiranno con sempre maggiore frequenza non ce le siamo messe alle spalle ma sulle spalle, contribuendo sempre più a farci vacillare.
    Vorrei approfittare di questo spazio per invitare gli amici di Nuovo e Utile alla lettura de” Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff, edito dalla Luiss University Press, oltre cinquecento pagine che vi potranno dare un’idea chiara del presente e del prossimo futuro determinato dalle tecnologie informatiche e dai tanto innocenti e gratuiti social. E con interessantissimi riferimenti alla Sanità, alla gestione dei dati personali sanitari…
    Buona lettura.

  4. “L’unico movimento di massa che sembra essere nato in questi anni è quello contro il cambiamento climatico.
    Che però non è fondato su una politica di classe, gli manca un’analisi strutturale dell’economia dominante. Non si possono controllare le corporation multinazionali, dir loro come e cosa produrre, dove prendere le materie prime. Non si può controllare ciò che non si possiede, e senza controllo non possiamo proteggere il pianeta. Serve una leadership: le masse sono motivate se vedono un problema, ma la leadership deve comprendere le radici del problema. Serve un’analisi coerente dell’essenza del movimento, altrimenti si dissiperà”.
    Ken Loach

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