A maggio del 2016 scade la convenzione con la quale lo stato concede in esclusiva alla Rai la gestione del servizio pubblico televisivo. Non è solo un passaggio amministrativo. La convenzione risale al 1994, quando la tv satellitare e il web come lo conosciamo oggi erano di là da venire, e stabilisce quel che la Rai, come servizio pubblico, deve essere e fare: per esempio, deve trasmettere su tutto il territorio nazionale. Deve dedicare un adeguato numero di ore di trasmissione all’educazione, all’informazione, alla formazione, alla promozione culturale, con particolare riguardo alla valorizzazione delle opere teatrali, cinematografiche, televisive, anche in lingua originale, e musicali riconosciute di alto livello artistico o maggiormente innovative.
E ancora: deve valorizzare la lingua, la cultura e l’impresa italiana, deve permettere l’accesso alle trasmissioni a partiti e associazioni, deve trasmettere messaggi di utilità sociale, deve parlare anche in tedesco, ladino, francese e sloveno nelle province e nelle regioni autonome, deve offrire contenuti destinati espressamente ai minori, deve conservare gli archivi, produrre una quota di opere europee, tutelare le persone con handicap sensoriali, realizzare attività di insegnamento a distanza…
Insomma, in teoria un sacco di roba utile e, magari, anche interessante, che però è difficile tenere insieme con l’esigenza di non perdere pubblico, con una macchina pesante, complicata, irrazionale, invecchiata e sprecona, con un garbuglio in apparenza inestricabile di competenze professionali eccellenti e clamorose inefficienze, con una spropositata produzione di telegiornali (regionali, nazionali, del mattino, flash, del mezzogiorno, del pomeriggio, della sera e della notte) con una norma legislativa, la legge Gasparri, che riguarda il governo di tutto ciò ed è nata tra mille controversie (e questo è un eufemismo: stiamo parlando di 130 sedute parlamentari e 14000 emendamenti prima dell’approvazione).
Aggiungete, infine, che sono variamente in crisi d’identità canali (i tre maggiori) e canalini Rai (complessivamente undici, tutti attorno o anche pesantemente sotto l’1% di share. L’ultimo, Rai Scuola, fa lo 0,01%) ai quali è delegata una discreta parte dell’attività culturale e per ragazzi.
Risultato: anche se la tv resta la prima agenzia di informazione per oltre la metà dei cittadini, (Eurispes 2013), oggi un telespettatore su otto abbandona la Rai per migrare verso canali tematici satellitari e pay-tv, o verso tablet e computer. A resistere è solo il pubblico degli ultracinquantenni.
L’idea governativa di sfilare dal macchinone 150 milioni di euro ha, se non altro, riacceso l’interesse a proposito del tema. Per chiarirsi le idee sul quale si potrebbe guardare quanto sta facendo la Bbc, forse la televisione pubblica con la reputazione più solida in tutto il mondo. Certo, anche la Bbc ha i suoi guai: pesanti tagli del personale, pressioni per eliminare la licence fee (il canone inglese). Ma la qualità dell’offerta resta alta. Un’indagine 2013 di Inflection Point mostra che meno del 5 per cento degli intervistati giudica “molto buoni” i programmi della tv pubblica italiana: è la percentuale più bassa fra i 14 paesi del campione. La Bbc si guadagna il 30 per cento: la percentuale più alta. L’indagine dice un’altra cosa importante: nei paesi che hanno una buona tv pubblica, anche la qualità dell’offerta della tv privata è migliore. Tra l’altro: non è che la Bbc sia, in proporzione, più ricca (o più costosa) della Rai. Una bella indagine de Lavoce.info mette i numeri delle due emittenti a confronto. Scoprendo, per esempio, che anche se la Rai è più piccola ha più dirigenti della BBC, meglio pagati per ottenere, ripetiamolo, risultati peggiori.
Tra l’altro, anche la concessione della Bbc è in scadenza (dicembre 2016), ma merito e metodo delle procedure inglesi fanno la differenza: la “costituzione” della BBC (Royal Charter) prevede tre anni di procedura di revisione, la diretta consultazione di tutti soggetti interessati (cittadini, associazioni di categoria, addetti ai lavori, forze della cultura e dell’impresa), un rapporto formale dell’emittente, con proposte di revisione dell’offerta e misurazioni obiettive del “Public Value”. È un processo tanto lungo quanto meditato e condiviso.
Oggi le discussioni sui possibili assetti Rai si moltiplicano, e generici appelli alla creatività e alla qualità provenienti dalle fonti più improbabili si sommano. Ma, sarò ingenua, dopo decenni di assenza di progetto e di stordito appiattimento della tv pubblica sull’immaginario e sugli stili della concorrente Mediaset, questo mi sembra un ulteriore modo strampalato di procedere: un po’ come discutere del controllo, degli assetti, della dislocazione e perfino dei macchinari e dei reparti di una fabbrica dicendo che farà cose meravigliose, ma senza dire quali, come, perché, per chi, con che obiettivi e assumendo quale identità in un contesto concorrenziale affollatissimo e, a sua volta, caotico, in rapido mutamento e in – diciamo così – contrapposizione dialettica con l’offerta del web.
Un buon punto di partenza per progettare sarebbe abbandonare il pregiudizio che formazione e intrattenimento, educazione e successo di pubblico siano inconciliabili. E ricordare che la Rai può tornare a essere protagonista del cambiamento e della modernizzazione del paese, proprio com’è stata negli anni Sessanta. La Bbc, ancora una volta, dà buoni esempi. Ma anche fuori dall’Europa vere e proprie rivoluzioni sociali oggi vengono attivate da programmi televisivi innovativi.
L’Economist racconta che le telenovelas della rete pubblica brasiliana Tv Globo hanno contribuito all’emancipazione delle donne e a diffondere modelli di ruolo paritari: guardarle vale come andare a scuola per due anni in più. Esempi analoghi vengono da Turchia e mondo arabo, o dall’India, dove la fiction Alo, che parla di una ragazzina che fa di tutto per andare a scuola, ha convinto milioni di persone che l’istruzione è importante e, soprattutto, desiderabile.
Nell’ultima puntata di Visionari, condotta da Corrado Augias, il sociologo Ilvo Diamanti dice che anche noi vorremmo cambiare le regole del gioco: quelle del piccolo gioco televisivo. Una televisione che serva a qualcosa. Ammesso che l’operazione riesca.
L’operazione non è semplice, ma può riuscire. Basta ricordare che, se si progetta un’offerta televisiva, le regole servono ma, prima di tutto e in tutti i sensi, serve una visione.
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Senza neppure andar troppo lontano e scomodare la BBC, la Rai potrebbe dare un’occhiata ai prodotti della concorrenza. Possiamo discutere fin che vogliamo sulle fiction dove il super prete del martedi, la domenica si trasforma in una guardia forestale, ma dopo aver visto la qualità di serie come Gomorra o Romanzo Criminale si capisce perché un telespettatore su 8 abbandona la Rai.
I dirigenti Rai, hanno mai visto i documentari (acquistati e realizzati) trasmessi da Sky Arte?
Nell’ampia gamma di scelta che abbiamo a disposizione, inoltre, l’alta risoluzione può far la differenza, tra un programma visto sulla Rai e uno sul bouquet Sky.
E’ così difficile copiare prodotti (e tecnologie) che funzionano?
La Rai è così importante (politicamente) perché influenza quel 30% abbondante di italiani che non leggono e sono analfabeti funzionali, e che si informano solo attraverso la tv. Il ruolo educativo la Rai nei loro confronti lo ha già fallito (hanno un’età media elevata, se la Rai fosse stata capace di farli crescere culturalmente l’avrebbe già fatto). Per chi sa leggere e accede a Internet, il Servizio Pubblico Rai oggi è pressoché irrilevante.